Il Salto delle Streghe
di Giuliano Sten Stenghel
Ricordando una grande parete rocciosa, una scogliera unica sul lago di Garda…
Quel giorno arrivo a Campione quasi per caso. Per la prima volta attraverso il paese, una sensazione di pace totale s’impadronisce di me: l’aria è ferma, frizzante. Mi guardo attorno ma non sono attratto dall’azzurro intenso del cielo che si specchia nel lago di Garda, ma dallo strapiombo impressionante sopra di me. Non riesco a staccarmi da quelle pareti e, come per incanto, mi sale dal cuore un anelito di ebbrezza. Seguo con lo sguardo il volo dei gabbiani, già alti sull’acqua, contro il sole, li vedo entrare nelle “gole”, oppure riposare negli anfratti rocciosi e immagino la loro gioia nel volare in quel paradiso: è un insieme di luci e di colori, un anfiteatro di pareti che sembrano soffocarti nella loro maestosità. Mai, sul lago, avevo visto sculture simili e ne sono abbagliato.
Un uomo, non più giovane, mi si avvicina e dice: “Bella, vero, la nostra montagna?”. “Sì – rispondo – molto bella, mi piacerebbe scalarla”. Con queste poche parole, scambiate senza staccare gli occhi dalle pareti, inizia la mia avventura in quella lingua di terra isolata dalla potenza della natura.
Passano alcune settimane e ritorno a Campione. In questo luogo c’è una atmosfera diversa, unica e non solo per l’esplosione della natura: ma c’è anche qualche cosa di eterno, di magico. Anche d’estate la quiete non è mai in pericolo. Infatti, non ci sono né ville, né pizzerie, né discoteche come nelle altre località del lago. C’è invece il volo solitario e il grido romantico dei gabbiani, c’è il vento che lavora la roccia, c’è una natura praticamente intatta e, infine, c’è l’acqua che scende fra le pareti formando grotte e gole di rara bellezza.
Il Salto delle Streghe
Così, come d’incanto, io e Walter Vidi ci troviamo su quella muraglia dall’aspetto così affascinante. In quel momento non potevo sapere che poche volte nella mia vita di alpinista avrei avuto tanta soddisfazione e gioia nel giungere in vetta. Le difficoltà sono, a tratti, strenue. Non mi sono mai arrampicato su una roccia così strana; dal basso sembrava tutto più difficile; ero convinto di dover far uso di “ferraglia”, ma una volta sulla parete, tutto diviene più accessibile, e tiro di corda dopo tiro di corda saliamo la gialla e strapiombante montagna solo con le nostre mani. Guardando in basso vedo i tetti delle grandi vecchie case e la fabbrica: è un paese, Campione, che è stato costruito per la fabbrica tanto che se questa muore (come è morta), sembra che tutto lì debba morire. Ma la gente vive ancora ed ama quella fetta di terra. In piazza ci sono i miei amici che mi chiamano e gli abitanti del paese col naso all’insù.
Ho la sensazione di arrampicare per loro. Continuo a salire ed è come se ci fosse tutta la forza degli abitanti di Campione nelle mie braccia e sul Salto delle Streghe l’arrampicata comincia ad acquistare una dimensione diversa; mi pare che tutti mi vogliano bene. Superiamo alcuni strapiombi, un diedrino poi un canale. Sento tutti i miei tendini, la mia mente, tutta la mia essenza rivolta in alto: un gabbiano mi vola vicino, il vento del lago mi colpisce ed è la cima.
Poi, in paese tutti ci attorniano e ci festeggiano. Conosco il Grigio, un uomo erculeo e brizzolato che ama la montagna, poi il Baffo, proprietario del piccolo bar ristorante, il barbiere e altri. Il Livido, che è anche il presidente della Pro loco, ci offre da bere e da mangiare: è ancora vero che la semplicità e l’amicizia sincera contano qualche cosa. Ne ho la prova, in pochi attimi, in quell’angolo di mondo.
Giunse l’estate, cominciai a vagabondare in quota, sulle montagne più alte pur avendo di tanto in tanto lo strano desiderio di tornare a Campione. E vi tornai. La piccola spiaggia, la più bella del Lago, è addormentata. Ci sono vele di surf al largo e la piazza del paese sembra essersi risvegliata: il negozio di Giovanni con i souvenirs, le cartoline, e altre cento cose risplende di mille colori.
