Metadiario – 161 – Il Pilastro Gabrielli (AG 1991-004)
Di ritorno dalle norvegesi Lofoten, approfittando del rimasuglio di ferie di Bibi, il 21 agosto 1991 andai con lei in Val di Mello. Al pomeriggio mi concessi la ripetizione di Mixomiceto, accanto alla Cascata del Ferro. In apertura, nel 1977, avevo fatto la via da secondo, perciò questa volta il farla da primo mi diede una certa soddisfazione, viste le mie doti non eccelse in aderenza. A dispetto del suo quasi sesto mese di gravidanza, anche Bibi volle farla da seconda e naturalmente ci riuscì bene.
Venerdì 23 agosto invece fu la volta del Pilastro del Bastògene, sulle Dimore degli Dei. Ero assieme al fortissimo Gianluca Maspes e a Mauro, un suo amico. Sette anni prima, nel 1984, erano stati Lorenzo Moro e Giuseppe Joseph Prina ad aprire questo itinerario di 8 lunghezze. Lo avevano fatto procedendo dal basso, ad eccezione della quarta lunghezza, la placca che hanno preferito proteggere a spit chiodando preventivamente dall’alto.
Ricordo appena la difficile fessura iniziale (6a+), qualche flash di maggiore coscienza sulla placca con una grande vena di quarzo del terzo tiro (6c), infine buio assoluto sul quarto tiro, dato di 7b, che certamente Gianluca avrà fatto in libera ed io attaccandomi ai chiodi da secondo. La via non era finita lì: la quinta lunghezza presenta ancora difficoltà di 6b e poi, tanto per gradire, nella sesta un diedro strapiombante di 6c+. A quel punto ci trovammo sui due tiri della variante Lucertole al Sole della via Albero delle Pere, che avevo già salito nel 1977.
Ai primi di settembre iniziò la grande avventura del trasferimento della sede di Melograno Edizioni, K3, Montana e Mountain Wilderness da via Montebello 14 a viale del Ghisallo 16, vicino a piazzale Kennedy. Per noi era un grande passo avanti, avevamo a disposizione una stanza piccola, tre locali grandi e due di medie dimensioni. Nella piccola mi sistemai io, nei due medi piazzammo l’ufficio di Giovanni Rosti e la sala riunioni; nei grandi allocammo la sede operativa di Montana, quella di Melograno/K3 e la segreteria. Tutti i vani erano molto luminosi, con grandi vetrate, ad eccezione del mio localino. Ma a me piaceva così, mi sentivo più raccolto.
La segreteria aveva due scrivanie, quella di Giovanna Pierini, che si occupava di Montana e aveva sempre con sé il suo cane Nina, e quella di Monica Mazzucchi. Il salone Melograno/K3 ospitava quattro scrivanie, quelle di Marco Milani, di Paolo Romanini, del nuovo acquisto Luca Pennone e del quasi sempre assente Popi Miotti (abitante e operativo a Sondrio, uno dei primi esempi al mondo di smart working). Il salone Montana, all’inizio abbastanza vuoto, presto avrebbe ospitato Mario Pinoli (1992) e Andrea Bavestrelli (marzo 1993), geologi; poi, nel 1995, Lorenzo Nettuno, ingegnere ambientale.
Ma con enorme senso di sollievo il trasferimento in viale del Ghisallo aveva anche portato una “liberazione” per me. Avevamo infatti a disposizione gratuita un davvero grande magazzino nel seminterrato, dove io al più presto feci convergere, oltre ai libri in vendita che avevamo pubblicato o che avevamo in deposito come intermediari, tutte le riviste e libri miei personali che fino ad allora tenevo in ordine sparso. Così sparso da non ricordare neanche tutti i luoghi. Finalmente avevo sottomano la mia preziosa biblioteca.
Questo magnifico passo avanti lo dovevamo all’amicizia e alla disponibilità di Alberto Sorbini, l’amministratore e proprietario della Also-Enervit che aveva i propri uffici proprio accanto ai nostri. Ma di questo devo ringraziare anche suo fratello Pino, la sorella Maurizia e ovviamente anche il padre Paolo. Tutti ci volevano bene, e avrebbero potuto affittare quei locali ad un prezzo ben superiore a quello che avevano riservato a noi.
