Questo saggio è il sesto capitolo del documento, ugualmente creato dagli stessi autori, Economia montana e politiche territoriali di sviluppo alpino, scaricabile per intero qui.
Il turismo alpino
di Diego Cason e Annibale Salsa
Per i motivi descritti sopra, l’utilizzo prevalente dei territori in alta quota è turistico, inteso non solo come presenza di servizi di vitto e alloggio per gli ospiti ma anche di infrastrutture di accesso veloce e comodo per la pratica dell’alpinismo e dell’escursionismo estivo, dello sci e delle altre attività invernali. Il turismo però, crescendo, distrugge i suoi fondamenti costitutivi.
Esso è percepito, grazie alla mobilità automobilistica individuale, come una manifestazione di libertà irrinunciabile. Se il paradigma rimane questo, tutto il territorio alpino è destinato a diventare una merce da vendere al maggior numero di clienti possibile.
“Pur essendo certo che il turismo ha contribuito notevolmente al miglioramento del tenore di vita della gente di montagna, è altrettanto evidente che spesso all’aumento dei villeggianti non ha fatto riscontro né la stabilizzazione demografica né la riduzione degli squilibri esistenti tra alcune zone di montagna svantaggiate e la pianura (28)”.
Nel 2022 In Italia sono arrivati 118 milioni di turisti che hanno trascorso 412 milioni di giornate negli esercizi ricettivi della penisola. In media due arrivi e sette presenze per abitante. Nel 1991 ci furono 2,3 milioni di arrivi in più dei residenti, nel 2002 gli arrivi erano già diventati 22 milioni e nel 2022 ci sono stati 59,5 milioni di arrivi in più rispetto ai residenti. Le presenze turistiche che misurano i pernottamenti furono 260 milioni nel 91 e sono state 412 milioni nel 2022. Dal 1991 gli arrivi per abitante sono raddoppiati e le presenze sono cambiate da 4,6 a 7 per abitante.
Naturalmente questi indici che misurano la pressione turistica, ovvero il numero di ospiti e di pernottamenti che gravano su ogni residente, non sono omogeneamente distribuiti sul territorio ma si concentrano soprattutto nelle stazioni turistiche estive ed invernali più rilevanti.
Ad eccezione del turismo d’affari e a quello che si rivolge alle città d’arte, i flussi turistici sono variabili nel corso dell’anno e si concentrano nei mesi di luglio-agosto e tra la fine di dicembre e la metà di gennaio. Per effetto di questa diseguale distribuzione dei flussi nel corso dell’anno, la pressione turistica in estate e in inverno, nelle località più frequentate, è molto elevata.
La differenza è già ben visibile valutando gli arrivi e le presenze turistiche per residente nelle province alpine. Ad esempio, gli arrivi e le presenze per residente in provincia di Verbania sono 6 e 20, a Sondrio sono 6 e 23, a Bolzano sono 15 e 64, a Trento sono 8 e 33, a Belluno sono 5 e 17.
Solo per dare un esempio di quale possa diventare la pressione turistica in una località alpina, a Corvara gli arrivi per abitante sono 145, a Courmayeur sono 160, a Cortina d’Ampezzo sono 174, a Livigno sono 50.
L’analisi quantitativa dei flussi turistici ci pone di fronte a un problema ineludibile. Le tre province dotate di autonomia speciale, che assegna loro poteri legislativi e amministrativi e, quindi, competenze e risorse incomparabili con quelle delle province montane a statuto ordinario, accolgono il 43% degli arrivi e il 49% delle presenze turistiche di tutto l’arco alpino. Questa non è una situazione che possa essere definita equa e normale.
Gran parte del territorio alpino è governato da regioni in cui la maggioranza degli elettori abitano in città o in pianura. Le istituzioni regionali non sono in grado di governare in modo adeguato i territori montani dove gli elettori sono sempre una minoranza inferiore al 5% del totale. Questo differenziale enorme, dal punto di vista delle possibilità amministrative su misura delle realtà territoriali alpine, produce i suoi effetti anche in ambito turistico.
