Il rischio, sentinella invisibile – 1
di Ivan Guerini
(tratto da Annuario CAAI 2009, per gentile concessione)
Ancora una volta Ivan ci regala un contributo di notevole valore, prendendo in considerazione una tematica con cui ciascuno di noi si deve confrontare ogni giorno ma che di rado viene analizzata razionalmente a fondo.
La trattazione che segue è un tentativo, incompleto e arbitrario finché si vuole, ma genuino, di definire delle categorie in cui ciascuno di noi può identificarsi o meno, una griglia nella quale è possibile riconoscere le proprie attitudini o tendenze a rischiare. Questo per riflettere sulle nostre reali motivazioni e sui fattori che ci hanno consentito certe salite, o su quante delle nostre vite abbiamo consumato per tornare indenni, se mai ciò sia davvero possibile, alla vita di tutti i giorni.
Anche se a Ivan piace considerare questo suo scritto più come una sorta di corda doppia per calarsi nell’argomento (Mauro Penasa).
Introduzione
La motivazione ad affrontare lo spinoso argomento del rischio e delle sue implicazioni deriva da quelle sue caratteristiche di scomodità, severità e inquietante parentela con gli incidenti, che sempre più hanno impedito, nell’ambito dell’azione in montagna, d’indagarlo a sufficienza, per quella sorta di tabù scaramantico che induce a evitare di pensarci, nel timore di snidarne la percezione, assopita nell’intimità dei pensieri in cui dimora. L’essere stato a torto relegato nell’ambito di responsabilità civili squisitamente soggettive, insieme al fatto d’aver attribuito, erroneamente, alla roccia compatta o instabile la responsabilità degli incidenti ha fatto sì che si fraintendesse la valenza del rischio.
Alex Honnold sulla Thank God Ledge della via Regular all’Half Dome. Foto: Jimmy Chin
Trattando questo argomento potrebbe capitare di non essere compresi, visto che si parla di un “qualcosa di esistente ma non visibile”, ma proprio perché la sua descrizione può risultare astratta, a chi non ha una sensibilità interpretativa allenata a percepirne la consistenza effimera, ho ritenuto interessante approfondire i motivi che hanno indotto a fraintenderne il valore, analizzando gli elementi costitutivi che ne compongono la complessa fisionomia e penso che alla fine di questa lettura possa risultare difficile considerare il rischio solo un nemico.
Cos’è mai il rischio? È un “trabocchetto invisibile” in agguato sulle possibilità esistenziali, un crepaccio spalancato sul vuoto insondabile della predestinazione o scaturisce da limiti percettivi squisitamente soggettivi? Che si tratti di uno stato d’animo o d’un campanello d’allarme dell’istinto di sopravvivenza di chi è allenato a percepirlo o della pulsione autodistruttiva di chi sfida la propria “fragilità esistenziale”, il rischio e le sue implicazioni paiono procedere intatte nel tempo della storia, quasi come se un “sarto delle probabilità” le confezionasse a misura degli intenti d’ognuno.
Taluni, nel corso delle loro esperienze ne avvertono la consistenza sfuggente al pari di quella dei sogni che si sa d’aver fatto ma dei quali consciamente non ci si ricorda, altri ne danno per scontata la presenza ma non sentono la necessità d’interpretarlo per difficoltà o per timore d’affrontarne la valenza. Cominciai riflettendo sul perché la “parola” rischio fa così paura, dal momento che non è sinonimo d’un pericolo esterno e nemmeno è da ritenere fautore esclusivo di incidenti. Forse perché nel rischio noi intravvediamo una possibilità di mutazione degli eventi che non siamo in grado di prevenire. Tuttavia, quello che mi fece inizialmente davvero paura nell’analizzare il significato del rischio, fu l’invisibilità degli elementi che lo caratterizzano e ne rendono indefinita la fisionomia.
Ma il rischio potrà mai avere un’identità definita? Il fatto che concorra a farci sfiorare o incontrare situazioni più o meno gravose, fa sì che non sia poi così disgiunto dai pericoli coi quali entra in contatto, al punto che rischi e pericoli in certi casi risultano legati gli uni agli altri come gemelli siamesi, giostrati dalla fatidica inevitabilità degli incidenti che con ricorrenza avvengono.