Al casino del trasloco si aggiungeva che eravamo un po’ indietro con il programma ghiacciai di Aquila Verde. Giovanni Rosti ed io facemmo coincidere il periodo in cui era prevista la terza manifestazione di Mountain Wilderness per la chiusura della strada privata Misurina-rifugio Auronzo con alcune uscite sui ghiacciai che ci mancavano.
Ma per prima cosa, il 7 settembre, Giovanni ed io ci concedemmo una salita a lungo sognata. Avevamo tanto sentito parlare del Pilastro Gabrielli alla Parete di Mandrea come una delle più belle e impegnative vie della Valle del Sarca. Un itinerario aperto nientemeno che da Giuliano Stenghel con Giorgio Vaccari il 10 maggio 1978, elegante come esecuzione, evidente anche al più distratto dei viandanti.
Questa via è così capolavoro che non posso non osservare quanto, anche nel secolo XXI, sia rimasta sostanzialmente integra nelle sue caratteristiche.
La sua eleganza suprema è così solitaria da non andare in contrapposizione con altre tipologie d’itinerari e altre mentalità. Ancora oggi è un monito: promuove la consapevolezza che ciò che oggi va di moda (vie a spittatura seriale da un lato e vie “stile Grill” dall’altro) non è il solo modo per fare bellissime esperienze di arrampicata, perché qui ciò che si conquista è con i propri mezzi e proprie capacità, quando altrove ci si approfitta del lavoro e della preparazione fatta da altri.
Stenghel e Vaccari salirono in pedule rigide quell’impressionante prua di roccia solida e rossastra lungo una serie di diedri che richiedono arrampicata molto atletica e in massima esposizione. È un capolavoro di cinque lunghezze di corda per 220 m di VI e A2, per il quale furono usati pochissimi chiodi e cunei, quando ancora i friend erano di là da venire. Il primo tiro (tra l’altro forse il più infido) era già stato salito da Ugo e Mauro Ischia. Un paio di fix (ora senza piastrine), del tutto inutili lungo una fessura perfettamente proteggibile, testimoniano l’irriverente tentativo da parte di qualche sprovveduto tassellatore di addomesticare questa linea superba. La prima ripetizione fu del 24 dicembre 1978, Marco Furlani, Roberto Bassi e Pierluigi Degasperi.
Così racconta Stenghel, inLasciami volare: «Un giorno piovoso d’autunno, con la mia vecchia motocicletta mi spinsi verso la Valle della Mandrea; vi arrivai bagnato fradicio, totalmente immerso nelle nuvole che nascondevano ogni vista. Avevo sentito parlare di uno stupendo e altrettanto ardito pilastro di roccia e trepidavo per il desiderio di poterlo almeno vedere; speravo nell’ora, il vento del Garda, e rimasi quindi in attesa camminando pensieroso lungo un sentiero. All’improvviso, mi apparve davanti tutta la parete dalla quale risaltava imponente, scultura della natura, il Pilastro della Mandrea: un invito all’arrampicata, uno spettacolo che incantava. Era impressionante nella sua arditezza; volevo legarvi il mio nome, tracciando una via logica, ideale lungo quei diedri posti meravigliosamente sul filo del suo vertiginoso spigolo. Per me era un’attrazione fatale, mi rendevo conto che per vincerlo avrei dovuto dare tutto: stavo provando la stessa sensazione dell’artista nel concepire la sua opera, afferravo con la mente lo stesso stato d’animo.
Ipnotizzato da quella vista, confidai l’idea a Giorgio Vaccari, il mio giovanissimo compagno di corda. Arrampicavamo pieni di entusiasmo e con la sola forza dei nostri vent’anni, allora non c’erano i dadi di tutte le misure, i friend o altri strani aggeggi da incastrare nelle fessure, non c’erano nemmeno le scarpette leggerissime e super aderenti, ma esistevano solamente gli scarponi pesanti, i grossi cunei in legno che ci preparavamo in falegnameria e i chiodi in ferro con l’anello saldato in officina: eppure, impiegando molte ore, riuscivamo a salire.
Oggi, non più la stessa fatica, nemmeno non più, in vetta, la stessa gioia!
Sono passati vent’anni (Lasciami volare è del 1998, NdR)».