La concorrenza (sleale) che i territori dotati di autonomia fanno a quelli che ne sono sprovvisti ne riduce le possibilità di sviluppo, ne limita le capacità operative per offrire un turismo sostenibile e di qualità elevata (29).
L’analisi del sistema turistico alpino è assai meno agevole poiché non vi sono a disposizione tutti i dati comunali che ci permetterebbero di valutarne gli effetti sulle comunità che vivono alle quote più elevate. Il fenomeno però è stato largamente valutato e analizzato e possiamo riassumerne l’evoluzione confrontando le informazioni relative alle province completamente montane rispetto al resto dei territori delle regioni alpine.
A fronte di una riduzione della popolazione residente alle quote più elevate, vi è una rilevante crescita degli arrivi e delle presenze turistiche a cui vanno sommati i flussi escursionistici in netta crescita anche se non sono verificati statisticamente.
In Italia l’incremento degli arrivi e delle presenze nell’ultimo ventennio è stato del 45%, e nelle sei province interamente montane è stato del 79%. Le presenze turistiche sono cresciute del 18% a livello nazionale e del 32% nelle sei province interamente alpine.
Nel caso delle presenze abbiamo una crescita anche nelle province parzialmente alpine o non alpine, determinata dal successo del turismo balneare Friulano e Veneto, nelle città d’arte (Venezia e Verona in primis) e dei laghi di Garda, di Como e Maggiore. Nelle diciotto province alpine da noi analizzate dal 2001 gli arrivi sono cresciuti del 93% e le presenze del 46%, quindi con un indice di crescita superiore a quello nazionale. Nel grafico seguente riportiamo gli incrementi percentuali degli arrivi delle presenze nelle province montane analizzate.
La variazione degli arrivi è sempre superiore a quella delle presenze e, ad eccezione delle presenze di Belluno, in tutte le altre province alpine i flussi turistici sono cresciuti in modo molto rilevante.
Il numero di alberghi, dal 2001 al 2022, in Italia è diminuito del 3,9%, nel territorio delle sei province interamente montane gli alberghi sono diminuiti del 12,7% e nelle diciotto province alpine analizzate sono diminuiti del 9,2%. I letti alberghieri nazionali sono cresciuti del 18%, nelle sei province interamente montane la crescita è stata dello 0,5%, mentre nelle diciotto province alpine analizzate sono cresciuti del 10%. La riduzione del numero di alberghi non è un evento negativo poiché corrisponde a una razionalizzazione e a un miglioramento qualitativo di queste strutture ricettive.
Se gli alberghi subiscono una riduzione è perché spariscono soprattutto alberghi con una o due stelle, non più in grado di offrire al cliente un’accoglienza adeguata. Non così accade per i letti, ciò significa che gli alberghi assumono in media dimensioni più grandi e quindi possono gestire meglio i loro costi fissi e ottenere ricavi adeguati a garantire un costante miglioramento della struttura ricettiva.
Sono invece molto cresciuti gli esercizi extra alberghieri (di cui non abbiamo fatto il calcolo per comune perché i dati sono sempre poco affidabili), le seconde case turistiche, le multiproprietà. Per avere un’idea si consideri che gli esercizi extralberghieri in Italia sono oggi 192.219 con 2.958.246 letti ed erano 94.860 con 2.133.049 letti.
Dal 2001 c’è stata una crescita del 103% degli esercizi e del 39% dei letti extra alberghieri. Si tratta degli esercizi e letti ufficiali (campeggi e villaggi turistici, alloggi gestiti in forma imprenditoriale, agriturismi, ostelli per la gioventù, case per ferie, rifugi di montagna, altri esercizi ricettivi, bed and breakfast) e, quindi, non sono considerate le camere e gli appartamenti concessi in locazione senza essere registrati.