Da cosa scaturisce? Da un cedimento nervoso della soglia d’attenzione, da un calo motivazionale dovuto a stanchezza, da una fragilità caratteriale che indebolisce la determinazione? Probabilmente scaturisce dal modo in cui mentalità diverse interagiscono con le caratteristiche territoriali e le condizioni ambientali, che taluni sono “spinti ad affrontare” ed altri “indotti a sfidare” per realizzare la salita di un itinerario.
Hansjörg Auer nella sua free solo del Pesce in Marmolada, 29 aprile 2007
Cosa induce ad affrontarlo? Temo che siano molteplici i fattori che contribuiscono a rispondere a questo quesito: il fatalismo che lo mette comunque in conto, il fanatismo che induce a perseguirlo, l’ambizione che induce a negarlo con determinazione, l’agonismo per necessità d’affermazione sociale, l’antagonismo per necessità d’autoaffermazione individuale, l’inconsapevolezza per insensibilità percettiva, la superficialità per ignoranza, la necessità di affrontarlo per desiderio di conoscenza dell’ignoto.
Cosa indicano le sue conseguenze? La conseguenza d’un incidente non grave invita a riflettere sulla sua valenza esistenziale, sul perché si è caduti arrampicando o scivolando lungo un semplice sentiero o ci si è fatti male allenandosi. Ripensando alle implicazioni dei rischi considerai che le tracce lasciate sul corpo dagli incidenti non gravi rappresentavano una indicazione preziosa che valeva la pena di provare a interpretare. La premessa necessaria a intraprendere il cammino interpretativo che ha caratterizzato questo mio tassello di riflessioni sul rischio, parte dalla possibilità di incontrarlo anche per le “vie d’una città”, dove evitare può trasformarsi in incidente, affrontare permette di evitare, percepire può prevenire e abituarsi può essere fatale. La somma di queste possibilità sempre diverse rivela che la caratteristica principale del rischio è la versatilità che gli permette, a seconda dei casi, di intervenire sul decorso esistenziale.
L’identificazione del rischio
Al di là di ogni retorica ideologia di “lotta con l’alpe”, meno mutata di quanto si pensi (un tempo diretta a “vincere le pareti” sotto la “pioggia pericolosa” di sassi cadenti, oggi mirata a “vincere i monotiri”, muovendosi da uno spit all’altro sotto una “pioggia di sforzi traumatici”), in nessuna epoca storica l’alpinista ha mai desiderato prendere sassate in testa. Chi va in montagna, ovunque vada, in fondo si augura di realizzare il suo “senso vitale”… Che poi in montagna ci vada per soddisfare un inconscio desiderio di morte o viceversa che la morte vada a lui incontro per casualità o predestinazione, questo riguarda la vita di tutti i giorni.
Oggi l’alpinista incallito, di ritorno dalle proprie realizzazioni più o meno prestigiose, una volta ritrasformato in semplice cittadino di strada, è esposto a rischi ben maggiori che in passato. È curioso osservare come gli individui, consapevolmente o meno, continuino a rischiare in rapporto a condizioni dettate dal caso e come sussista un’analoga accettazione del rischio come fattore inevitabile, sia nelle mentalità laiche che in quelle religiose.
Qualche anno fa sulle pagine della Rivista della Montagna ci fu un’inchiesta in cui ci si chiedeva addirittura se il rischio fosse un fattore “negativo” o “positivo” nell’andare in montagna. Ripensando a quelle considerazioni, potrei dire che il rischio è un fattore formativo, ma solo nel caso in cui sia il timer percettivo che allerta permettendo di valutare gli estremi di ciò che si sta facendo, per modellare razionalmente le emozioni e superare situazioni disagevoli; viceversa è un fattore autodistruttivo quando diventa necessità dimostrativa. A questo proposito, la libera esplorativa può essere praticata con un certo margine di sicurezza soprattutto se non vi è contrasto tra il “desiderio d’affrontare” e la “necessità di dimostrare” di essere all’altezza, altrimenti è possibile trovarsi coinvolti dalla “necessità di rischiare” sull’orlo spiovente di risultati improbabili.
Il fatto d’aver riflettuto su questo argomento sfuggente e repulsivo mi ha dato la possibilità di capire un po’ meglio ciò che nel corso degli anni passati ho vissuto, di ripensare a coloro che, facendo male i conti, nel rischio sono malauguratamente inciampati, e magari d’interessare quelli che non ci hanno mai riflettuto di soffermarsi sul suo significato.