La roccia del primo tiro unisce la difficoltà alla scarsa qualità, ma presto tutto cambia. Osservammo come i tre tiri centrali siano perfetti e slanciati e offrano tre colori in successione: una prima fessura gialla è seguita da un diedro rosso. Ma il più spettacolare è il quinto tiro, il cosiddetto diedro bianco. Lì, in quella serie di passi atletici, rischiammo di non farcela a salire in libera, ma tale era l’eccitazione d’esserci che alla fine superammo entrambi la prova. Ricordo che all’ultimo tiro, senz’altro il meno impegnativo di tutti, eravamo felici del nostro entusiasmo.
La sera ci trasferimmo a Misurina, perché il giorno dopo era in programma la terza manifestazione di Mountain Wilderness.
Nel luglio precedente, nell’ambito dell’indagine di Aquila Verde sui rifugi, la nostra equipe incaricata di compiere i rilievi di terreno si era recata anche al rifugio Auronzo.
Quelle giornate non erano state certo favorevoli per verificare il giro di turisti, perché nei tre giorni trascorsi al rifugio piovve ininterrottamente. Nonostante ciò, Giovanni e gli altri avevano rilevato come l’andirivieni di bus e vetture private fosse pressoché ininterrotto, e persino un raduno di bolidi “Ferrari” era giunto a portare il suo rombo infernale ai piedi della montagna più famosa delle Dolomiti.
Generalmente il lavoro di ricerca degli scarichi delle acque reflue, bianche e nere, richiedeva ai nostri tecnici tempo e pazienza poiché gli sbocchi delle tubature erano a diverse centinaia di metri dalla costruzione principale e opportunamente occultati in piccole valli o asperità morfologiche; in quel caso, invece, era sufficiente non essere afflitti da sinusite cronica per essere guidati dall’inequivocabile puzza a poche decine di metri dal rifugio, proprio dove sbucava “in diretta” la tubazione, rilasciando, sul versante ad est del rifugio stesso, un “conoide” di diverse decine di metri di liquami maleodoranti; ugualmente, poco più a monte, avveniva per gli scarichi della lavanderia e della cucina. Generalmente eseguivamo campionamenti degli scarichi per valutare il grado di inquinamento. In questo caso apparve del tutto inutile perché qualunque laboratorio sarebbe stato in grado di classificare a vista il campione per quel che era: “cacca”!
Il tutto appariva veramente incredibile, poiché, a fronte di movimenti di terra di milioni di m3 per la realizzazione di migliaia di posti auto eseguiti nei dintorni del rifugio, non era stata realizzata neppure una fossa settica che consentisse almeno una prima depurazione delle acque. Il fatto risultava aggravato dalla notevole resa economica del “rifugio” Auronzo (ammesso che questa struttura ricettiva si possa ancora chiamare così) che, con più di 500.000 passaggi annui e un ristorante self-service che sembrava una mensa aziendale, era in grado di generare ricavi economici invidiabili.
L’8 settembre distribuimmo al rifugio Auronzo una breve scheda sulle condizioni “ambientali” del rifugio a giornalisti e al sindaco di Auronzo, e tutti i presenti furono condotti sul luogo dello scempio; la situazione era così palesemente degradata che pochi giorni dopo la macchina giudiziaria si mise in moto per arrivare alle ovvie, ma per certi versi clamorose, condanne del gestore del rifugio e del presidente del CAI di Auronzo. Va anche segnalato che la Provincia di Belluno, costituendosi Parte Civile, aveva compiuto un atto di notevole rilievo politico e aveva quindi posto un precedente.