Da questi sono escluse anche le seconde case per vacanza. In tutti i tipi di esercizi non alberghieri vi è una diffusa evasione nella dichiarazione dei dati degli arrivi e della permanenza degli ospiti.
Per dare ai lettori il modo di valutare l’evoluzione del settore dell’ospitalità extra alberghiera e riferendoci al 2019, che è l’ultimo anno pre-covid, dal 2001 al 2019, gli alberghi sono diminuiti del 2,1% e i letti alberghieri sono cresciuti del 19,5%. I campeggi sono cresciuti del 10% e il numero di letti sono rimasti stabili. Gli alloggi in affitto sono cresciuti del 44% e i loro letti del 65%.
Gli alloggi agrituristici disciplinati dal 1996 sono cresciuti del 160% e i letti offerti del 211%. Gli altri esercizi sono cresciuti nel 95% e i letti offerti del 37%. I bed and breakfast disciplinati dal 2002 sono cresciuti di 7,3 volte e i letti offerti di 9 volte!
L’unica provincia alpina che registri con regolarità l’evoluzione delle seconde case turistiche è la provincia di Trento, che ci informa che sono 44.951 e offrono 199.712 letti; dal 2000 hanno avuto un tasso di crescita del 5,9% delle abitazioni e del 5,4% dei letti dichiarati.
Nella provincia di Trento i letti offerti dalle seconde case sono il 43% del totale dei letti presenti in tutti gli esercizi extralberghieri! Escludendo la provincia di Bolzano, questo dato, che vale per Trento, può essere esteso a tutte le altre province alpine.
Accanto a questi fenomeni in rapidissimo incremento sono cresciute le rendite turistiche, che hanno trovato un fattore espansivo nella prenotazione diretta attraverso i social media, di cui sono esempi booking.com, airbnb.it, trivago.it e molti altri. Unico aspetto positivo in questa evoluzione è l’incremento della permanenza media (presenze / arrivi) degli ospiti dopo anni che questa segnava una costante riduzione. Questo aspetto positivo è maggiormente visibile nelle province interamente alpine, in particolare a Trento, a Bolzano e a Belluno, ma è anche un dato generale poiché la permanenza media è sempre più elevata negli esercizi posti a quote più elevate.
I flussi turistici non sono più l’esito della libera scelta delle persone, ma sono fortemente influenzati dal marketing che induce la nascita di nuovi bisogni turistici. Il mercato turistico è eterodiretto dagli interessi dei gestori degli esercizi e dei vettori, infatti la maggior parte dei flussi si concentra e cresce (sia nel tempo che nello spazio) in particolari periodi e luoghi ove si manifesta un “over tourism” insopportabile.
I dati statistici mostrano come questo fenomeno caratterizzi alcune stazioni alpine nello stesso modo e con gli stessi effetti che produce a Venezia e in altre città d’arte. In questi luoghi è in atto una gentrificazione devastante, determinata dal valore crescente degli immobili, che svuota le comunità locali, ne annichilisce le culture secolari e ne ostacola gli interessi.
Accanto a questo fenomeno emerge un altro rischio per la stabilità delle comunità e dei territori alpini. Esso consiste nella diffusione continua di nuovi tipi di merci legate ad attività “innovative” che trasformano i territori obliqui alpini in luoghi di divertimento ostentato, spacciandoli per nuove pratiche sportive.
Dal 1985 non si va più in montagna per camminare, arrampicare o per godere di ciò che la natura alpina mette gratuitamente a disposizione dei suoi ospiti (31).
