L’antropologo Annibale Salsa ripercorre la storia, tra spopolamento e ripopolamento della montagna. Siamo a un nuovo punto di svolta, con condizioni strutturali favorevoli a un insediamento: serve però come nel Medioevo una negoziazione, dare vantaggi a chi ci garantisce il presidio del territorio montano. Perché lasciar fare alla natura è un’immagine romantica, che non corrisponde al vero.
Il presidio dei territori montani
(intervista ad Annibale Salsa)
di Sara De Carli
(pubblicato su www.vita.it, 18 luglio 2016)
Scarpe grosse, rude, di vedute ristrette: il montanaro secondo i luoghi comuni. «Ma questo è un falso! Era esattamente il contrario», sbotta Annibale Salsa, antropologo, esperto di cultura alpina, già presidente del CAI, oggi alla scuola del paesaggio della Provincia di Trento. «Nel Medio Evo i coloni delle terre alte, cioè i contadini delle Alpi, avevano meritato la condizione di uomini liberi, mentre quelli di pianura non lo erano. Questa scelta fece delle Alpi uno spazio elitario, i cui eredi oggi sono le autonomie dei contadini sudtirolesi o dei cantoni svizzeri, la forma stessa di democrazia diretta della Svizzera. Ora del nuovo trend di popolamento della montagna parlano tutti, non è più qualcosa di sporadico, ma c’è bisogno di politiche economiche finalizzate a ridurre gli ostacoli che i nuovi imprenditori della montagna si trovano di fronte. Il trend altrimenti rischia di erodersi. L’insediamento massiccio e capillare che si è verificato sulle Alpi nel basso Medioevo è stato possibile perché la politica lo aveva favorito con concessioni fiscali e autonomie e soprattutto con la condizione di uomo libero. Oggi serve una negoziazione, come allora».
Nelle foto, i ragazzi e le attività della cooperativa di comunità Brigì di Mendatica, sulle Alpi liguri, 150 residenti. Nata un anno fa da tre giovani, oggi ha 10 soci dai 18 ai 33 anni e ha attivi 13 contratti a chiamata di lavoro. La cooperativa gestisce in particolare il Parco Avventura di proprietà comunale, un rifugio con 20 posti letto, un centro escursioni (con quattro guide esperte sumezzate, ovvero in accompagnamento con gli asini) e laboratori didattici per bambini.
Cosa ci fa dire che “il film” dello spopolamento delle montagne non corrisponde più al vero?
Alla fine degli anni ‘50 si è chiuso un modello millenario di civilizzazione alpina. Dagli anni ‘60/’70 la montagna ha conosciuto abbandono e spopolamento. Per la montagna sembrava non ci fosse più speranza, si era insinuata una cultura della rassegnazione e della resa. L’approccio alla montagna è stato di sfruttamento intensivo e speculativo da un lato e naturalistico ambientalistico dall’altro, con fenomeni di wilderness di ritorno. Questo fino agli anni ‘90. È del 1996 un’indagine dell’Istituto di sociologia rurale che segna uno spartiacque, perché si arresta l’emorragia demografica e comincia a verificarsi un ritorno, seppure solo dello 0,2%. È negli anni duemila che si ferma l’esodo biblico: oggi su questa svolta non c’è alcun dubbio ed è connotata in maniera oggettivamente più rilevante.
Chi sono i nuovi montanari?