Riporto qui la cronaca che di queste sentenze fece Giulia Butturini (Bollettino di Mountain Wilderness, aprile-giugno 1993):
“Il pretore di Belluno, condannando il gestore del rifugio Auronzo e il presidente protempore della sezione CAI proprietaria del rifugio, ha affermato che un rifugio di alta montagna non differisce in nulla da qualsiasi altro insediamento civile; dovrà quindi preoccuparsi della sorte dei propri scarichi, sia richiedendo l’autorizzazione prevista dalla famosa Legge Merli, sia verificando che essi non superino, in relazione ad un elenco di sostanze ritenute particolarmente inquinanti, determinati parametri. La Legge n. 319/76 dice, infatti, che ogni scarico di acque provenienti da insediamenti produttivi (sia civili che industriali) deve essere autorizzato dall’autorità competente. Lo scarico dovrà inoltre essere “pulito”: in quanto ce ne sia bisogno, l’alternativa sta quindi tra un proprio depuratore delle acque o il conferimento in pubblica fognatura. Il rifugio Auronzo che sversava i propri scarichi (tanto quelli della cucina e della lavanderia, quanto quelli dei gabinetti) a cielo aperto, violava quindi in pieno la Legge Merli. Per nessuno scarico era stata infatti chiesta l’autorizzazione, e quelli provenienti dai gabinetti erano, ovviamente, anche ricchi di tutte quelle sostanze indicate nell’apposita tabella e classificate come particolarmente inquinanti. La sentenza del pretore di Belluno, oltre ad affermare per la prima volta che anche i rifugi devono adeguarsi alle prescrizioni della legge Merli, ha stabilito un altro principio particolarmente importante: uno scarico di liquami costituisce un deturpamento del paesaggio e come tale va quindi pulito (tutte le zone dette Alpi al di sopra dei 1600 m sono sottoposte a vincolo paesaggistico dalla Legge Galasso e sono quindi specialmente protette). La stessa cosa potrebbe essere affermata, quindi, anche per le discariche di rifiuti. Quanti rifugi, sulle nostre montagne, sono a questo punto, in regola?”.
Come già detto prima, eravamo indietro con i ghiacciai. Con Giovanni andammo sul Ghiacciaio della Marmolada l’11 settembre: lì ero già stato più volte in occasione delle ricerche del polietilene espanso, ma mai per fare prelievi. La sera ci concedemmo una cena nel mitico ristorante della Malga Panna di Moena. Il 12 settembre salimmo al rifugio Larcher la mattina assai presto, per poi proseguire fino al Ghiacciaio del Careser. Non ero mai stato in queste solitarie zone del gruppo dell’Ortles-Cevedale. Fatti i nostri rilievi proseguimmo fino a raggiungere il Colle 3290 m e da lì la vetta della Cima Venezia 3386 m per la cresta sud-ovest, tanto per fare un po’ di foto alla zona.
Il 3 ottobre, direttamente da Pont Valsavarenche, ci recammo al Colle della Becca di Moncorvé 3851 m, nel gruppo del Gran Paradiso, per fare i prelievi e i rilievi: con me erano Marco Milani e Michele Fumagalli. Passammo dal rifugio Vittorio Emanuele II, risalimmo il Ghiacciaio del Gran Paradiso e in ultimo anche quello di Laveciau. Dal colle tentammo di raggiungere, non ricordo per quale motivo, il Colle dell’Ape 3873 m, tra il Roc e la Cresta Gastaldi, ma tornammo indietro per via del freddo eccessivo.
A questo punto vorrei anche riportare che l’operazione rifugi era praticamente terminata dal punto di vista delle uscite pratiche. Chi volesse può scaricare e quindi consultare il report definitivo di Montana sui 15 rifugi presi in considerazione.
Intanto ci stavamo ambientando in viale del Ghisallo, pur nella frenesia e nella enorme varietà dei nostri lavori. Io per esempio continuavo anche con i miei impegni di serate o di convegni, per esempio ricordo che partecipai al Festival dell’Unità (tenuto a Torino il 16 settembre 1991) con una relazione a tema “Il Nuovo Mattino”; e che andai a Certaldo, in provincia di Siena, per tenere la mia conferenza “Montagna usata o vissuta”: era il 16 ottobre ed era la mia 250a…!
Nei primi tempi dunque eravamo in otto o nove (come numero massimo) a lavorare in viale del Ghisallo 16, ma era raro trovarci tutti assieme, per via dei differenti impegni fuori sede che molti avevano. C’era un rito, però, quello di andare tutti i presenti all’ora di pranzo a mangiare un panino o un’insalata in un bar vicino. Questo locale, in realtà abbastanza disadorno e quasi smorto, ma comodo, era più o meno all’angolo con via Gallarate e per raggiungerlo dovevamo traversare dalla corsia ovest di viale del Ghisallo alla corsia est. E per fare questo occorreva percorrere un tratto di terreno non asfaltato e spesso fangoso, oscuro perché coperto dal superiore Cavalcavia del Ghisallo (quello a intensa percorrenza che da via Alcide De Gasperi porta alla autostrade). Protetti dunque dal cavalcavia, quasi tutti i giorni vi stazionavano gruppetti di extra-comunitari, qualcuno dei quali sicuramente ci dormiva anche. Vedevamo infatti materassi luridi e umidicci, oltre a capi di vestiario semi-abbandonati, pentolame, bottiglie.
