Il rivoluzionario, l’assassino e la piccozza
di Marina Morpurgo
(pubblicato su grivel.com il 9 luglio 2021)
Sono passate da poco le 18 del 20 agosto del 1940, quando un’ambulanza arriva in avenida Rio Churubusco nel sobborgo di Coyoacán a Città del Messico, e i soccorritori entrano in una casa che è una specie di fortezza sorvegliata da guardie armate.
Nello studio trovano un sacco di sangue ovunque, gente disperata, e un uomo ferito in modo gravissimo: la paletta di una piccozza da alpinismo gli ha sfondato l’osso parietale, ha lacerato le meningi ed è penetrata per parecchi centimetri nella parte destra dell’encefalo, restando incastrata.
C’è anche un altro ferito, meno grave ma comunque malconcio: è l’aggressore. La vittima che non ha subito perso i sensi ma ha avuto parecchi minuti di lucidità, nei quali ha cercato di difendersi nonostante fosse già semiparalizzato, lo ha azzannato alla mano, piantandogli i denti nella carne – un segno che porterà per sempre. Il tizio sanguina anche dalla testa, perché le guardie della casa, richiamate dall’urlo agghiacciante dell’aggredito, sono entrate nella stanza e hanno cominciato a colpire l’intruso con i calci delle pistole, finché l’uomo con il cranio sfondato dalla piccozza non ha ordinato loro di fermarsi, perché se lo uccideranno non si saprà mai chi è e perché è lì.
L’ambulanza trasporta entrambi i feriti all’ospedale Cruz Verde e l’attività al capezzale del moribondo – perché le sue condizioni appaiono subito disperate – è frenetica, con i migliori medici che si affannano per salvarlo, e un aereo pronto a partire dagli Stati Uniti, con un luminare della neurochirurgia a bordo. Quello non è infatti un paziente qualunque: è Lev Trotsky, l’ex comandante dell’Armata Rossa, l’eroe della rivoluzione e della guerra civile, adesso diventato la spina nel fianco di Stalin, che ha fatto il vuoto attorno al rivale, costretto a fuggire da un paese all’altro e inseguito da una condanna a morte emessa dal burocrate paranoico e spietato.
Trotsky, che nel 1927 è stato espulso dal comitato centrale del partito, è esule da dodici anni: è stato in Kazakistan, poi è andato in Turchia dove però a minacciarlo di morte ci sono i vecchi nemici di un tempo, gli irriducibili dell’Armata Bianca. È passato allora in Francia, dove è stato ammesso a condizione che si tenga lontano da Parigi, ma le pressioni di Stalin non sono cessate.
È stato poi accolto dalla Norvegia, ma anche da qui se ne è dovuto andare, dopo essere stato messo agli arresti domiciliari. Stalin non lo vuole così vicino ai confini, e per i governi ospitare Trotsky, l’eterno rivoluzionario, il condannato a morte in attesa di un’esecuzione che difficilmente scamperà, diventa sempre più rischioso e politicamente difficile.
Una mano amica gli è stata tesa, finalmente, dal Messico, unico Paese ancora disposto a concedergli un visto.
Il presidente Lázaro Cárdenas è un vecchio rivoluzionario e un riformatore, e ha accolto con piacere la richiesta del pittore comunista Diego Rivera: invitiamo Trotsky a stare da noi. Lo hanno fatto viaggiare in gran segreto su una petroliera, con il timore che la nave venisse fatta saltare con l’esplosivo o assaltata in mare aperto – ma è andato tutto bene, il 9 gennaio 1937 Trotsky e la sua famiglia sono arrivati a Città del Messico, qui hanno amici, ammiratori, gente pronta a difenderli.
Adesso però Trotsky è morente nel letto d’ospedale. L’operazione chirurgica per quanto tempestiva non è servita a nulla, la paletta della picca (Trotsky è stato colpito con un attrezzo austriaco prodotto a Fulpmes, nello Stubai, alla fine degli anni Venti: è una piccozza moderna, in possesso del misterioso assassino che sostiene di essere un valente alpinista, circostanza mai provata) è penetrata talmente a fondo che solo un intervento assai radicale, con l’apertura di una porzione molto grande di calotta cranica, potrebbe forse salvarlo, anche se i neurochirurghi del XXI secolo non ne sono affatto certi.