Ora anche sulle Alpi, come nelle località balneari, il turista e l’escursionista esigono sempre nuove offerte, indotte da un mercato turistico bulimico e distruttivo: il deltaplano, il parapendio, le tute alari, il downhill, le mountain bike, il canyoning, il fun bob, le fat bike, il free ride ovvero lo sci fuori pista, le ciaspolade, i parchi avventura, il rafting, il kayak, l’hydrospeed, si sono sommati allo sci (alpino, da fondo e alpinistico), alle arrampicate su ghiaccio e alla frequentazione delle vie ferrate. Tutto all’insegna del no-limits, che in montagna è un mantra pericoloso, dimostrato dell’incremento costante e costoso degli interventi del soccorso alpino, perché la maggior parte di questi “supereroi” spesso non hanno l’allenamento fisico e mentale necessari per affrontare attività che ne esigono molto.
Il risultato è stato che, se nel 2001, con l’organico di 7.025 persone, il CNSAS fece 4.342 interventi impegnando 19.019 soccorritori, nel 2021, con un organico di 7.054 persone, sono stati eseguiti 10.730 interventi impegnando 46.098 soccorritori. La costante e martellante proposta della montagna “mozzafiato”, dell’esperienza “sublime”, del paesaggio “pittoresco” e “indimenticabile” ha trasformato i monti in un circo o un parco di divertimenti.
Molti frequentatori sono inconsapevoli dei rischi che corrono e ai quali espongono i soccorritori, totalmente indifferenti ai danni che provocano con la loro invadente smania di protagonismo. Il danno più devastante è la corruzione disgregatrice delle culture locali, la diffusione di modelli di relazione con le persone e l’ambiente fondati su logiche meramente mercantili e servili. La monocultura economica, fondata sul turismo, provoca una irreversibile frattura tra i residenti e le competenze necessarie per la gestione intelligente ed evolutiva del territorio montano.
Così le comunità ricorrono all’invasività della tecnica che interviene per rendere ogni luogo artificialmente sicuro. Si espandono e raddrizzano strade, si perforano i monti, li si avvolgono di reti e barriere contro slavine e frane, si intubano e cementificano torrenti e rii, si segnala ogni percorso anche laddove solo un cieco non ne vede il logico dipanarsi, si portano in quota con veicoli, impianti a fune ed elicotteri persone che dovrebbero avvicinarsi gradualmente ai monti o, ancor meglio, starne lontani.
Dopo la crisi del modello ottocentesco dell’economia alpina l’affermarsi dei flussi turistici è stata una benedizione per molti territori alpini, permettendo loro uno sviluppo altrimenti impossibile. Non si tratta di demonizzare un fenomeno di costume che favorisce l’incontro tra comunità e determina un indubbio vantaggio reciproco.
Ma è necessario equilibrio e senso della misura. In determinati ambiti i flussi vanno ridotti e la mobilità automobilistica individuale eliminata, in altri è possibile pensare a un’ospitalità diffusa meno invadente, più attenta ai valori delle culture locali, alla qualità dei luoghi visitati e meno vorace di servizi e di merci.
Ciò che va contrastato invece è la tendenza a vedere nella crescita dei flussi un automatico vantaggio, sia per i visitatori sia per i residenti che li ospitano, perché questo paradigma è completamente falso. Esso produce danni materiali irreversibili ai territori montani, crea ambienti poco accoglienti, orienta l’azione degli operatori turistici al mero guadagno immediato, rende gli ospiti incapaci di costruire relazioni significative e soddisfacenti con le persone nei luoghi che visitano.
Note
(28) Tiziano Tempesta, Mara Thiene, Turismo e sviluppo sostenibile nella montagna alpina, in https://www.rivistadistoriadelleducazione.it, p.445.
(29) L’incidenza della spesa primaria al netto delle partite finanziarie nel settore turismo sul totale della spesa di tutti i settori nel 2020 è stata dell’1,1% in Valle d’Aosta, dell’1,2% nella provincia di Trento e di Bolzano. In tutte le altre regioni italiane non ha superato lo 0,6%. La questione più rilevante però e che nelle province autonome chi decide quanto e come spendere, sono le comunità locali, in tutte le altre regioni la spesa è prevalentemente delle amministrazioni centrali dello Stato, mentre le amministrazioni regionali dispongono al massimo del 20% della spesa totale.