Il rischio attribuito
II “punto zero” del discorso non riguarda solo la mentalità di coloro che aborriscono alpinismo e arrampicata considerandoli attività fini a se stesse e (come sottinteso con ironia dal titolo arguto del libro di Lionel Terray Les conquérants de l’Inutile – Gallimard, 1961) del tutto inutili, ma pure quella di chi oggi ha la possibilità di praticare esperienze confezionate su misura per una mentalità tutelativa, prive quindi del contatto con le caratteristiche intatte della natura montuosa.
Da questi il rischio è considerato il pericoloso nemico della necessità di sentirsi sicuri, che li induce a ritenere rischioso non solo ciò che lo è potenzialmente, ma tutto quanto esula dalla loro capacità di controllo. Dal momento che si tratta di un giudizio teorico, non collegato a una reale esperienza, si tratta di rischio attribuito.
Il rischio indefinito
All’inizio del ‘900, in alpinismo e arrampicata il rischio era visto un tutt’uno col pericolo. Di conseguenza esisteva una predilezione descrittiva per le pareti soggette a scariche di sassi, il modo più esplicito per visualizzare l’incertezza che caratterizza la frequentazione degli ambienti montuosi più severi. Si trattava d’un’enfasi che dal secolo XVI al XIX vediamo sempre meglio rappresentata nelle xilografie e nei disegni a commento delle avventure dei pionieri, laddove rischi e pericoli sono talmente rimarcati da far sospettare una manovra pubblicitaria ante litteram attuata dai protagonisti a favore di tutto ciò che rappresentava il rischio. Possiamo quindi riconoscere nell’indefinibilità iniziale un primo elemento configurativo del rischio.
Modelli ricorrenti d’eroici contrasti
L’indefinibilità, che caratterizza la valenza del rischio agli albori, viene affrontata a “spada tratta” dall’azione mitica dell’Eroe.
Enrico Camanni, che assieme a Daniele Ribola, qualche anno fa, si occupò delle tre figure eroiche più significative della nostra storia alpinistica, Comici, Gervasutti e Castiglioni, successivamente in un intervento su Alp focalizzò l’attenzione dei lettori sulle figure mitiche di Eroe e Antieroe. Leggere quegli scritti permette di riflettere su come vi siano effettivamente modelli d’individui dagli opposti intenti, che paiono aver attraversato indenni le epoche storiche dalla mitologia greca ai giorni nostri. I due personaggi che egli individuò erano Manrico Dell’Agnola e Soro Dorotei, per la contrapposizione dei punti di vista.
Il primo ritiene che le caratteristiche più drastiche dell’alpinismo tradizionale (lunghi avvicinamenti, ambiente severo, maltempo, pericoli oggettivi) non siano controindicazioni, ma piacevoli punti a favore di una pratica positiva, e pertanto rispecchia la figura forte e passionale di un combattente che pare buttarsi fisicamente in un delicato corpo a corpo con le difficoltà rischiose.
Il secondo intende tenersi a debita distanza dal pericolo che non si sente in dovere d’affrontare, perché è convinto che non abbia più senso percorrere settori friabili, bagnati o esposti alla caduta di pietre, preferendo le difficoltà non rischiose con la determinazione tipica di chi è prudente e deciso a difendersi da tutto ciò che potrebbe nuocergli, domandandosi quanto costa alla società un morto in montagna e pensando alle conseguenze sociali di una famiglia lasciata orfana. Chi potrebbe dargli torto.
Hansjörg Auer
Il vero dilemma, però, non consiste nel fatto che le due figure siano “arroccate su posizioni anacronistiche e inconciliabili”, divise da un conflitto insanabile nel quale non s’intravede alcuna possibilità di compromesso, bensì nella ragione dell’antico braccio di ferro che si ripropone immutato da un’epoca all’altra del tempo storico.
Siamo proprio sicuri che l’Eroe della mitologia fosse una figura in balia dei divertimenti del cinismo divino? Non è che invece fosse solo un “atleta esistenziale” che ci invitava a riflettere sulla possibilità di sopravvivere agli ostacoli della vita?
Ho l’impressione che i punti di vista opposti che generano le polemiche di sempre, scaturiscano sostanzialmente dalla pretesa di sostenere il diritto alla propria “grandiosità mitica” che l’Eroe difende a fatica e l’Antieroe rifiuta. Anche se la “grandiosità”, per definizione, come un’alba che la psiche delinea sul mondo, non può essere raggiunta o ottenuta ma solo visualizzata interiormente o negata esteriormente. Pertanto dobbiamo constatare come la conflittualità degli intenti perpetuata nella storia sia solo il secondo elemento configurativo del rischio.