Le ultime fotografie di quello che era stato uno dei capi più prestigiosi della rivoluzione russa ricordano il Cristo del Mantegna: il viso è sereno, la testa lievemente inclinata di lato. Trotsky sopravvive 25 ore all’aggressione: il 21 agosto alle sette e un quarto di sera ne viene dichiarata la morte.
Ha 60 anni e ha subito già numerosissimi lutti, tra i suoi compagni molti sono stati uccisi o si sono tolti la vita. Anche suo figlio, Lev Sedov, è morto in circostanze misteriose a Parigi nel 1938, e si sospetta che sia stato avvelenato da agenti di Stalin.
Adesso l’attenzione si concentra sull’assassino. Su chi sia il mandante nessuno sembra avere dubbi. Solo pochi mesi prima, il 24 maggio, un commando di uomini armati del quale faceva parte il pittore comunista e celebre autore di murales David Alfano Siqueiros, fedele a Stalin, ha preso d’assalto la villa di Trotsky, per cercare di eliminare il fondatore della Quarta Internazionale: la sparatoria è durata a lungo, sono stati sparati centinaia di colpi, Lev e la moglie Natalia Sedova e il nipote Seva si sono buttati sotto i letti e sono rimasti illesi. Da allora la sorveglianza è stata intensificata.
Ma l’uomo della piccozza chi è, e come è entrato in quel fortino super-protetto? Alla famiglia e alle guardie di Trotsky si è presentato come Frank Jacson di Toronto, cittadino canadese. Ma ha anche altri documenti, questa volta intestati a tal Jacques Mornard, uomo d’affari belga nato in Iran, bon vivant con idee di sinistra. Ci vorranno anni e anni prima che si scopra la vera identità dell’uomo rinchiuso nel carcere di Palacio Lecumberri, dove sta scontando la condanna a venti anni inflittagli per l’omicidio.
Sembra incredibile che un semisconosciuto dal passato fumoso e incontrollabile sia riuscito ad arrivare a tu per tu con Trotsky, nel suo studio, con ben tre armi letali nascoste sotto la giacca e nelle tasche dell’impermeabile che porta sul braccio, nonostante il tempo sia bello e caldo: la piccozza della quale ha segato a metà il manico, un pugnale e una pistola automatica. Jacson-Mornard da qualche tempo frequenta la villa, e sa che Trotsky è contrario alla perquisizione degli ospiti. Ha avuto gioco facile: ha chiesto al “vecchio” (così lo chiamano affettuosamente) di leggere e correggergli uno scritto politico, e mentre Trotsky era chino e assorto ha estratto la piccozza, assestandogli quell’unico colpo spaventoso, con il quale contava di ucciderlo silenziosamente e all’istante.
Non è andata così, e la vittima ha gridato: le guardie erano però in un’altra stanza, e sono arrivate a tragedia avvenuta.
A garantire al sicario l’accesso in rio Churubusco è stata una donna, Sylvia Ageloff, una trotskista americana dello Socialist Workers Party che di Trotsky è diventata la segretaria. E qui ci imbattiamo in uno dei tanti misteri di questo giallo che solo con il passare di molti decenni e l’apertura degli archivi assumerà i contorni di una vastissima congiura internazionale.
Sylvia Ageloff per molto tempo viene indicata come la “povera piccola Sylvia”, una militante fragile e ingenua ai limiti dell’idiozia, una bruttina bisognosa di affetto e abilmente sedotta dal bel Mornard (un moraccione con la faccia da attore e i folti capelli ondulati) che l’ha approcciata a Parigi nel 1938, e che ne è diventato ben presto il compagno di vita, un compagno di sicura fede trotskista.