(30) Cipra, Commissione internazionale per la protezione delleAlpi, Primo, secondo e terzo rapporto sullo stato delle Alpi, Centro di documentazione alpina, Torino 1998, 2001, 2007; anche disponibili le relazioni annuali della Cipra dal 1999 al 2022. In https://www.cipra.org/it/cipra/internazionale/pubblicazioni/relazione-annuale
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Ratman, se non hai fatto caso a culture locali è perché non sono di tuo interesse e quel che cerchi è omologato. E’ stato pubblicato un interessante articolo proprio sul fenomeno di standardizzazione dei borghi, che perdono la loro identità acquisendo caratteristiche standard.
Per sapere qualcosa di un luogo, basta andare al mercato, sedersi in piazza a bere un caffè, fermarsi a parlare con un vecchietto, un rifugista, il proprietario di una bottega o di un alimentari.
Marco, un trasporto pubblico efficiente e capillare non c’è neppure in Lombardia…e non menzioniamo la sanità anche nelle grandi città!
I giovani sono scappati quanto tempo fa? Ti ricordo che interi paesi si svuotano da sempre, pilotati dall’alto con rivoluzioni, guerre civili, carestie, epidemie. Non è un fenomeno moderno, ma molto antico.
Ribadisco che non c’è bisogno di chissà che per vivere e se si vuole ci si sposta anche se i mezzi non sono granché. Il problema è che siamo disposti ad andare lontanissimo per farci schiavi del lavoro e meno propensi a vivere il quartiere che abitiamo. Pensiamo di “dover” scegliere la scuola elementare migliore per nostro figlio e gli facciamo fare un’ora di macchina con il tablet in mano – che neanche saprebbe riconoscere il percorso, talmente è concentrato sul display; passiamo ore sui mezzi pubblici per raggiungere un posto di lavoro che neanche amiamo, sottraendo tempo a noi stessi e a chi circonda; andiamo in ferie tutti a ferragosto invadendo piccoli paesi ormai ridotti a cartoline – e ci lamentiamo pure della folla, delle code e del traffico.
Vorrei ci fermassimo tutti a pensare, quando ci troviamo a camminare in una via affollata di un paesino, mi piacerebbe pensassimo a chi ha scelto di viverci, a chi vorrebbe godersi il silenzio o passeggiare senza essere assediato dai turisti.
Ho vissuto per cinque anni in centro a Zafferana Etnea e ti assicuro che d’estate è stato difficile, quando i locali chiudevano alle 2, o si formava un capannello sotto casa a schiamazzare e alle 6 mi suonava la sveglia per salire in montagna, oppure quando giravo per mezz’ora per un parcheggio, o ancora quando vedevo i cestini straripanti e i marciapiedi lordati da gelati sciolti. Mi è sempre sembrato terribile il volere portare le modalità cittadine ovunque ci si trovi.
Oltre ad alcune osservazioni condivisibili, gli autori scadono nella solita generalizzazione ponendo sullo stesso piano attività estremamente diverse, sia dal punto di vista della effettiva quantità dei praticanti, sia da quello dell’impatto sull’ambiente (per alcune delle quali siamo prossimi allo zero). E oltretutto ci si lamenta della monocultura dello sci, ma si mettono i ciaspolatori tra quelli che rompono i maroni? E ancora “mercato distruttivo”? Dopo che lo sci alpino ha veramente modificato radicalmente e strutturalmente metà delle Alpi, si sostiene che le tute alari sono un problema? RIDICOLI.
“il deltaplano, il parapendio, le tute alari, il downhill, le mountain bike, il canyoning, il fun bob, le fat bike, il free ride ovvero lo sci fuori pista, le ciaspolade, i parchi avventura, il rafting, il kayak, l’hydrospeed (…) Tutto all’insegna del no-limits, che in montagna è un mantra pericoloso, dimostrato dell’incremento costante e costoso degli interventi del soccorso alpino”
Credo inoltre che tutte quelle elencate, se sommate, rappresentino una frazione dei praticanti dello sci alpino sulle Alpi.