Agonismo e Antagonismo, “gagliardetti” della necessità di distinzione
Successivamente, quando al rischio fu attribuita una valenza “soggettiva” per differenziarlo dal pericolo, le responsabilità dovute alle condizioni ambientali furono distinte da quelle delle scelte individuali sia di coloro che “accettano di agire in determinate condizioni” sia di chi “non sa valutare le proprie capacità in certe situazioni”. Ciò indusse a utilizzare il rischio come spauracchio per ridimensionare l’intento di coloro che invece proponevano un’etica di salita che “non rifuggiva” dal fattore rischio, “proteggendo” il concetto di salita con minimo utilizzo di artifici. Se è vero che una figura Eroica come Paul Preuss anteposta a quella di un Antieroe come Tita Piaz può apparire un facile esempio di ideologia suicida, tanto più che effettivamente Preuss morì in montagna, non si può affermare che le capacità del grande solitario fossero alterate dalla necessità scriteriata di definire a tutti i costi i punti fermi d’un etica che solo un’intelligenza priva di senso critico può ritenere protagonismo ideologico.
Come mi ha fatto notare argutamente Giovanni Rossi, sarebbe bene precisare che Piaz, il più fiero oppositore di Preuss a quell’epoca, nonostante il dissenso sui mezzi artificiali (benedetto il chiodo che salva una vita…) aveva grande stima di Preuss, e contribuì non poco al suo mito raccontando in modo molto spassoso di una sua ‘apparizione’ durante un’arrampicata artificiale: Quo vadis, Tita? (Tita Piaz, A tu per tu con le crode).
Ha senso scavare a fondo nelle motivazioni soggettive se poi queste vengono plasmate nell’intento di adattarle a un ambito sociale? Forse ha più senso considerare le possibili ripercussioni che da queste possono derivare. Qui si pone una considerazione sostanziale: non è che gli individui pervasi dalla necessità di approfondire un’etica che vorrebbero divulgare tendano, loro malgrado, a forzare le esperienze entro una “linea di principio” che risulta, in quanto tale, potenzialmente pericolosa?
La ragione della reazione provocatoria di Piaz all’etica di Preuss forse si potrebbe interpretare come un frainteso per il fatto che riconosceva al tentativo di delineare i punti sostanziali d’una possibile chiarezza, una sorta di “dittatura etica” che avrebbe potuto segregare le scelte di vita e il “senso di libertà” degli individui.
Se davvero Preuss avesse pensato di utilizzare le proprie capacità per promuovere la validità di regole intransigenti, più che rischioso per sé lo sarebbe stato per chi le avesse applicate senza averne interiorizzato il valore. Ma far rientrare forzatamente un intento in una teoria non è l’esatto opposto di ciò che attraverso le esperienze di vita si arriva a comprendere? Difficilmente chi ha un intento etico avrebbe interesse a realizzare un regolamento distruttivo.
Tuttavia, il confronto motivazionale dei due grandi pionieri ci permette di riconoscere nella necessità di distinzione un terzo elemento configurativo del rischio.
Alex Huber nella sua free solo della via Hasse-Brandler della Cima Grande di Lavaredo
La necessità d’azzardo “baluardo” della finalità dimostrativa
II fatto di “osare” in montagna ha portato a pensare che vi fu chi pagò un grave tributo a causa della propria diversità di vedute in rapporto al periodo storico in cui viveva. Ma siamo davvero sicuri che i grandi liberisti del passato fossero figure in conflitto col contesto storico al quale appartenevano?
Non fu piuttosto quella foga di auto affermarsi per necessità di dimostrare ad altri che riguarda la tipologia di una certa mentalità di ogni epoca – la causa che produsse il perpetuarsi dei drammi (incidenti più o meno gravi, decessi) seppelliti dall’oblio della fruizione epocale?
Quando iniziai ad arrampicare con una certa assiduità alla fine degli anni ’60 era in corso lo schieramento etico tra le due opposte fazioni degli “artificialisti” e dei “liberisti”. Tra i più forti di questi si fece strada la tendenza a non utilizzare o addirittura levare i chiodi d’assicurazione ritenuti superflui, specie lungo gli itinerari più impegnativi delle pareti dolomitiche.