Il neo-ruralismo è di matrice neo-romantica. Evasione, fuga da un’alienazione urbana e metropolitana, bisogno di “montanità”. La montagna è metafora di evasione e fuga, libertà, nell’immaginario. Ma questo non è un fenomeno risolutivo, perché a mio parere non è durevole e per durevole intendo il concetto della sociologia francese di “durevolezza”. La caratteristica decisiva, perché si possa parlare di rinascimento montano, è questa durabilità, ancor più della sostenibilità, perché il problema è come ci si proietta nel futuro: il rapporto tra l’uomo e la natura deve essere durevole, non solo sostenibile. A partire dagli anni 2000, tuttavia – penso in particolare al Rapporto Censis del 2004 – la fenomenologia sociale dei montanari acquisita caratteri diversi, non è più solo evasione, ma si registrano ritorni più strutturati. Compaiono i ritornanti, non solo i neorurali, figli e nipoti di gente che se ne era andata: i ritornanti hanno la consapevolezza dei sacrifici che comporta un insediamento permanente in montagna, gli adattamenti necessari… Ecco, con i ritornanti si comincia a parlare di “rinascimento” perché alcune di queste iniziative hanno successo. C’è ovviamente un darwinismo sociale, ma da dieci anni la resistenza e resilienza alla montagna comincia a manifestare dati rassicuranti. Soprattutto le aree del cuneese e della Carnia stanno conoscendo significative esperienze di ritorno, proprio le terre della “malora” e della “terra grama”.
Quali cause vede per questa inversione di tendenza e quali problemi restano?
Ci sono fenomeni concomitanti e concause, non secondaria si è rivelata la lunga crisi economica: dinanzi a prospettive di disoccupazione in città è più semplice esistenzialmente affrontare i rischi di un progetto imprenditoriale nell’economia agrosilvopastorale. Tanti giovani lo stanno facendo, transumanza, pastoralismo, allevamento, agricoltura ma anche terziario avanzato. L’ostacolo, soprattutto nelle Alpi latine – il Piemonte sta muovendo ora i primi passi – è la frammentazione fondiaria, se non si risolve è inutile, si fanno discorsi metafisici. Nelle Alpi tedesche c’è stato minor spopolamento proprio perché l’accorpamento fondiario fa parte della storia, c’è stata meno speculazione edilizia, non c’è stato consumo di suolo. Oggi la nuova frontiera è l’accorpamento fondiario, senza dubbio, per dedicarsi all’agricoltura e all’allevamento c’è bisogno di superfici ampie, i fazzoletti di terra ereditati dal nonno non sono utilizzabili. Oggi c’è un cambio di paradigma culturale, c’è un aspetto che non c’era trent’anni fa, cioè che l’economia fordista che ha massacrato la montagna non c’è più: la vera sfida oggi è ridurre il digital divide. Davvero siamo a un nuovo “milleecento”: allora il cambiamento climatico aveva giustificato l’innalzamento delle colture ad altitudini maggiori e aveva portato a un massiccio popolamento delle Alpi, oggi ci sono condizioni congiunturali e strutturali favorevoli per un ritorno.
A quali condizioni?
Credo serva una negoziazione, come nel Medioevo. Allora i feudatari avevano accettato di ridurre la loro sovranità sui coloni delle terre alte in cambio del presidio del territorio, oggi deve accadere qualcosa di simile. È fondamentale capire che i territori montani devono essere presidiati, non possono essere lasciati alla wilderness di ritorno, come pensa un certo ambientalismo. L’inselvatichimento avanza dell’8-10% annuo, non possiamo lasciare fare la natura, non vanno così le cose: chi vive fuori pensa che natura faccia tutto da sé, che i prati siano naturali, ma se i prati non li pulisci non sono prati, sono una giungla. Va fatto passare questo concetto, il nostro paesaggio è alternanza tra aperto e chiuso, va garantita tanto la presenza umana quanto la vivibilità e biodiversità.
La strategia delle aree interne è un buon punto di partenza?
La strategia delle aree interne funziona. Queste cose si dicevano in passato, ma in una logica assistenzialistica, che non aiuta. Oggi è il momento di capovolgere paradigmi, non si tratta di assistere per tenere lì le persone ma di avviare politiche di economia attiva, redditizia, perché la montagna può vincere non in termini quantitativi ma qualitativi.
Le montagne sono luogo di apertura o chiusura? Di inclusione o esclusione?