Resasi conto di aver spianato la strada all’assassino, che con la scusa di discutere con Trotsky di politica è entrato più volte nella fortezza di Coyacan nonostante non ispiri simpatia e fiducia ai padroni di casa, Sylvia si mostra disperata e stupefatta, rispondendo con crisi isteriche alle domande degli inquirenti messicani, che inizialmente la ritengono complice dell’omicidio. Solo negli anni Settanta emerge dalle carte che i trotskisti americani che si occupavano della sicurezza di Lev erano stati pesantemente infiltrati dagli uomini della polizia segreta di Stalin, e la figura della “piccola Sylvia” assume contorni ben più inquietanti: una donna che aveva ancora famiglia in Russia, ed era dunque ricattabile, ed era consapevole dei lati oscuri e delle stranezze del suo “fidanzato”.
In carcere, Jacson-Mornard non fa e non farà mai alcuna rivelazione sui retroscena dell’omicidio.
Nessuno saprà fino al 1953 che il suo vero nome è Ramón Mercader, spagnolo cresciuto in Francia (dove avrebbe appreso alla perfezione – dice – l’uso della piccozza per l’intaglio dei gradini nel ghiaccio). Figlio di una militante comunista ed ex combattente nella guerra civile spagnola, Ramón Mercader ha anche una sorella, Maria, che fa l’attrice e sposa Vittorio de Sica: dalla loro unione nasce Christian.
L’assassino di Trotsky viene rilasciato nel 1960, dopo il fallimento di vari tentativi di farlo scarcerare, ribattuti dal governo messicano. Insignito dell’onorificenza di Eroe di Guerra dell’Unione Sovietica, va a vivere dapprima a Mosca sotto un ennesimo falso nome e poi a Cuba, dove lavora per Fidel Castro. Per tutta la vita gli arrivano soldi sulla cui provenienza non ci sono dubbi.
Muore nel 1978 all’Avana, lo seppelliscono nel cimitero di Kuntsevo a Mosca: sulla lapide c’è scritto “Lopez Ramon Ivanovic”.
La piccozza del delitto, che come abbiamo detto, forse apparteneva davvero a Mercader da anni, o forse l’assassino l’aveva rubata in una delle case che l’avevano ospitato, è rimasta nell’ombra per decenni: un agente della polizia segreta messicana, Alfredo Salas, la prelevò dal magazzino delle prove, sostenendo di volerla preservare per i posteri, e la affidò alla figlia Ana Alicia, che la conservò sotto il letto per 40 anni, finché nel 2005 non decise di venderla. Fu acquistata per una somma rimasta ignota dal collezionista americano Keith Melton, fondatore del Museo Internazionale dello Spionaggio di Washington, che oggi ospita il reperto, uno straordinario e macabro caso di piccozza diventata famosa per motivi non alpinistici.
Marina Morpurgo, dopo aver fatto la giornalista è diventata traduttrice letteraria dall’inglese e autrice di manuali di storia per le scuole. Ha pubblicato narrativa e saggistica per ragazzi con Feltrinelli, e romanzi brevi e racconti con la casa editrice Astoria. L’ultimo dei suoi libri di narrativa È solo un cane (dicono) è stato ripubblicato in forma ampliata nel 2020. Adora la neve fresca, i cani, i gelati, e sgambettare sulle placche di granito, mentre detesta i traversi e tutto ciò che è strapiombante.
Foto: © Gli Sfacciati
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Recentemente ho ascoltato un’intervista interessante a Erin Doom, una scrittrice che scrive sotto pseudonimo e di cui si sa poco. Immagino avrà i suoi motivi
Ma se lo avessero assassinato con delle forbici questo articolo lo pubblicavano su un un blog di sartoria?
Cari tutti, abbiamo già scritto diverse volte che usare pseudonimi in un un blog come questo, che raccoglie soprattutto montanari che poi, magari, prima o poi, si incontreranno, è un po’ strano, ma non tutti hanno il coraggio di scrivere mettendoci la faccia.