Questa tendenza di lì a qualche tempo contribuì ad indirizzare gli intenti di quella generazione a favore della libera e contro l’artificiale convenzionale, per praticare una libera a protezioni ridotte lungo gli itinerari ben chiodati. Era una tipologia di salita psicologicamente piuttosto severa proprio perché richiedeva una “rinuncia forzata” all’utilizzo degli ancoraggi che non veniva spontaneo applicare.
Come conseguenza, negli anni Settanta, la forza d’una “genuinità artificiosa” arrivò a spingere taluni, tra i quali lo scrivente, a salire slegati i quaranta metri del Sasso Remenno lungo itinerari non proprio banali, col rischio di rimbalzare accartocciati su qualche tovaglia apparecchiata alla base dai domenicali che, tra un boccone e l’altro, si guardavano bene dall’immedesimarsi nella “dimestichezza acquisita” di quei baldi giovani irrequieti.
C’è da dire che esempi d’affermazione sociale di questo tipo non riguardavano soltanto le “lotte maschili per il dominio territoriale”, ma accadevano anche quando questi entravano in “fibrillazione dimostrativa” all’arrivo della fanciulla più carina di turno e si scatenava una ridda rocambolesca di gesti teatrali nelle numerose salite necessarie a farsi notare.
A onor del vero va detto che, in quelle turbinose salite di gruppo che definirei “solitarie dimostrative“, vi era comunque una genuinità di fondo nella quale si poteva riconoscere una “necessità di esprimersi” simile per intento a quella della danza sperimentale. Ciò non toglie che nella necessità d’azzardo per finalità dimostrative possiamo riconoscere un quarto elemento configurativo del rischio.
Le spinte dei desideri e quelle dell’ambizione
Se è vero che l’esposizione al rischio è soggettiva (proprio perché insita nelle differenti modalità di vedute con le quali gli individui si rapportano a esperienze ogni volta diverse), mentre quella al pericolo dipende espressamente da condizioni naturali, è anche vero che il fatto di perseguire obbiettivi grandiosi espone ad una situazione in cui rischi e pericoli risultano amalgamati come “gemelli siamesi”, impossibili da visualizzare separatamente e difficili da contenere per via del raddoppiamento dell’incertezza.
Ben sapendo che il fatto di confrontarsi con ciò che è alla nostra altezza mette in condizione di essere pronti ad affrontare determinate situazioni, quando si arriva a negare l’evidenza degli stati d’animo più autentici, pur di fare a tutti i costi una salita, ci si espone senza riserve alla mercé d’un conflitto tra la “realtà effettiva” e la “visione ideale” dell’intento che ci si è prefissi; ne deriva una condizione dissociante che può rivelarsi estremamente rischiosa. Questa puntualizzazione occorre per evidenziare la distinzione tra le spinte del desiderio, che scaturiscono spontaneamente dall’attrattiva dei luoghi, da quelle della volontà d’ambizione, che scaturiscono dalla necessità di considerarli in funzione all’affermazione sociale. Sono spinte e motivazioni che perseguono intenti assai diversi, che la maggioranza degli alpinisti e arrampicatori non distingue o trascura forse perché non è interessata ad approfondire, al punto che in gran parte degli scritti riguardanti l’azione in montagna si considera come “grandissima passione” ciò che è invece “fortissima ambizione”.
Appare evidente come passione e ambizione altro non siano che i “resti” delle identità motivazionali dei modelli di Eroe è Antieroe che abbiamo precedentemente considerato e affiorano ricorrenti nelle motivazioni generazionali. Ripensare alla morte in roccia e su ghiaccio di valenti alpinisti come Ursella, Cozzolino, Gadotti, Reali, Lomasti, Bee, Pedrini, Vogler e Barbier, ci fa capire che morirono proprio in ciò che sapevano fare meglio e fa riflettere sulle sviste, i cali di motivazione, la stanchezza inconscia e il timore della perdita di prestigio che probabilmente li subissavano ed anche sulla pressione inconscia, certamente dovuta alla responsabilità d’essere sponsorizzati, come Casarotto e Grassi.