Le Alpi nella loro storia sono state uno spazio aperto a partire dal Medioevo, una cerniera non una barriera. Questo ruolo di cerniera, una sorta di area Schengen ante litteram, è stata interrotta nel Settecento quando le Alpi sono state viste come muraglia difensiva in chiave militare e bellicistica. Il dibattito sul Brennero delle scorse settimane è una fase involutiva di questo processo. Ma le Alpi devono essere uno spazio aperto, tant’è che parliamo di macroregione alpina. Non c’è dubbio che ci sia in atto una rivoluzione demografica e sociale, laddove c’è una montagna spopolata c’è spazio, assistiamo a travasi tra vecchio e nuovo, che peraltro ci sono sempre stati.
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A Roma e Milano non si coltiveranno i pomodori in piazza ma in compenso si vendono beni e servizi in negozi e centri commerciali. Nei parchi, quando ancora non erano parchi, i produttori di latte e formaggi si erano già insediati. Che facciamo? Li mandiamo in esilio? E comunque se il problema fosse solo quello delle malghe saremmo in una botte di ferro.
Vivo a Roma, ma non penso di coltivare pomodori in piazza del Popolo. Né a Milano coltiverei pomodori nella piazza del Duomo o a Firenze nella piazza della Signoria eccetera. Chi vive in città ha la responsabilità storica di tutelare i monumenti a beneficio di tutti gli italiani. Allo stesso modo chi vive in montagna dovrebbe tutelare i monumenti naturali piuttosto che coltivare latte e formaggi. L’abbandono della montagna costituisce una grande occasione per rinatulizzare il territorio.
Se si continua come vogliono i regolatori, sentirò sempre più persone chiedere se sulla Lettenbauer Solleder ci sono gli spit, per poi sentirli concludere che dato che non ci sono allora non è difficile.
Attività turistiche alternative, rispetto per la natura, reddito che da tali attività dovrebbe emergere. A parole non fa una piega ma nei fatti? In un paese come il nostro dove si discute perfino sul nordic walking dove vogliamo andare.
“… non possono essere lasciati alla wilderness di ritorno, come pensa un certo ambientalismo. L’inselvatichimento avanza dell’8-10% annuo, non possiamo lasciare fare la natura,..”
Personalmente io sono per la wilderness di ritorno ed è un dato positivo che l’inselvatichimento avanza dell’8-10% annuo, ancora meglio sarebbe se avanzasse del 30% annuo.
DOBBIAMO lasciar fare la natura!
“. Se le Apuane da te costantemente citate subiscono ciò che subiscono è colpa dell’avidità o della semplice maggior richiesta di marmo? Le piastrelle dei pavimenti di casa mia di cosa credi siano fatte?”
Giando, è chiaro che la richiestra di marmo e di carbonato di calcio è grande!
ma quando un sindaco del Comune di Stazzema invitato ad una serata sul tema sull’escavazione e sul degrado delle Apuane, si presenta dicendo sono un dipendente della ditta Henraux in aspettativa da 10 anni !!!!
(La ditta Henraux è una delle più grosse…. ditte di escavazione).
Quando un sindaco dichiara che nel comune di Stazzema l’unica , dico l’unica, risorsa economica è l’escavazione della pietra. Possibile che non si renda conto che siamo in Versilia e in Versilia da sempre c’è anche una forte economia del turismo del mare.
Quindi, mi chiedo? ma visto che da sempre, in Versilia, c’è un economia del turismo di mare, come mai non ci potrebbe essere anche un economia del turismo della montagna??
Forse se nel comune di Stazzema c’è solamente un economia dell’escavazione della pietra è perchè, in tanti anni, e nonostante l’esempio del turismo marino a 5 km di distanza, altre economie non si è VOLUTO cercare di svilupparle !
E come mai non si è voluto svilupparle??
Ora mi rendo conto anchio che in Apuane non si possa vivere di solo turismo , che non si possano chiudere tutte le cave.
Ma perchè non provare a sviluppare economie alternative, che possano creare altre possibilità?
Quella turistica potrebbe essere una.
Ma questo non si fa, Il parco stesso rema contro!
Vuoi sapere perchè, secondo me, non si cercano alternative?
Non è solo perchè c’è tanta richiesta di marmo , è perchè un blocco di marmo, caro Giando, fa incassare un PACCO DI SOLDI, facilmente e subito !!!
Non è questa avidità?