Giunse poi l’autunno; torno ancora su quelle pareti che mantengono lo stesso fascino ammaliante che mi aveva stregato. Mi sento parte integrante di quei picchi rocciosi che forse ho già visto solo nelle fantasie della mia infanzia. Salgo per altre volte la strapiombante parete e tuttora sento il bisogno di ritornarci: è la maledizione o la magia delle streghe che vivono tra quelle rocce, misteriose e pericolose, ma sempre immensamente affascinanti!
Ciao, Salto delle Streghe!
Sul Salto delle Streghe e sulla grande scogliera del Tignale credo di aver espresso il massimo del mio alpinismo: ho percorso molte vie nuove in cordata con alpinisti di grande valore. In questo momento mi vengono quelli di Alessandro Baldessarini, Luca Campagna, Gino Collotta, Claudio Colò, Giovanni e Palma Groaz, Franco Nicolini, Marco Pegoretti, Mariano Rizzi, Fabio Sartori, Paolo Versini, Walter Vidi, Delio Zenatti; sono alpinisti di alta levatura, ma tra tutti, uno in particolare mi rimarrà sempre nel cuore: Andrea Andreotti.
Voglio condividere con voi il mio racconto della prima salita della via Serenella sul Salto delle Streghe: una via tra le più difficili e che ha rappresentato il mio ritorno al grande alpinismo dopo la malattia e la morte di mia moglie Serenella.
Con Mariano Rizzi, siamo accomunati da una passione estrema ed esclusiva per l’alpinismo, ma siamo legati soprattutto da una profonda e solida amicizia: ambedue abbiamo sofferto, pregato e condiviso lo stesso cammino verso Dio. Nessuno come lui mi è stato accanto nel periodo di maggior angustia della mia vita.
Ci troviamo a Campione sul Garda, ai piedi della grande scogliera del Salto delle Streghe. Nello zainetto la mia piccola sta dormendo, mentre i miei occhi sono fissi sulla strapiombante parete sovrastante. Quanti ricordi, quante avventure su quelle rocce: “Lassù ho scalato tutto quello che si poteva scalare…”, pronuncio a voce alta. Mi giro verso il mio miglior amico, seduto su un masso, ricurvo, la testa appoggiata sulle mani, ma con gli occhi in alto. “Ne hai aperte di vie”, mi risponde.
Con il dito indico la parete a strapiombo: “È rimasta però quella zona alta e scoscesa, che presenta per lo più la parte superiore sporgente rispetto a quella inferiore”.
“Un grande problema irrisolto ma… dai che puoi ritenerti soddisfatto!”.
“A mio parere lassù è possibile aprire una via”.
“Conosco quell’espressione che hai negli occhi”.
“Quale espressione?”.
“Quella che hai quando sei alla base di una parete che vuoi scalare”.
Le sue parole mi fanno sobbalzare e girare di scatto.
“Come?”.
“Non voglio metterti in tensione, ma è una delle muraglie rocciose più belle e difficili”, soggiunge, “sarebbe bello metterci su le mani”.
“Non capisco!?”.
Insiste: “Sarebbe bello metterci le mani”. Poi mi chiede con tono sarcastico: “Non ti sembra una buona idea?”.
Giuliano Stenghel sulla via Serenella al Salto delle Streghe
Annuisco con la testa e la mente lontana. Mariano mi conosce a fondo e mi vuole un gran bene. La mia simbiosi con la montagna si è quasi sempre trasferita anche ai miei compagni di corda e, la molla che ci ha fatto superare difficoltà inimmaginabili è stata l’amicizia, l’entusiasmo e l’essere uniti, in armonia tra di noi soprattutto nelle scelte importanti. Passano alcuni minuti che sembrano un’eternità senza che nessuno apra bocca. Si leva improvvisa una folata di vento: l’aria mi accarezza e mi dà un senso di pace e di abbandono. Continuo a fissare la muraglia rocciosa in silenzio, come ipnotizzato.
“Non dire sciocchezze, non intendo misurarmi con quella solitudine di strapiombi…”.
Ma dopo un po’: “Sono finito, totalmente distrutto, fisicamente e soprattutto moralmente; sono un sopravvissuto, decisamente fuori peso e mi ritrovo una pancia gonfia come un pallone, non parliamo dei muscoli delle gambe e dei glutei flosci e quelli delle braccia sfioriti”.