Se fossi l’autore di un pezzo criticato, mi farei piuttosto osservatore con interesse verso lo scambio tra i lettori. E magari attenderei un po’ prima di intervenire, se proprio ne ho voglia.
Io ricordo il celebre “cretinetti” che Franca Valeri usava (credo nel film “Il vedovo”) per chiamare Alberto Sordi e che quando morì divenne il suo necrologio. Che dire del resto, per essere pignoli, delle sostanze “psicottive”?
Eccolo la,il Sig.Matteo,puntuale sugli errori di battitura o meno,è commovente fa il paio con il Sig. Pinotti,sempre schierati,eccoli accumunati ,dalla grande Franca Valeri,quando chiamava il suo marito in un celebre film.Mi sfugge il termine,non credo però fosse…alpinista?scalatore?critico d’arte..mah..vallo a indovinare
Vedo che la sua autostima è particolarmente elevata, speriamo non sopravvalutata. Dimentica che gli pseudo da Lei citati sono facilmente e umanamente riconducibili a dei nomi e cognomi e che scrivono, o hanno scritto, per quotidiani o periodici in cui un Direttore si assume la responsabilità.
Questo è un blog che permette l’interazione dei lettori, non un forum che fa dell’anonimato dei nick una cifra stilistica e funzionale.. Ogni articolo è corredato da nome e cognome dell’autore e correttezza vorrebbe che osservazioni critiche ed aggiungo subdole come la sua ( ameno che non sia un rozzo tentativo di autocelebrazione) dovrebbero avere una firma riconducibile a una persona. Aveva ragione il Manzoni a proposito di don Abbondio.
P.s. Sul suo tentativo di ironizzare sul mio cognome, adombrando che Penotti, Peyote o Pinot pari siano, un ragazzino di dieci anni con una veloce ricerca su internet trova le risposte. Se ha necessità di sapere come si usa Google mi faccia sapere, sarò lieto di spiegarle passo passo il funzionamento.
“errata corrige. ..stoffa e nom soffa,sarà la bassa qualità”
E per “ricoscere” e “propie” niente errata?
Comunque credimi, non è per come scrivi e quello che scrivi che desta sospetti di uso di scadenti sostanze psicottive…
Come sottolineato al commento 15 (Carlo) ho scritto “sembra” proprio per segnalare la coincidenza senza accusare nessuno. Magari questo pezzo potrebbe essere stato concepito ben prima del 2018 e quindi la questione si potrebbe capovogere. Quanto al sig. Giuseppe Penotti (sarà il vero nome, o forse Peyote o Pinot chissa?) non si capisce perchè ciò che uno scrive sia più o meno lecito a seconda di come si firma. La storia del giornalismo italiano è piena di personaggi che hanno scritto sotto “copertura” (Fortebraccio, Benelux, Geronimo, Bancor, Ghino di Tacco, Iena, l’Elefante ecc ecc).
la…la..là Sig.Morpurgo non si offenda parafrasando,riguardo la presunta accusa rivoltale..é solo una lettrice….il difetto caso mai è inserire il tema,suo,nel contesto,vero è che si potrebbe scriverne di libri per morti uccisi dall’alcool,e publicarne gli estremi su blog o riviste enologiche,stessa valenza,stessi risentimenti,ma poco costrutto,per il Sig Pinotti…non trattasi di lardo..ehm ehm
Sara toga ha solo detto che “,sembra” non che lo sia. Magari , prima di offendersi la marina potrebbe leggere il libro….magari ci può trovare veramente somiglianze
13. Marina.
Sopra tutto quando l’accusa di plagio arriva da chi non ha il coraggio intellettuale di firmarsi con nome e cognome.
Rispondo a SaraToga, visto che l’accusa di fare copiaincolla è abbastanza infamante. Non ho mai letto quel libro, ne ignoravo l’esistenza, quindi di sicuro non l’ho copiato. Inoltre, anche se per scrivere articoli divulgativi o libri divulgativi mi documento su materiale già uscito (e sulla morte di Trotsky è stato scritto di tutto e di più), mai e poi mai copierei e incollerei, per una questione di dignità professionale. Gli articoli possono piacere o non piacere, ma le accuse calunniose magari evitiamole.