Il fatto, poi, che tutto ciò che è rischioso nella vita di taluni non è detto che lo sia in quella di altri, è un’ulteriore conferma di come rischio e pericolo giacciono amalgamati in latente attesa nel decorso esistenziale. A tal proposito mi vengono in mente i coniugi giapponesi Akiko e Mitsunori Shigi che il 18-19 gennaio 1979, in viaggio di nozze, hanno salito il gran canalone centrale della Brenva, grazie a una buona dose di distacco fatalista; sullo stesso versante non è toccata analoga sorte a Gianni Comino, consapevole della possibilità d’incontrare, all’altare simbolico di una sua importantissima esperienza, una sposa invisibile vestita di nero coi crisantemi in mano.
Pertanto nella contaminazione reciproca tra le spinte dei desideri e delle ambizioni si può riconoscere un quinto elemento configurativo del rischio.
Fessura perfetta a Indian Creek, Utah
Il rischio dell’incognita ridimensionata
Si rischia di più in cordata o da soli? Quando si attribuisce una valenza d’incoscienza alle prestazioni dei “testimonial” più famosi dell’arrampicata contemporanea bisognerebbe sempre ricordare che il rischio affrontato da loro, più che effettivo, è appariscente e spettacolare.
Quando vediamo “rischiare slegati” Alain Robert sui grattacieli delle grandi metropoli, Dean Potter sul grattacielo di pietra del Nose al Capitan e Alex Huber sul palazzo vertiginoso della Hasse-Brandler alla Cima Grande di Lavaredo, possiamo ben comprendere come quel modo di salire faccia rabbrividire tanto l’uomo della strada quanto la maggioranza degli arrampicatori più agguerriti, tuttavia il loro mix di concentrazione e determinazione, disinvoltura e rapidità, ci rivelano che una “dimestichezza acquisita” fa più paura a chi la vede che a chi la pratica, proprio perché è contenuta nell’ambito della loro prevedibilità.
Chi la pratica è di certo consapevole che la soglia del rischio è “congelata emotivamente” dalla modalità di esecuzione della salita, nella riduzione del temibile intervallo pensiero-azione, come diceva sostanzialmente Henry Barber trattando del “control of mind” in un suo interessante articolo pubblicato, se non ricordo male, su Mountain Magazine o Ascent, che immagino tirasse le somme sui suoi circa 250 giorni annuali d’arrampicata. Da sempre all’arrampicata solitaria e alla conserva si è attribuito significato di massimo rischio, se però ci domandiamo come ha fatto il tal solitario, sulla tal difficile via a salire così veloce, ci accorgiamo che difficilmente avrà rischiato per impiegare un tempo breve. Probabilmente rischia davvero chi, a causa di rallentamenti emotivi, è indotto a salire “piano sul difficile” per il fatto di non essere all’altezza e a “sbrigarsi sul facile” per il panico d’essere in ritardo.
Due esempi significativi di questi tipi di salite potrebbero essere per la conserva: il Diedro Philipp-Flamm e la Solleder in giornata, di Manrico dall’Agnola con Alcide Prati e per la solitaria: il gran concatenamento Marmolada-Civetta-Agner realizzato da Marco Anghileri.
Indipendentemente dal valore notevole di tali prestazioni, realizzate in tal modo grazie alla proverbiale resistenza allenata degli autori, il fatto che si trattò del confronto con itinerari percorsi in precedenza e quindi memorizzati nello sviluppo e nelle caratteristiche di instabilità e di ubicazione delle prese delle difficoltà maggiori, ci permette di capire che un’incognita ridimensionata è comunque un sesto elemento configurativo del rischio.
(continua)
Nel 1999 Ivan Guerini ha concepito il marchio ZONE NO SPIT (o NO SPIT ZONE), per la preservazione della Natura Verticale. Ivan si adopera perché questo marchio sia “storicizzato”, perché legato sapientemente alle pareti percorse e ancora da percorrere.
Si ritiene che anche questo post a sua firma debba riportare questo logo, nella speranza che stimoli una maggiore apertura di coscienza al riguardo della Natura verticale.
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Io sono un fifone, a volte anche un po’ impacciato nei movimenti e tutt’altro che eroico, nonostante questo sono riuscito a raggiungere tutti gli obbiettivi che mi ero prefisso, arrivare fin dove avevo fantasticato. Curiosamente, ma non troppo, le paure peggiori le ho provate su vie a spit, vincolate da altri, mentre ora, quando con i miei amici apro vie nuove, sono pervaso da una grande serenità. Intendiamoci: vie no-spit-zone. Ma non per un bisogno etico, per moda o spacconaggine, bensì per un atto di libertà, una libertà intesa come esercizio pratico di consapevolezza. Forse il vero rischio è scoprire nel pericolo di non essere davvero liberi.