“D’accordo, ma ad eccezione della tua capacità di sfidare l’impossibile, di lottare e di resistere” incalza Mariano “e poi, ora hai un Angelo grande e con il suo aiuto ritornerai al grande alpinismo”.
Rimane un attimo pensieroso e aggiunge: “E dai che i giorni più belli sono quelli che devono ancora venire”.
“È una fortuna che sono ancora vivo!”, gli rispondo con una smorfia di sorriso. Poi penso alle volte che ho desiderato morire al posto di Serenella. Gli dico inoltre: “La mia non è stata una piccola pena, ma un dolore talmente grande e devastante che dovrò per forza far passare, non potrò vivere con la sofferenza degli ultimi anni”.
Stranamente però non riesco a staccare gli occhi dalla parete e in particolare su quell’unica striscia di roccia rimasta inviolata. I nostri sguardi si rincontrano e Mariano mi dice: “I tuoi occhi sono malinconici, ma nello stesso tempo hanno una strana luce, il tuo sguardo mi sembra una provocazione, è lo stesso di una volta”. Riflette qualche attimo, prima di riprendere a parlare: “Dai, vecchio mio, devi crederci e ritornare a vivere; dai proviamoci, ma non dove stai guardando, non lassù!”. Per avvalorare la sua ipotesi: “Lassù è una parete inaccessibile…”.
“Per le mie condizioni una via inconcepibile, ma… credo… che ritorneremo a scalare e proprio lassù!?”.
Per tutta la settimana quel “dai proviamoci” mi tormenta: è un qualcosa dentro che vuole uscire fuori per farmi andare avanti, per farmi ritrovare nuovo entusiasmo e voglia di vivere, per dirmi che Dio si sta servendo della mia passione per l’alpinismo come punto di partenza per ritrovare un domani di nuova serenità e, come per incanto, la grande parete del Salto delle Streghe si ripresenta davanti impadronendosi dei miei sogni. Ritrovo dentro la fiamma, il desiderio ardente di qualcosa d’importante e finalmente, in qualche modo, sono all’epilogo: è giunto il momento di seguire il cuore! Però, mi affliggono le parole del mio migliore amico: “…Ma non lassù!”.
Decido per la dieta e perdo i primi chili, per rimettermi in forma mi alleno tutti i giorni sulle rocce di Valscodella, palestra storica dell’alpinismo roveretano. Mi capita spesso che le braccia non reggano il mio peso e cerco nuovi stimoli, nuovi impulsi per ritornare al tempo in cui tutto il mio corpo era proteso verso l’alto e non era necessaria la forza muscolare per superare uno strapiombo. Ritorno ai primi passi, quando tiravo sulle dita come un forsennato. Ricordo come fosse oggi le parole del grande Marino Stenico: “Hai una forza notevole che però non va sprecata inutilmente, ma rilasciata al momento opportuno”.
Con tono seccato e deciso: “Se non tiro sulle braccia non salgo!?”.
In risposta, Marino mise le mani sulla roccia, alzò prima un piede e poi l’altro e superò il passaggio con una facilità disarmante. “Ma… non è possibile!”, bisbigliai con la voce incrinata dall’emozione. Nel frattempo lui mi disse: “Devi cercare l’essenza e diventare parte integrante della roccia, devi allenare il corpo a seguire la testa e la testa a seguire il cuore, per farla breve devi imparare ad accarezzare la materia grigia”.
Ogni fine settimana trascorro le mie giornate in parete e il mio cuore e tutto me stesso ricominciano ad ardere di passione per le grandi scalate; sento nuovamente il bisogno di esprimere la mia fantasia, del contatto con la roccia, del vento sul viso, del profumo della vegetazione e della vista degli uccelli che volano alti nel cielo. Il cielo dei miei migliori anni, il cielo perduto del mio arrivo in vetta dopo una grande avventura, sta tornando a farmi compagnia. Il tutto mi consola e allevia la tristezza e, soprattutto, tiene lontani dalla mia mente i ricordi più tristi, quelli duri a morire che mi torturano continuamente, specie quando la mia mente non è impegnata in qualcos’altro. A poco a poco, mi sembra di star meglio, di acquisire forza e sicurezza, ma soprattutto scioltezza. Sto arrampicando per non morire dentro, per sentirmi meno solo, pensando che la morte non è la fine di tutto e da qualche parte, credo molto vicino, Serenella mi sta guidando con il suo amore. Ho attraversato le stagioni del dolore, ma anche quelle dell’amore, non ho paura di morire, ma non posso nemmeno rischiare perché c’è la mia bambina e lei ha solo me. Ho imparato a pensare che c’è un disegno che lega noi al nostro destino ed è per me ora più facile capire i segni che passano nella mia vita. Nel ritrovare il mio vecchio modo di scalare, comincio a capire che senza chiedere nulla, la passione per l’arrampicata mi sta di nuovo regalando molto di ciò di cui ho bisogno: energia vitale e una certa prestanza psicofisica. Posso affermare che sono debitore verso il grande alpinismo di buona parte di ciò che ho appreso nella mia esistenza, compresa la forza e la caparbia perseveranza di restare accanto a mia moglie gravemente ammalata.
Nonostante ciò, la paura di affrontare la grande gialla muraglia del Salto delle Streghe soffoca il mio ritrovato ardore: aprire una via su una parete famosa oltre che per la sua verticalità anche per la scarsa qualità della roccia, rappresenta il massimo per un alpinista di grande esperienza come me, ma in parete non conta soltanto l’esperienza. Così passa l’inverno e, a primavera inoltrata, decido di provarci.
Le vie di Stenghel sul Salto delle Streghe. La via Serenella è la seconda da destra
“…Ma non lassù!”. Le parole di Mariano mi ritornano alla mente mentre attacco la fessura iniziale che mi porterà proprio “lassù”, dove il mio compagno di corda sperava non mettessi le mani. Il tratto è difficile, un po’ friabile e butta in fuori, tuttavia riesco a raggiungere e superare il primo marcato strapiombo. Sopra le difficoltà non diminuiscono. Con me questa volta c’è Luca Campagna, un giovane e fortissimo alpinista al quale cerco di trasmettere la mia passione per quella lingua di terra sovrastata da maestose sculture di roccia non per schiacciarla, ma per proteggerla; inoltre l’immensa voglia di ritornare al grande alpinismo con l’apertura di una via nuova su una fascia rocciosa all’apparenza impossibile. La via porterà il nome di Serenella. Al primo tentativo raggiungiamo la prima cengia e guardando in alto, non fatichiamo a renderci conto di ciò che ci avrebbe aspettato se avessimo insistito.
Dopo alcune settimane si aggiunge a noi Mariano. E’ il 12 settembre 1992. Alzo gli occhi sulla parete sovrastante, che strapiomba incessantemente, da sembrare impraticabile. E si sa, che più la parete butta in fuori e più occorre vincere la gravità, più si va oltre la verticale e più le difficoltà salgono e richiedono tante energie sia per scalare che per proteggersi. Sto valutando il da farsi e mi viene spontaneo pensare se per dare una svolta alla vita debba per forza affrontare e superare così grandi avversità. Mi rispondo che l’ardire è dei grandi!
Ma l’esperienza umana e di fede degli ultimi anni mi hanno insegnato che non di solo sesto grado deve vivere l’uomo, tantomeno di passioni per le forti emozioni, ma di amore gratuito per se stessi e per gli altri, naturalmente non perdendo di vista Dio! E allora mi rendo conto che forse sto facendo un’idiozia, ma d’istinto, penso anche che se il mio cuore mi ha portato quassù credo debba esserci un perché, quindi torno a concentrarmi.
Su un’esile cornice, inaspettatamente sento mancarmi sotto i piedi: un grande blocco precipita nel vuoto sfiorando i miei compagni per poi sbattere e rompersi in tanti pezzi sulle rocce sottostanti.
Per un miracolo, per una forza misteriosa rimango appeso sulle dita della mano e con uno sforzo bestiale riesco a guadagnare altri appoggi per le punta delle scarpette, mentre il cuore si ferma per poi ripartire a mille per la paura di cadere. Una forte emozione s’impadronisce di me e ad un tratto ogni cosa si fa chiara: sono consapevole di essere in mezzo a una grande avventura che voglio vivere con il vantaggio della forza morale, della tenacia, del coraggio e soprattutto di una superiore capacità di sopportare la sofferenza. In passato ho rischiato la vita, per me audacia e temerarietà significavano anche questo rischio, ma ora ho imparato il valore della mia esistenza soprattutto per chi mi ama e per chi mi aspetta. Non mi sento sconfitto davanti a una rinuncia anzi, anche se dovessi ritirarmi, mi sentirei lo stesso vincitore poiché sono riuscito a ritornare su questa grande incredibile parete.
Per ritrovare energia e vigore, mi rivolgo ai miei compagni: “Siate sicuri che noi vinceremo, con la nostra capacità di sopportare la fatica, lentamente conquisteremo la vetta, esulteremo e non solo per noi stessi”.
Non avendo risposta, rifletto che ci vuole però anche il sostegno di una mano dall’alto e il mio pensiero corre alla piccola statua della Madonna che Mariano ha nello zaino per ricordare Serenella. Ora sto lottando per proteggermi, ma ciò comporta tanta fatica, devo individuare al più presto un buchetto, una fessura per un chiodo così essenziale per riposare e per continuare. Non mi sono mai trovato a dover tanto lottare per alzarmi soltanto di qualche metro e, in molte occasioni, ho dovuto avventurarmi sul passaggio con il chiodo tra i denti. Penso: “È pur vero che per quanto si vada lontano, per quanto si salga, si comincia sempre con un piccolo passo”.
Con il martello penzolante sull’imbrago, cercando ripetutamente gli appigli che scarseggiano, individuo un buchetto sotto un filo d’erba e mi ostino a metterci un chiodo che però, dopo i primi colpi, salta nel vuoto. Il morale cala così come le stesse forze. Mi scappano delle imprecazioni. Sto sudando per la fatica, e per la paura di cadere. Il sole mi batte in testa, l’adrenalina nelle vene. I miei compagni mi incoraggiano. Il mio sguardo è attratto da un piccolo ma solido appiglio che allungandomi riesco ad afferrare. Con una larga spaccata di gambe cambio la vincolante posizione del mio corpo, sentendomi finalmente sicuro su tutti due i piedi. La nuova condizione mi permette di riposare, di rilassare la muscolatura e muovermi con le mani senza grossi problemi. In alto scorgo un altro piccolo buco nel quale provo ad infilare un chiodo che a fatica entra, s’infila nella roccia fino all’anello. Soddisfatto, mi ci appendo per riposare.
Quello che sto vivendo quassù, il mio macchinare, meditare, fantasticare, le mie impressioni, i miei sogni mi stanno portando ben oltre la cima. Certe cose non si dimenticano. Rifletto che, nonostante il Salto delle Streghe sia una parete tra le più temute, è pur sempre una grande roccia che racchiude un ritaglio importante della vita: tanti brandelli della mia esistenza, le mie emozioni e le mie sensazioni, sentimenti che rimarranno in me per sempre. Per questo mi piace l’alpinismo. Guardo in basso e faccio cenno a tutti di essere su un buon chiodo. Poi la vista si allarga fin sulla riva opposta e sulla cerchia di montagne che lo circondano. Il panorama è da togliere il fiato: la vista spazia realmente su un paesaggio straordinariamente bello per poi ritornare sotto, sui surfisti che giocano, con le loro vele sul lago dondolando felicemente traghettati dal vento e portati dalle onde, il tutto come in una sequenza armonica; ognuno di loro si specchia nell’acqua creando un gioco d’immagini.
Non ipotizzo dolore nella loro vita, forse nemmeno una preoccupazione o dei dispiaceri nei loro cuori. Mentre io, oltre trecento metri sopra le loro teste, sono consapevole di aver dimenticato per alcuni anni l’aspetto della felicità! Mi cullo in questo pensiero e concludo che la vita è stata dura con me. Mi concentro e riprendo a scalare. Finalmente apriamo la via Serenella. Il mio sogno era di ritornare a scalare, la mia ambizione era di ricordare mia moglie con una grande via.
Con queste due immagini finali, che voglio condividere in particolare con i miei straordinari compagni di corda e, che toccano il mio cuore, scopro che una delle più grandi e difficili scogliere del lago di Garda è stata totalmente violata. Forse c’era un’altra soluzione!
Ora dovranno imbragare tutte le pareti con dei paesini sottostanti: ad esempio la Rupe del Castello di Arco, ecc.
Di certo il debito pubblico lieviterà e non di poco. Ai posteri l’ardua sentenza…
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grande Giuliano. Bello ed emozionante.