Quando chiudi all’arrampicata una parete perchè disturbi l’aquila, o perchè c’è il pericolo del terremoto ma poi permetti alle cave di fare quello che gli pare, sempre e comunque.
non è questa avidità?
Il modello analizzato da Salsa, secondo me, é applicabile ad alcune parti delle Alpi ma non a tutte.
Giando ho capito benissimo.
Anchio nel mio piccolo ho contributi alla distruzione delle Apuane. Lo so anchio che casa mia è fatta con premiscelati cementizi realizzati con materiali lapidei macinati che vengono dalle Apuane.
Dalle Apuane non si estrae solo il marmo. Il grosso affare oggi è il carbonato di calcio!!
Sono avido? no non lo sono ma faccio anchio parte di un sistema che purtroppo fagocita tutto e tutti che ti da quello che gli pare a lui .
La gente apuana è avida? No avida no, ma poco coscente si. Poco coscente di avere messo nelle mani di altri il proprio patrimonio.
Lo sono avide invece le grosse multinazionali che hanno in mano l’estrazione. Queste non si fanno scrupoli.
Quindi non dico che bisogna tornare alle caverne. Dico che ci possono essere delle vie di mezzo.
Se peschi a strascico senza avere il senso della misura poi non ti puoi lametare se il mare non da più pesci. Perchè così facendo distruggi tutto.
Ci può essere una via di mezzo?
Ci può essere un senso della misura?
Io penso di si.
Poi le mie saranno anche considerazione molto semplici e da bar ma penso che dovremo trovare il senso della misura, del limite
Alberto, con queste considerazioni non andiamo da nessuna parte. Non stai dicendo cose sbagliate ma non sono argomentazioni sulle quali si può costruire qualcosa, tutto lì. E’ come quando per strada trovi il tipo che ti ferma per farti firmare contro la droga. Cosa significa firmare contro la droga? Assolutamente nulla, sarebbe come firmare contro i femminicidi o contro la tortura. Sono quelle cose che non hanno senso, non alcun valore pratico.
Ciò che ha senso è invece cercare di comprendere nel dettaglio le situazioni e il perché si verficano in quanto dietro ad ogni situazione ci sono delle storie che nascondono sicuramente motivazioni come quelle da te espresse ma anche motivazioni assai più nobli che purtroppo si mischiano con le prime. Se le Apuane da te costantemente citate subiscono ciò che subiscono è colpa dell’avidità o della semplice maggior richiesta di marmo? Le piastrelle dei pavimenti di casa mia di cosa credi siano fatte? E non ti sto’ parlando di una casa di lusso ma di una normalissimo apaprtamento degli anni sessanta comprato da chi già ci abitava. Nel 1500, ai tempi di Michelangelo, uno sfigato come me non avrebbe avuto le mattonelle di marmo. Allora se tu vuoi eliminare lo scempio delle Apuane dovresti convincere milioni di persone a fare a meno delle mattonelle di marmo, milioni di persone alle quali delle Apuane non gliene frega un cazzo. Ma possiamo ragionevolmente dire che tutte queste persone sono avide? E allora dai siamo seri. Ci sono miliardi di persone che vivono in un ingranaggio di cui sono partecipi in varia misura perché se in tutto il mondo si facesse la rivoluzione francese si taglierebbero tante teste ma morirebbe anche un fracasso di gente innocente.
Ecco perché ce l’ho con le semplificazioni. Non andiamo da nessuna parte con queste. Parlando del denaro, del potere, dell’avidità non aggiungiamo nessun contributo all’oggetto della discussione. Diventano chiacchiere da bar e avere ragione o torto non ha più nessuna importanza. Però ho qualche dubbio di riuscire a farmi capire..
Mi avevano spiegato che l’uomo ha due spinte: quella sociale e quella individuale.
Non abbiamo ancora trovato un sistema politico per farle “funzionare” bene…..da più di 2000 anni.
Secondo me si dovrebbe combattere l’ignoranza, ma facendo così i politici avrebbero paura di perdere il loro potere grandemente basato sull’ignoranza e gli stati che son fatti per dettare solo regole per gli incapaci e gli irresponsabili rischierebbero di scomparire.