Ormai ne conoscevamo un po’ di quei poveretti, ci salutavamo anche, e qualche volta gli allungavamo qualche spicciolo. Nel buio di quel luogo era incredibile quanto bianchi avessero i denti, perché ci sorridevano. Ma era anche per loro il momento del pranzo, quindi quando passavamo noi c’era sempre un fuoco scoppiettante (qualche volta anche due) con qualche pentola o padella sopra: odorini attraenti di kebab o altri aromi colpivano le nostre narici. Di certo c’era qualcuno di noi che avrebbe preferito mettersi lì con loro piuttosto che andare a consumare le squallide proposte del bar.
Un giorno che i problemi economici erano più asfissianti del solito ero esasperato perché dovevo pagare, in quanto fine mese, sei persone (me compreso, ma mi mettevo sempre ultimo). Fu in quell’occasione che feci un’uscita storica, rivolto ai miei compagni di avventura mentre passavamo accanto ai fuochi e agli aromi invitanti: – Mi sa che un giorno andremo da loro e gli chiederemo l’elemosina di un morso di kebab, visto che non avremo neppure i soldi per il bar…
Lo so, una battuta infelice che però ci fece molto ridere, rasserenando un poco quella giornata del cazzo.
Tra le arrampicate sportive cito brevemente, in questo periodo, l’onsight (6c) su Sporco impossibile, Falesia di Gavi Ligure (21 settembre), l’onsight su Coconut (6c) al Monte Cucco (Finale Ligure, 22 settembre), la RP (6c+) su Ex-Spinosa alla Bastionata di Boragni (Finale Ligure, 19 ottobre) e infine Papillon (6c+) alla Placca di Mou (sempre a Finale, 3 novembre, ma purtroppo solo da secondo). Per il resto, vedere le tabelle visibili e scaricabili da qui.
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Pienamente d’accordo caro Tiziano ( commento 3). Pensi che oggi la situazione è cambiata? Cosa dire del TAM – TUTELA AMBIENTE MONTANO?
Incredibile come ci possa essere ipocrisia in tutte le sfaccettature dell’umanità, come quella qui ben descritta dei rifiuti dei rifugi.
Grazie ad Alessandro e ai suoi compagni che hanno aiutato a mettere in luce questi problemi, e speriamo anche a risolverli
été 1991, de quoi VOIR ROUGE !
quelle horrible chose qu’une foule “mal élevée”.
Quanti (bei) ricordi. Incluso l’ultimo incontro con Luciano Stenghel a Tione in occasione del matrimonio di sua figlia Chiara col mio socio Franz Salvaterra. Ai tempi della mia permanenza a Arco nel 1982 come istruttore di alpinismo degli alpini, pronunciare il nome di Stenghel metteva i brividi per l’arditezza delle vie che apriva in valle del Sarca in quegli anni.
Poi le manifestazioni di MW, a cui ero iscritto, alla Marmolada e al Rif. Auronzo le ricordo come fosse ora.
Quello che sorprende è come il Cai riesca allo stesso tempo a professare valori “di facciata” nei confronti della montagna e a guardare altrove quando qualcosa non gli conviene politicamente o economicamente. Vedi rifugi/autogrill che inquinano enormemente ieri come oggi.
È per quello che il Cai non mi è mai piaciuto e i caiani ancora meno.
Da notare anche che tutto l’encomiabile lavoro di Gogna e compagni sarebbe dovuto essere a carico del CAI sia come responsabile diretto di molti rifugi sia per adempimento ai suoi valori ( almeno sulla carta ) di tutela dell’ambiente
Ho dato un’occhiata veloce al file riepilogativo dell’analisi dei rifugi. Spicca la gestione del Brentei non tanto x la più deplorevole quanto x il nome altisonante di chi la gestiva. A volte tanti bei discorsi sull’etica dell’arrampicare e poi dietro al rifugio discariche a volontà. Traspare anche che chi più guadagna e quindi avrebbe i mezzi finanziari x una gestione più rispettabile dell’ambiente è di solito anche chi se ne sbette di più. Sembra la rappresentazione della gestione del pianeta. Grazie mille ad Alessandro x i numerosi spunti di ragionamento che ci offre e buon natale a tutti
☃️☃️☃️ Buon Natale a tutti 🎄🎄🎄