Questo pezzo sembra un copia-incolla di quello contenuto nel libro di Federico Mosso “Club degli insonni” (GOG edizioni, 2018) che è una raccolta di diciannove racconti originali ispirati a fatti realmente accaduti e ripescati dagli angoli più bui della storia secondo un unico criterio: l’assurdità delle loro imprese. Nel libro troviamo infatti Benvenuto Cellini accanto al sanguinario Khan di Mongolia Barone von Ungern-Sternberg, il mitico Guido Keller aviatore italiano nella Prima Guerra Mondiale e uomo di fiducia del Vate Gabriele D’Annunzio, con cui partecipò all’impresa di Fiume, Ronald Stark uomo della CIA diffusore dell’LSD nei movimenti studenteschi americani degli anni Settanta e molti altri.
Quindi lo zia di christian de sica ha ucciao trorsky!!!
Cosa rende interessante questa storia sul Gogna Blog? La popolarità della vittima o l’uso fantasioso di una piccozza?
Al contrario di diversi lettori, ho sinceramente faticato a trovare la cronologia dei fatti per l’alternarsi continuo dei verbi al passato e al presente e dell’uso dell’avverbio “adesso” che non risulta mai nel presente. Per un attimo ho pensato che fosse un articolo tradotto da un’altra lingua!
errata corrige. ..stoffa e nom soffa,sarà la bassa qualità
sig.Penotti,giusto?la ringrazio del suo prodigo consiglio solo un buon consumatore ne sa ricoscere le qualità propie del prodotto e debbo riconoscere che in Lei vi è della soffa,nel senso del prodotto.Buon consumo
5. Alberperth. Forse ti hanno già avvisato, in caso contrario provvedo io. Attento che il peyote che mastichi è veramente di bassa qualità, cambia fornitore.
Sempre brava Marina, aussi dite Hansia Kammerlander
ecco dimostrata la pochezza nei commenti di un evento tragico che segnò una parte del pensiero..definiamolo rivoluzionario di allora..e della lunga marcia stalinista e comunista che pervase sino a pochi anni orsono una grande parte della sinistra italiana..non tutta..ma importante.L’assassinio come una moltitudine di assasini che contradistinse quel procedere,nella dissidenza interna..Le riflessioni sulla marca della picozza e sul suo uso distorto,ma essenziale al fine perseguito,dovrebbe portare i più esperti ed attenti,non ne mancano tra gli esegeti del blog,se sia possibile rivedere in esso un uso tipo dry tooling,o brain peak o stalinist statalist arm,vi è da spendersi..anche studiarne come fu impugnata. tipico assetto da ante piolet traction oppure anciene intagliatore di gradini..ecco perdercisi perdercisi….
E’ sempre un piacere (ri)leggere Marina Morpurgo.
Adoro leggere Marina. I suoi scritti hanno sempre uno stile asciutto e preciso con una padronanza dell’italiano a dir poco esemplare, cosa che non si può certo dire di alcuni rinomati scrittori italiani.
I suoi libri sono godibilissimi e con un felice equilibrio fra lieve ironia e serietà.
Consiglio fra tanti, il “Passo falso” ambientato fra le montagne del comasco.
con una coppia di piccozze (che ho ancora) della Stubai ho salito in Apuane DOCCIA FREDDA al monte Fiocca nel 1985.
E sempre nel 1985 un martello della Stubai comprato pochi giorni prima a Viareggio all’Hobby Sport in via Marco Polo, che teneva un pò di attrezzatura alpèinistica, alla seconda martellata mi si troncò il manicodi metallo sulla via Aste allo spallone del Campanile Basso di Brenta. E poi dicevano che era scadente il materiale italiano.
Io io ebbi avuto una picozza stubai , feci un bel po di salite in Apuane e il m. Bianco dalla via normale, prima di passare ad attrezzi più ” moderni”