La stupidità umana è molto grande, ma non si può continuare a controllarla solo regolamentando l’ignoranza.
Caro Antonio Arioti sarà senza dubbio vero che tutta la colpa dei mali del mondo non è nostra ma tutta la plastica che è sparsa per i mari chi ce l’ha buttata?
Lo spirito santo??
La pesca a strascico che distrugge i fondali e mina la riproduzione dei pesci, chi la pratica? I pescatori che poi si lamentano che pescano sempre meno? Oppure è sempre lo spirito santo che agisce sopra di noi ignare vittime di un gioco più grande di noi ?
Non sarà tutta colpa della logica del profitto, del potere, dell’avidità di denaro ma questi hanno un bel peso.
Probabilmente parlare di Wilderness, inteso come ambiente dove l’uomo non interviene in nessun modo, nel 2016, ha poco senso.
Anche l’alta quota è stata antropizzata, abbiamo costruito rifugi a oltre 4.000 metri. La tecnologia ci permette potenzialmente di vivere quasi ovunque.
E la wilderness di ritorno di cui parla Annibale Salsa sa più di incuria e di abbandono che di valore da tutelare.
Forse sarebbe più utile parlare di limiti, chiedersi fino a dove l’uomo può spingersi, modificando l’ambiente per consentirgli di frequentarlo.
E questo, forse, in un mondo dove la tecnica non deve avere per definizione alcune limite, è la cosa più difficile.
Giando se scrivi tutti questi papiri va a finire che non ti legge nessuno 😉
Scherzi a parte e senza nessuna vena polemica, molte esternazioni soventemente postate utilizzano un linguaggio che secondo me è un po’ desueto, figlio di un periodo storico (anni settanta) in cui era di moda per i ragazzi occidentali con la pancia piena lamentarsi in merito al consumismo e al capitalismo (infatti in Cina e in Unione Sovietica si viveva secondo principi ecologisti.. Ma per favore!).
La storia ci racconta come poi è andata a finire, lasciamo perdere.
Francamente alla riduzione semplice che l’uomo, e quindi le sue qualità peggiori (come l’avidità, l’egoismo, e tante altre cose), siano fonte di tutti i mali non mi convince nemmeno un po’. Io sostengo da sempre che le cose che accadono a ciascuno di noi non dipendono esclusivamente da noi ma che l’unico modo per effettuare un cambiamento sia quello di ritenere che sia colpa nostra. Ergo, il farmene carico come se fosse colpa mia diventa un artifizio, uno strumento per attuare un cambiamento ma non deve diventare una verità assoluta e nemmeno un principio cardine universale.
L’uomo è parte della natura ed agisce nell’ambito di essa secondo logiche a noi spesso sconosciute ma che riteniamo conoscere. Non governiamo nemmeno il nostro corpo, gran parte del lavoro viene fatto senza che ne accorgiamo, come il cuore che pompa a prescindere dalla nostra volontà. Insomma non sappiamo un cazzo o poco più. Pertanto, prendiamoci pure la colpa di tutto perché forse in questo modo riusciremo a fare qualcosa di buono ma non crediamo che sia tutta colpa nostra perchè non è vero.
Non so Paolo se siamo proprio sulla stessa lunghezza d’onda. Magari lo siamo a livello di principi base ma il tuo atteggiamento mi sembra molto radicale.
A me piace essere coerente, o quanto meno mi sforzo di esserlo (con questo non voglio dire che tu non lo sia, anche perchè non ti conosco), e, pertanto, cerco di comportarmi di conseguenza. Ciò non significa che per tutta la vita si debba correre dietro allo stesso stendardo, significa semplicemente che se dico ALFA non posso poi fare BETA.
Vengo al nocciolo della questione. Gli ecologisti, come dici tu, col barcone, l’elicottero e il macchinone possono costituire un esempio di incoerenza, soprattutto se ne abusano. E’ però altrettanto vero che la tecnologia oculatamente usata può essere molto utile. Un conto è usare un aeroplano per spegnere degli incendi e un altro usarlo per gettarsi col paracadute. Posto che non ho nulla contro i paracadutisti è abbastanza evidente la differenza di utilità nell’utilizzo del medesimo mezzo. Ma il punto non è nemmeno questo.
Noi siamo abituati ad esaminare le cose a pezzi quando invece dovremmo cercare di avere una visione d’insieme. Qual’è la relazione fra le città e le scoperte scientifiche? E la relazione fra il capitalismo e l’utilizzo del laser in campo medico? Difficile trovare delle connessioni dirette, soprattutto quando si pensa che nell’antichità, senza traccia di capitalismo, trapanavano i crani.
Il problema è proprio questo. A noi sfuggono collegamenti apparentemente inesistenti ma che in realtà sono assolutamente presenti. Il mondo, e quindi anche l’essere umano, si muove come un tutt’uno perché da cosa nasce cosa. Quante volte abbiamo letto che molta della tecnologia attuale deriva dal progetto Apollo per portare l’uomo sulla Luna? Appunto.
Pertanto, una persona che ce l’ha a morte con la tecnologia, col capitalismo, col consumismo, magari anche ambientalista, animalista, ecc., se fosse realmente coerente, non dovrebbe utilizzare un farmaco salvavita prodotto da una delle varie multinazionali farmaceutiche perché testato, come tutti i farmaci allopatici, sugli animali.
Invece la vita di tutti i giorni mi racconta di persone, anche amici carissimi, che sparano a zero sulla medicina allopatica, rivolgendosi ai guaritori più disparati, ma quando se la vedono brutta prendono tachipirina, cumadin e compagnia bella.
Se oggi siamo qui, anche su questo blog, a parlare di tutte queste belle cose è perché viviamo in una società che ce lo consente. Noi stiamo a disquisire sul parco giochi del Daone dove è stato tagliato qualche albero e apposta qualche targhetta sui massi quando c’è gente che vive veramente a contatto con la natura ma farebbe carte false per avere un po’ di quelle comodità che noi abbiamo. Per farla breve, un conto è difendere l’ecosistema da coloro che lo vogliono sfruttare per avere i rubinetti d’oro o la casa in marmo di Carrara, un altro è difendere l’ecosistema al punto da non accettare nemmeno il taglio di qualche albero, magari appositamente selezionato, per fare un parco giochi veramente poco impattante come quello del Daone o semplicemente, come sostengono diversi esperti, per far respirare il bosco. Un conto è incazzarsi per croci di vetta in ferro battuto alte 15 metri e un altro farne una questione di principio al punto da non accettare nemmeno due pezzi di legno incrociati dell’altezza di un metro sostenuti da quattro sassi.
Quando noi alpinisti/escursionisti andiamo in roccia o su sentieri che mezzo utilizziamo? Andiamo a piedi? In bicicletta? Con la carrozza? Se io che abito in provincia di Bologna voglio andare sulle Dolomiti cosa faccio? M’incammino a piedi? L’alternativa sarebbe non andare sulle Dolomiti ma anche se andassi in Appennino non andrei a piedi, insomma non dovrei fare né alpinismo né escursionismo, al massimo potrei fare nordic walking nel parchetto del paese. Quindi se vogliamo ragionare seriamente ragioniamo sugli eccessi non sul quotidiano e se proprio non accettiamo nulla di tutto ciò che ci circonda andiamo a fare gli eremiti se no non siamo né coerenti né credibili.
A me piacerebbe che i vari argomenti venissero trattati entrando veramente nel merito. Se parliamo di parchi e di territorio approfondiamo le argomentazioni di coloro i quali vivono e lavorano nei parchi e sul territorio perché probabilmente ci daranno delle indicazioni che non si limitano a dei meri principi ma toccano, come si suol dire, la carne viva. Probabilmente la maggior parte di noi è costituita da fruitori della montagna, da persone che nella vita fanno tutt’altra cosa e che magari vivono in città o paesi organizzati e che il fine settimana cercano svago in un ambiente meno contaminato. Ma chi in questo ambiente lavora avrà probabilmente una visione diversa e si renderà conto che il progresso non è da buttare interamente nel cesso, che un bel SUV per andare dalla malga al paese sottostante è meglio che farsela a piedi carichi come i muli, anche se il carburante inquina. Allora si fanno due conti, è meglio chiudere la malga perché andare su e giù a piedi diventa ingestibile o è meglio tenerla aperta e aumentare un po’ il tasso di anidride carbonica?