Dal III° al IX°, non importa la difficoltà o il pericolo oggettivo, se si è soli o in cordata: Guerini elenca scientificamente tutto quello che, inutilmente e pericolosamente, rischia di pesare sul nostro imbrago quanto appoggiamo le mani sulla roccia. Con grande generosità un pilastro dell’arrampicata libera tenta di alleggerire le pene che affliggono l’arrampicata sportiva: ancora una volta grazie.
Anche se imprigionati nei propri sogni, bisogna riconoscersi dei limiti e allenarsi sia fisicamente che mentalmente per diminuire i rischi. E’ giusto ponderare che la passione vera ha sempre una manifestazione esteriore assai marcata, talvolta estrema, ma anche nel pericolo, c’è la sicurezza che viene dal conoscere quali sono i rischi da correre. Purtroppo l’arrampicata libera non può essere condizionata dalla paura di cadere, ma dall’immensa voglia di conquistare la vetta. Tuttavia bisognerebbe chiedersi: “Se cado in solitaria? Mi sfracellerò centinaia di metri sotto e non lascerò nulla: sarò considerato un folle della montagna che è morto senza senso”.
È impossibile fare dell’alpinismo senza osare. La colpa non è nostra, ma della passione! Provate a chiedere a un innamorato perché lo sia, vi darà mille spiegazioni, ma non saprà dirvi il perché; eppure sta vivendo uno dei periodi più belli.
Per quanto mi riguarda credo che una vita senza rischio sia una povera vita e non intendo solamente l’azzardo su una montagna. Credo che sia importante mettersi in gioco, ma per dare un senso alla propria realtà.
Ma è ineluttabile per uno scalatore mettere a repentaglio la vita; allo stesso modo corre dei rischi chi ha scelto di essere un soccorritore, chi ama la velocità o il volo, chi lavora in una miniera o fa il camionista e chi più semplicemente decide di farsi una famiglia. E allora, quanto si può rischiare per inseguire un sogno? C’è chi si è giocato la vita, nessuno può dire se giusto o sbagliato, dipende dal senso, dalla ragione della propria esistenza…
Magnifica ed impietosa l’analisi di Ivan!
Ciascun arrampicatore che pratica la free solo sa di rischiare e di farsi potenzialmente molto male o di vivere un pericolo anche mortale ma, mentre arrampica, ben raramente pensa che questo possa realmente accadere: mi rendo conto del paradosso ma credo sia esattamente quello che succede a chi, scientemente, arrampica slegato con un margine ragionevole sui suoi limiti.
Si pratica la free solo per i motivi più disparati e personali ma sono convinto che nessuno lo faccia per rischiare ma piuttosto per vivere, in una situazione di pericolo controllato, il dominio delle proprie capacità per poi sortire, attraverso questa esperienza, più consapevoli di sé stessi, della propria esistenza e della propria forza mentale (tutti fattori che inducono in noi una forte autostima) e penso che “l’impresa” in sé piuttosto che l’impatto dei media siano marginali rispetto all’esigenza primaria di contatto intimo con il nostro “io” più profondo (ci sono infatti molte alternative alla solitaria integrale per mantenere fama e sponsor…)
Forse non sarà un motivo sufficiente per rischiare di finire in un reparto di ortopedia ma, personalmente, sviluppo nella pratica della free solo un rapporto con me stesso che non ritrovo in altra maniera: per me questa sorta di “momento sospeso dal quotidiano” e il senso di “avventura” che porta con sé (nel senso che non so mai esattamente come potrà finire) rappresenta un appuntamento assurdo ma anche irrinunciabile e che va oltre l’obiettivo di concatenare la tal via o il tal tiro ma è piuttosto un modo imprescindibile di “parlare” con me stesso, un momento solo mio con me ed i miei pensieri nel quale, probabilmente, il mettermi in situazione di “relativo” pericolo e di conseguente iper concentrazione, si amplificano le sensazioni e si velocizzano i processi mentali e da cui rientro nel mondo “reale” con una maggior consapevolezza di me e del momento della vita che sto vivendo.