Quanto all’ultima osservazione, questi sono i dati del CNSAS del 2022:
escursionismo 5883 individui soccorsi, mountain bike 915, sci in pista e nordico 787, alpinismo 545, funghi 424, ferrate 222, falesia 168, sci alpinismo 147, attività venatorie 110, speleo 30, canyoning 29, cascate ghiaccio 16.
Come si legge, i soccorsi riguardano quasi sempre le cosiddette attività “primarie” (secondo gli autori), cioè quelle che si praticavano in esclusiva fino al 1985.
Si tratta di capire cosa si intende per cultura locale. Eisitono tribù celtiche i cui segreti riti druidici subiscono interferenze turistiche? Oppure si parla del faatidio della madamina per l”invasione remunerativa ma un poco caciarona dei turist?
Esistono ancora culture locali che vadano oltre alla sagra della castagna?
Ma nei piccoli paesi, soprattutto di montagna, i giovani sono già scappati. A chi rimane, ed è in età, la farmacia serve eccome. Come un trasporto pubblico efficiente e capillare come i postali gialli in Svizzera…
Marco, farmacia e poste non sono luoghi che si frequentano nel quotidiano e si può fare qualche chilometro per raggiungerle, visto che i giovani (per i quali normalmente si decide di spostarsi nei centri urbani) ne fanno svariati per andare per locali e in discoteca.
Le scuole: abbiamo lasciato che chiudessero quelle piccole nelle frazioni senza batter ciglio – così come gli ambulatori e i punti nascita – e magari ora sarebbe il caso di ripristinarle, proprio come le decine di scuole parentali che sono sorte negli ultimi anni, un po’ diverse dai dettami e protocolli del governo, così da dar vita a un’umanità più umana.
Mi sa che tutto il modello è da ribaltare.
Grazia – Farmacia, poste, trasporti pubblici, asili e scuole: questi sono i servizi che intendo, non l’ipermercato.
Ecco, quello che ho detto: le aree colonizzate da stranieri, qualcuno gliele avrà pur vendute, on è che se le sono rubate!
Se una zona è soggetta a frane o slavine, ovvio che non andrebbe costruito nulla, ma non credo che sia valido per i posti già esistenti. Ci sono paesi di montagna pluricentenari dove le slavine d’inverno bloccano l’unica strada che li raggiunge. Che fare? Si aspetta il disgelo o si mettono i paravalanghe? Ovvio che se slavina in Val Venegia, lascio che sia, ma non tutti i posti in montagna sono così isolati…
Ho letto la nota 31 e tutto lo studio cui si riferisce; beh, sarò cretino, ma da nessuna parte ho letto quella conclusione (“dal 1985 non si va più in montagna…”.)
Anche perché è una ricerca fatta essenzialmente sui giovani in Lombardia quindi nel 1985 molti erano veramente giovanissimi (la ricerca è del 2011-2012)
Certo che, a guardar ‘sti numeri, mi si accappona la pelle: come si fa a sostenere che non ci sia un impatto antropico sulla montagna e/o che tale impatto sia sopportabile dalla montagna??? mah… povera montagna, mi sembra proprio l’assalto alla diligenza… ” prendiamo, prendiamo, come se non ci fosse un domani”. Speriamo che il tren si inverta e anche abbastanza presto.
# PIU’ MONTAGNA PER POCHI
…e poi questa storia dei servizi mancanti non può che farmi venire in mente l’infinità di bisogni indotti. Quel che manca, a mi0 parere, è la cultura e l’educazione che permettono di dare un valore a un determinato luogo. Il capitalismo spinge verso ideali e valori che sono molto lontani da una vita naturale vissuta in alta quota.