Le cose sono molto complicate e molto complesse, non possiamo liquidare tutto con le solite quattro-cinque parole e per provare a disegnare un futuro e fare qualcosa bisogna conoscere tutti i dettagli, bisogna conoscere le storie. Entrare nel merito significa parlare col malgaro, col contadino, con l’albergatore, cioè con coloro che poi si trovano a dover far quadrare conti che non sempre tornano e che dovranno probabilmente scendere a compromessi per evitare di perdere ciò che hanno e in cui credono. Se ascoltiamo le storie magari scopriamo che la pista da sci l’albergatore in realtà non l’avrebbe voluta ma che gli è tornata comoda per aumentare gli incassi. E allora la domanda successiva è “si ma quanto incassavi prima?”. E anche qui bisogna andare a leggere tra le righe perché un conto è uno che prima incassava 100 e oggi incassa 200 e un altro che prima incassava 10 e oggi incassa 20. Nel primo caso ti trovi davanti a uno che ha voluto arricchirsi nell’altro a uno che si è destreggiato per sopravvivere.
Buongiorno,
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averne di presidenti del CAI così, che sanno fare una analisi socio-politica (magari non condivisibile).
“digital divide” & “mountain divide”; ah ah una visione di compromesso “socialista” sulla quale devo rifletter.
Forse è inevitabile questo neo-medioevalismo ?! 🙂
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Scherzi a parte, in effetti la frase che reclama Paolo Panzeri, non è chiara nemmeno a me.
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La tecnica, e l’automazione (esasperata o soft) sono ovviamente espressione di dominio,
per lo meno per come la vedo usare dall’essere umano (ma mi sà che sia lo stesso anche nelle creature non umane).
Grazie Alberto, riesci a spiegare bene.
Per me l’intelligenza umana dovrebbe essere usata per la ricerca di un equilibrio, non per la ricerca di un dominio.
E sopratutto non dovrebbe usare la tecnica, come sta facendo, per controllare le masse col consumismo esasperato.
Giando mi sembra che siamo sulla stessa onda, se ci incontreremo ne parleremo.
Non capisco gli ecologisti con le macchinone, le barcone, gli elicotteri…..
Non capisco l’aria condizionata, le auto elettriche, l’automazione esasperata…..
Non capisco perché venga insegnato a contrastare la natura anziché conoscerla e seguirla.
Mi sembra che si voglia sempre remare contro in modi balzani e costosissimi.
E poi resto sempre impressionato negativamente da tutti coloro che insegnano verità, hanno certezze e non dubitano quasi mai.
Per Claudio Gnoli: l’articolo ci sembrava veramente interessante. Fonte e data di pubblicazione sono state citate doverosamente.
Giando, non so se le mie sono parole sensate , ma credo che siano l’avidità, l’egoismo che fanno la differenza.
L’ uomo deve pur vivere e di certo vivere in modo dignitoso.
La natura ci da dei frutti che se coltivati nel modo giusto e moderato ci possono far vivere dignitosamente .
Certo che se invece di uccidere un bisonte per sfamare la mia famiglia , faccio sterminio di tutto la madria per arricchirmi, è una bella differenza e l’impatto sull’ambiente naturale e su tutta la cumunità è ben diverso.
Una via di mezzo c’è. Basta solamente volerla, usando l’intelligenza che ci è stata regalata. Ma la vedo dura. L’uomo è avido vuole sempre di più e l’intelligenza purtroppo non la usa sempre a fine di bene.
Le tue Alberto sono parole sensate.
E’ evidente che tutti noi abbiamo influenza e impatto sul territorio dove viviamo. Ma è altrettanto evidente che c’è modo e modo di vivere in un territorio con relativo impatto diverso.
Un conto è sfruttare un territorio per arricchirsi il più possibile, fregandosene altamente delle conseguenze sulla natura e sulle popolozioni stesse che lo abitano.
Sai quanto gli frega alle multinazionali che hanno in mano le cave di marmo delle Apuane delle conseguenze dell’escavazione selvaggia! Quaste pensano solomente a fare più soldi possibile.
Della marmettola che inquina le falde che alimentano gli acquedotti non gli frega nulla.
Diverso è vivere un territorio traendone si i frutti che questo ci può dare con l’intervento dell’uomo ma cercando di averne il rispetto maggiore possibile.
Non credo che non ci siano le possibilità. Certo bisognerà mettere da parte l’avidità.
Potete chiarire a che titolo avete riprodotto l’articolo già pubblicato un mese e mezzo prima a http://www.vita.it/it/article/2016/07/18/ai-contadini-delle-alpi-venne-dato-il-privilegio-della-liberta-e-oggi/140188/ ?
Certo che è un’immagine romantica, soprattutto per coloro, come la maggioranza di noi (compresi noi o comunque una parte di noi che scriviamo su questo blog) che ha la pancia piena di cibo acquistato al supermercato o in ogni caso da qualche altra parte senza fare troppa fatica.
Distinguere l’uomo dalla natura è una puttanata di dimensioni ciclopiche. L’uomo fa parte della natura come le api, le formiche, l’orso, la tigre, la balena, i funghi, le mele, i vulcani, ecc. ecc. ecc.. Forse che le termiti non modificano il territorio? Forse che i dinosauri quando cagavano (ed erano chili e chili di merda) non incidevano sul territorio? E allora! Ciascun essere vivente modifica il territorio secondo le proprie possibilità. Siccome le possibilità dell’uomo sono di gran lunga superiori a quelle di una formica l’impatto sull’intero ecosistema è di gran lunga più devastante. Da qui la necessità di trovare soluzioni maggiormente rispettose in un’ottica globale, la quale però ben difficilmente avrà dei punti di vista diversi dal nostro. Non avrà mai il punto di vista della balena o del coleottero.
Secondo te Paolo cosa significa adattarsi nella natura? Parliamone in modo approfondito. Significa smettere di vivere in una casa riscaldata? Significa nutrirsi di bacche e di radici? Significa vestirsi di foglie? Parliamone una volta per tutte. Vogliamo la wilderness stile americano? Bene, allora deportiamo tutti gli abitanti delle zone montane e trasferiamoli in città ad incrementare le file dei barboni.
Guarda Paolo che non c’è un essere umano, dico uno, compreso lo yogi himalayano che vive passando la sua giornata in meditazione e preghiera, che non impatti l’ambiente in maniera più o meno significativa. Tutti in qualche modo impattiamo, tutti in qualche modo ci rapportiamo in maniera più o meno invasiva con la cosiddetta natura, tutti usiamo la nostra intelligenza per trovare soluzioni che ci consentano di sopravvivere al meglio, se no saremmo destinati a morire per inedia.
Giandomenico Foresti
“Perché lasciar fare alla natura è un’immagine romantica, che non corrisponde al vero.”
Io non credo nell’ambientalismo per me l’uomo è un attimo in confronto ai dinosauri (“civiltà?” di 10.000 anni contro 250.000.000) e il confronto con la terra non esiste, noi non siamo centrali.
Domando: è una frase scherzosa? O soltanto di fede religiosa?
Se è espressa in modo serio mi fa pensare al peggio: la natura non si fa un baffo dell’uomo, mai.
Forse vuol dire che l’uomo per vivere nella natura deve intervenire per “umanizzarla” secondo i suoi bisogni?
Non mi sembra voglia dire che l’uomo debba imparare a conoscere la natura e adattarsi nella natura.
Io distinguo la tecnica dall’intelligenza e non mi affido mai alla prima che è solo espressione della seconda.
Mah, non capisco, o forse capisco perché certe gestioni siano come sono e il nostro mondo vada così.