Questa è la mia personalissima esperienza; forse non ne varrà la pena ma una “modica quantità” di rischio e pericolo mi ha fatto vivere, fino ad oggi, sicuramente meglio.
Ciao
ma il Sig. EUCP (forse ho capito perchè si chiama così…. sarà mica un androide…?) evidentemente di esseri pensanti non ne vuole.
Gli esseri pensanti oggi come oggi sono un problema, un pericolo per questa società piatta, preconfezionata.
Chi esce dagli schemi, dalle righe va punito, va isolato come un virus pericoloso.
Seghe mentali o meno Ivan Guerini rappresenta un esemplare di essere pensante. Se in circolazione ce ne fossero di più vivremmo molto meglio.
Il vero problema è che coloro i quali dirigono la nostra società, spinti anche da lobby che operano nell’ombra, stanno facendo di tutto per toglierci se non proprio la libertà quanto meno quel genere di libertà che non può essere standardizzata da usi e costumi imposti dall’alto. E quando non ci riescono col bombardamento mediatico ci riescono con qualche leggiucola ad ok, magari incostituzionale, al fine di impedire comportamenti non conformi.
Arriverà il momento in cui sarà severamente vietato andare in montagna da soli o arrampicare free solo, perché si sta’ andando verso un mondo dove la vita non sarà più considerata un bene personale bensì un patrimonio collettivo, da tutelare a qualunque costo. La vita di una persona non sarà più vista come un’esperienza unica e irripetibile bensì in funzione di una società come quella della api.
caro EUCP, certo che hai uno strano nome…..
comunque ti volevo dire che forse non hai capito che , la montagna e l’alpinismo, sono solo un mezzo e non il fine, per manifestare la propria libertà.
Libertà di intendere la propria vita. Perchè la mia vita è solamente mia e, nel rispetto degli altri, ho il diritto di viverla come meglio credo.
“Una bella visita, possibilmente prolungata, in una corsia di ortopedia o di oncologia può far capire a tutti quanto sia importante la VITA! Visitare per credere.”
Cosa vuol dire fare questo paragone?
Perchè chi dedica tutta la sua vita a lavorare , a fare soldi, trascurando amicizie ed affetti, pensando di essere immortale e forse di portarseli dietro i soldi che ha accumulato, forse è migliore di chi pratica l’inutile alpinismo?
Armando Aste è stato un grande alpinista che ha fatto anche grandi solitarie. Eppure è un credente che ha sempre affermato che la vita è un dono che non va giocata ai dadi. Ma questo non gli ha impedito di fare del grande alpinismo.
“E più si invecchia più questa verità appare evidente.”
ma quale sarebbe questa verità?
lL verità è che più si invecchia più ci si rende conto che nella vita di certezze non ce ne sono. Nonostante l’uomo si comporti come se fosse immortale.
Seghe mentali. Affascinanti ma pur sempre seghe mentali.
Una bella visita, possibilmente prolungata, in una corsia di ortopedia o di oncologia può far capire a tutti quanto sia importante la VITA! Visitare per credere.
La vita è una ed una sola.
E non c’è niente al mondo, secondo me, per cui valga la pena metterla a repentaglio consapevolmente.
E più si invecchia più questa verità appare evidente.
Comunque ognuno è libero di pensare e dire ciò che crede. Ed è anche libero di mettere a repentaglio la vita per un ideale, giusto o sbagliato che sia. Roccia (o montagna) compresa,
Per me, la montagna e l’alpinismo non sono una buona causa per mettere in gioco la vita.
La libertà e la democrazia, forse sì.
Con ossequi e con rispetto per tutti
E.C.
Mi ha interessato leggere questa dissertazione.
Prima di leggere questo, il mio ragionamento era tutto diverso e molto più semplice, magari semplicistico.
Per me esistevano i pericoli esterni a me e quelli culturali che andavano studiati e valutati e i pericoli dovuti ai miei limiti psico fisici, gli unici che potevo tenere sotto mio controllo e allenare.
E poi c’era una mia assunzione di rischio, più o meno alta a seconda di ciò che intraprendevo.
La paura/tensione/stress era il “segnalatore” di rischio sia prima che durante l’azione.
Nell’azione le tre “cose” si mischiavano sempre fra di loro, ma non dovevo mai confonderle per non cadere nel panico, dovevo sempre riuscire a tenerle separate.
Tanti alpinisti ragionavano in questo modo, molti avevano un mix molto spinto.