Caro Marco, se un’area è soggetta a frane, anche se non sono un ingegnere mi viene da dire che forse bisognerebbe smettere di edificare, non tentare di addomesticare in ogni modo l’ambiente che viviamo.
Sono tantissimi gli esempi di aree letteralmente colonizzate da stranieri che fanno alzare i prezzi degli immobili a scapito dei locali.
Vero Matteo però concedimi questo, almeno su Cortina. Chi vuole restare a Cortina, un posto non proprio facile da raggiungere se non hai un’auto, una cittadina che ormai da anni vive solo di e sul turismo, cara quanto Milano, se non hai una attività legata al turismo? Quello che comunque volevo dire è che si son venduti le stalle e le catapecchie, lì come in Valle d’Aosta a prezzi da Citylife a Milano. Poi, si lamentano dei forestieri e delle seconde case vuote…
Beh Marco hai ragione sui servizi, ma anche la possibilità di acquistare o affittare un’abitazione conta…
L’esempio di Cortina è chiaro: cerca l’andamento storico degli abitanti e paragonalo con il numero di case.
Ma, per conoscenza diretta, vale di sicuro anche per Champoluc, per fare un esempio.
Trovata la nota 31. Dice che è una indagine statistica del 2014. Ma sarebbe interessante capire quali erano le domande per arrivare a simili risultati e quale era il campione. Non troppo giovane, perché non potrebbero avere “ricordi” del 1985…
Ci sono cose interessanti, ma, secondo me, anche qualche “esagerazione”. Esempi. 1- “li si avvolgono di reti e barriere contro slavine e frane”. Bisognerebbe dunque lasciare che slavine e frane devastino territori, strade e centri abitati?
2- “determinata dal valore crescente degli immobili, che svuota le comunità locali”. Va bene, ma quegli immobili hanno dei proprietari, immagino delle comunità locali, che si trovano un appartamentino da rifare che valeva 100 e qualcuno che lo compra a 200. Le comunità locali si svuotano, ma è una mia idea, per mancanza di servizi, di lavoro, di collegamenti: inutile menarsela, magari i nostri nonni ci stavano “bene” (non ci giurerei) ma non puoi pretendere che un ragazzo debba fare magari decine di km per andare a scuola e poi rimanere in un posto dove l’alternativa è tra l’allevatore e il boscaiolo.
3- “dal 1985 non si va più in montagna…”. A parte che nota 31 manca, mi pare un’affermazione un po’ perentoria. Vedrò se riesco a trovare la nota e capirci un po’…
D’accordo con Placido, e aggiungerei anche un’altra nota.
Poiché
“Nelle diciotto province alpine da noi analizzate dal 2001 gli arrivi sono cresciuti del 93% e le presenze del 46%,”
ne deduco che è incrementato il turismo mordi-e-fuggi, cioè quello che in realtà depaupera più che arricchire le realtà locali.
Gente che dorme e spende altrove, che fa una veloce puntata (o è portato dai tour operator) in qualche posto, ingolfa le strade e inquina prendendo al massimo un panino e una birra.
Questo credo avvenga anche perché l’affermazione:
Gran parte del territorio alpino è governato da regioni in cui la maggioranza degli elettori abitano in città o in pianura. Le istituzioni regionali non sono in grado di governare in modo adeguato i territori montani dove gli elettori sono sempre una minoranza inferiore al 5% del totale.
non mi sembra corretta: le istituzioni regionali governano i territori montani nell’interesse de 95% degli elettori che non vivono in montagna.
I quali, peraltro, spesso e volentieri sono alquanto pronti a farsi turlupinare dal biblico piatto di lenticchie!
Placido, hai evidenziato quello che avrei evidenziato io, in un articolo comunque interamente di grande interesse.
Molto interessante e completo.
Sottolineo alcuni fatti, che molti commentatori spesso dimenticano:
E poi: