La redazione di GognaBlog è rimasta toccata dalle riflessioni di Giovanni Pizzorni sulla rischiosità del free solo abbinata alle proposte di spettacolo di un sodalizio come il CAI. Premesso che le nostre opinioni in proposito sono diverse (vedi https://gognablog.sherpa-gate.com/free-solo/), riteniamo comunque assolutamente necessario proporre all’attenzione dei nostri lettori le conclusioni di Pizzorni, perché ben meditate e scevre da troppo invadenti passionalità, quindi ben orientate nella ricerca delle nostre personali verità.
Il valore della vita
(Riflessioni sul rischio)
di Giovanni Pizzorni (istruttore nazionale CNSAS)
(pubblicato su Rivista della Sezione Ligure del CAI, n. 2 – 2019)
«… abbiamo due vite e la seconda inizia quando ti rendi conto che ne hai una sola... (Mário de Andrade)».
Sono stato a lungo dibattuto sull’eventualità di scrivere un articolo su di un argomento che sicuramente susciterà polemiche e di certo non porterà a una tesi finale condivisa. So per certo che si creeranno due schieramenti con visioni contrapposte e una fascia intermedia che andrà a coprire le mille sfaccettature che questo argomento comporta. Mi va bene così. Non voglio arrivare a una conclusione risolutiva ma bensì stimolare un minimo di riflessione che possa permettere a ciascuno di trarre le sue conclusioni.
Il mio stile nell’andare in montagna (alpinismo, speleologia e canyoning sono le attività che pratico) è sempre stato improntato al supremo rispetto di tutte le sue discipline e relative interpretazioni pratiche. L’alpinismo (d’ora in avanti lo userò come riferimento unico) è per me sinonimo di libertà. Con tutte le restrizioni del caso quando si va a ledere quella altrui. Altresì, ho compreso da tempo che alla parola alpinismo è strettamente connessa la parola rischio. Il rischio fa parte del gioco e ognuno è libero di farlo entrare nel proprio vissuto nella percentuale che ritiene più opportuna. Tutto questo vale per me a livello strettamente personale.
Per caso mi è capitato di vedere il trailer del film Free Solo con protagonista Alex Honnold. Breve sinossi per tutti coloro che non sono particolarmente interessati alla disciplina: il film racconta la salita in solitaria e senza utilizzo di attrezzature (imbragatura, corda, ecc.), della via Freerider al Capitan (Yosemite Valley, California). Detta via ha una altezza di 900 metri e difficoltà sino al 7c della scala francese (IX in scala UIAA) ed è stata realizzata in poco meno di 4 ore. Qualcuno l’ha già definita “la più grande impresa nell’arrampicata moderna”, in grado di alzare l’asticella delle difficoltà alpinistiche a un livello così alto da rimanere ‘imbattuta’ per molti anni. Dal punto di vista alpinistico sono d’accordo su tutto, Honnold è un atleta eccezionale con una testa fuori dal comune e ha compiuto un’impresa che resterà nella storia dell’alpinismo. Sono anche d’accordo, vedendola dalla parte di Honnold, sulla spettacolarizzazione dell’evento attraverso la realizzazione di un film. Se si vuole vivere di alpinismo, l’unica via percorribile è quella di fare ciò che nessuno ha mai fatto (vedi alpinismo himalayano invernale).
Con questa ultima considerazione, terminano le motivazioni che mi affascinano, gli aspetti che mi convincono e le ragioni che giustifico. E sia ben chiaro, non mi azzardo a chiedermi perché lo ha fatto né tantomeno a dare giudizi etici sull’impresa. Tutto rientra splendidamente nella visione libera e personale di alpinismo. A mio modesto parere sorge un problema quando una impresa del genere viene data in pasto alle masse e, ancor di più, quando a veicolare ed enfatizzare la divulgazione sono i siti internet, le riviste
specializzate del settore e, ahimè, un grande sodalizio di montagna al quale mi onoro di appartenere.
Nel momento in cui il Club Alpino Italiano decide di inserire un film come Free Solo all’interno del suo programma di manifestazioni, deve essere conscio che divulga un preciso modo di andare in montagna. La domanda da porsi è se detto modo sia in sintonia con le finalità e i principi che il sodalizio pone come base fondante del suo essere. Mi astengo da qualsiasi giudizio morale ma solleciterei una profonda riflessione.
Sino ad ora sono stato molto sobrio ed equilibrato nell’esporre le argomentazioni. Adesso termina il politicamente corretto e apro la diga.
Dopo 35 anni nel soccorso alpino, non mi sono ancora abituato agli incidenti né, tantomeno, alla morte. Ogni volta non riesco a fare a meno di domandarmi il perché sia avvenuta una cosa tanto brutta e, con stupore, constatare che alla base di tutto c’è la cosa che più amo: andare per monti.
Da tempo ho compreso che alla radice di ogni incidente c’è sempre un errore, anzi, una catena di errori. Il primo gradino della scala è il delirio di onnipotenza che porta alla presunzione del pensare che gli incidenti accadono agli altri. Se pensi di eliminare il rischio attraverso la pianificazione, la preparazione, la cura rigorosa dei dettagli, stai ingannando te stesso. Lo hai semplicemente ridotto. Questa è una cosa buona se sarai consapevole che il rischio correrà sempre al tuo fianco. Quando l’incidente avverrà, sarai pronto e non avrai nulla da recriminare. Sì, perché l’incidente avverrà, è una pura e semplice questione statistica. Più andrai in montagna e più aumenteranno le probabilità. Magari in tutta la tua carriera non sarai mai direttamente coinvolto, ma lo saranno i tuoi compagni o persone che incrocerai sulla tua strada.
In conclusione, assumendo come postulato che il rischio in montagna è un fattore ineluttabile, si può decidere (in maniera conscia o inconscia) di ignorarlo, ridurlo al minimo o cercarlo. In ultima analisi, mi sento di affermare che non esistono incidenti riconducibili alla fatalità. Anche quando prendi una pietra in testa, l’unica conclusione possibile è che eri nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Dopo lunga e attenta riflessione ho ricondotto anche la mia tragica esperienza a questa ineluttabile e fatalistica conclusione (Rivista della Sezione Ligure del CAI, numero 1 del 2016, pag. 4, Langtang, 25 aprile 2015).
A questo punto è doveroso ricollegarsi alla vicenda Honnold. Lo dico senza alcun timore, Honnold il rischio lo sta cercando. Ciò che più mi fa rabbrividire sono le sue dichiarazioni quando afferma di essere perfettamente conscio del fatto che nel momento in cui commetterà un errore morirà. Tutto ciò è per me incomprensibile, lo voglio andare in montagna per vivere la vita a piene mani!
I grandi uomini che hanno fatto la storia dell’alpinismo si possono dividere in due grandi categorie: quelli morti in montagna e quelli vivi. Gli uni non sono meno bravi degli altri e viceversa. Quello che li differenzia è il modo di condurre la loro esistenza. I primi hanno premuto il pedale dell’acceleratore sino alla fine, i secondi a certo momento della loro vita hanno sollevato il piede. Honnold, in questo momento, sta andando a tavoletta.
Conclusioni
In questo contesto, a mio modesto parere, il Club Alpino Italiano dovrebbe ricoprire un duplice ruolo. Nei confronti di attività come il “free solo”, essere spettatore attento, capace non di condannare ma di suscitare riflessioni e dibattiti. Evitare a tutti i costi il rischio, anche remoto, di essere veicolo di emulazione.
E per quanto riguarda gli incidenti in montagna, trovare la forza di analizzare gli errori commessi al fine di evitare che altri li possano commettere. Sono certo che tutti gli alpinisti (e anche le loro famiglie) che non sono più fra noi, sarebbero felici di aver contribuito, attraverso il loro sacrificio, a preservare vite. Anche se ciò comporterebbe una severa disamina degli errori commessi.
Questo passo epocale allontanerebbe il Club Alpino dal malinconico e infruttuoso culto dei morti per avvicinarlo alla positiva cultura della vita che dovrebbe contraddistinguerlo.
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Antonel, stasera devi aver bevuto di quello cattivo.
mi limito semplicemente a rilevare che il CAI,che in teoria sarebbe preposto alla cura e manutenzione dei propri sentieri e delle alte vie con segnavia CAI,non ha nè fondi nè personale per ripulire annualmente i sentieri così come non ha fondi e personale specializzato per controllare annualmente ad inizio stagione,le corde metalliche ed i ganci delle vie ferrate che spesso sono attrezzate su vie di roccia alpinistiche (vedi la Cassiopea).Figuriamoci che non sono finora riusciti neppure a ripulire completamente i sentieri “escursionistici” con difficoltà E dagli schianti provocati dell’uragano Vaia del novembre 2018. Quindi cosa pretendete che dica il CAI? Non sono più i tempi degli appassionati scopritori di vette (friulane e non ) che calavano dall’Austria o da altre nazioni europee per arrivare primi sulla vetta intonsa.Si moriva quella volta e si muore adesso.E’ sbagliato pubblicizzare una salita come quella del film Free Solo,magari senza considerare che qualcuno potrebbe volerla emulare.Non dimentichiamo che il film di Honnold è stato realizzato negli States con dispiego di mezzi,denaro e risorse tecniche di prim’ordine ed ha preso l’ Oscar per il miglior documentario: altro che le “avventurose” e spesso mortali salite degli esploratori di fine ‘800 ed inizi ‘900.Invece di tirare sul CAI,magari andiamo ad aiutarli a ripulire un pò di sentieri!
Stefano Rello ha fatto un’analisi impeccabile. Sono completamente d’accordo con quanto da lui affermato!
Penso che non sia giusto dire che l’alpinismo è libertà e rischio, ma che Honnold il rischio se lo cerca. Così come penso che non sia giusto dire che il film in questione è pura pornografia. Tutto questo puzza di Chiesa e di ipocrisia (detto con il massimo rispetto per l’una e per l’altra, che tanto contributo hanno dato al vivere civile).
Il free-solo non è pornografia per il semplice fatto che è l’arrampicata nella sua forma più pura e naturale. Così come la fanno anche i bambini, che corrono notevoli rischi nel tentativo di emulare i camosci e gli scoiattoli.
Per quanto mi riguarda, è molto più pornografica l’immagine di un arrampicatore sportivo appeso sotto un tetto con un dito, per fare un passo dove magari è già volato una trentina volte.
Inoltre, bisogna distinguere il rischio che si sceglie, dal rischio che si cerca.
Honnold non è certo andato sul Capitan durante un temporale… Il rischio che ha corso è elevatissimo in assoluto ma, paradossalmente, era il rischio “minimo” in relazione al tipo di impresa che voleva compiere.
I miei genitori (che pubblicamente ringrazio) quando parto per una delle mie micro-pseudo-imprese (avendo capito che quello è il mio modo di vivere) mi dicono una cosa soltanto: “stai attento”.
E Alex “no big deal” attento lo è stato: in un modo eccezionale, per un tempo eccezionale.
Il problema è che il valore di un’arrampicata “pura” come quella di Honnold la capiscono anche i non addetti ai lavori. E se dovesse andar male, l’analisi della catena di errori (alla quale applicarsi con zelo) neppure esisterebbe.
Infine, come giustamente è stato osservato, neppure si capisce per quale motivo il CAI dovrebbe parlare di certe imprese, e non di altre.
Quando l’alpinismo è nato, infatti, il rischio era della stessa specie di quello scelto da Honnold.
Mi viene in mente la celebre immagine di Mummery, ad esempio, con la camicia di seta e la corda di canapa intorno alla vita, che sale la sua fessura al Grepon (ovviamente senza neppure un rinvio). E se esistesse un drone in grado di viaggiare nel tempo, mi piacerebbe tanto vedere anche Victor Wolf von Glavell e Carl Gunther von Saar, che recuperano le rispettive compagne (Mary e Titty) al termine del vertiginoso traverso sul Campanile di Val Montanaia, durante la terza salita assoluta e prima femminile.
Cosa vogliamo leggere (o vedere) sulle riviste del CAI? le interviste ai campioncini delle gare di arrampicata, che ci spiegano quale dieta seguire?
A me pare che alpinismo classico e free-solo, fra le tante, abbiano una cosa in comune molto importante: e cioè che volare è fuori discussione.
Completamente d’accordo con Carlo Crovella.
Ognuno ha la propria vetta.
Si tratta di accettare questo fatto e, per quanto questo riguarda il CAI, fare passare questo semplice ma fondamentale concetto agli allievi dei corsi.
Ho visto solo il trailer perchè quella volta era con la roba che la rete passava in quel momento. Se non pensi a tutto quello che c’è dietro fa un certo effetto. Se invece ci pensi fa l’esatto contrario. Come si fa a non pensare? Quello che Alex Honnold ha fatto è l’ennesima dimostrazione che volere è potere. Il difficilissimo sta nell’individuare con estrema precisione il dove puoi. Altrimenti rimedi colossali figure di m . . . . o in alcuni casi muori. Queste cose qui sono proprio da Centro Alberghiero Italiano.
Forse solo perché i tempi cambiano e cambia il tipo di persona che si avvicina alla montagna, cambia il modo di approcciarsi e il senso della parola “prestazione” in un mondo che si fa sempre più social.
Forse solo per questo il CAI potrebbe (non necessariamente dovrebbe) rimodulare alcuni suoi schemi comunicativi e di sollecito alla responsabilizzazione, all riconsiderare gli elementi costitutivi del “limite”.
Io credo che la vita non abbia proprio nessun valore di per sé, ma solo il valore che noi le diamo.
Dio non esiste, la morte non è un passaggio; è la fine del gioco.
Ma demonizzare la morte è sbagliato quanto santificarla: porta a non vivere la propria vita se non in funzione della sua fine.
E oltretutto è stupido quanto cercare di esorcizzarla: prima o poi si muore tutti.
Honnold ha fatto qualcosa di grande nel segno della più perfetta continuità con il passato, senza inventare nulla ma portandolo oltre.
Preuss, l’Alpinista Ideale degli albori, ha fatto esattamente la stessa cosa agli inizi del secolo passato. E anche lui ci cavava soldi con le conferenze e un bel po’ di gente è morta sul Basso o sulla Piccola di Lavaredo per emularlo.
Non capisco proprio cosa c’entri il CAI e perché dovrebbe trattare Honnold in maniera differente da Preuss, Comici, Bonatti e tutti gli altri
Ai tempi in cui un bravissimo
arrampicatore, che ha commentato questo articolo, fece una difficile e famosa via di Finale in free solo, alcuni seguirono con emulazuoni ma certo su gradi ben piu’ bassi… erano tempi bellissimi….
io ero un ragazzino e vedere questo scalatore senza corda su una parete di cui avevo provato solo lo spigolo a sinistra ( di N gradi piu facile) mi lascio’ di sasso. Ma l’effetto emulazione in tema di free solo e’ molto ridotto… ho visto il film di Honnold, e’ molto bello, ha una sufficiente armonia tra americanata e film di contenuto, mi e’ piaciuto. Chi ha detto che non scala poi cosi bene, beh’ occhio…. uno che fa il 9a e il 7c slegato per 1000 metri….
La sua impresa e’ davvero un passo in avanti … che poi non crei spirito di emulazione beh speriamo, come lui direi ne arriveranno pochissimi se non nessuno.
ps
Non credo sia stato da meno Hauer sul Pesce. Ma personaggi diversi ed eco mediatica diversa….
…comunque penso che molti di noi, nel loro piccolo o nel loro grande, abbiano vissuto una qualche esperienza che li ha portati a pensare “Questa potrebbe essere l’ultima volta che bacio questa Terra”. Ma questo non fa di noi degli esseri migliori o peggiori, ma degli esseri viventi nel senso stretto del termine, ovvero che onorano la vita.
Se si guarda tutto il film e non il trailer si capisce bene che Honnold è un personaggio post-moderno. Non propone alcuna filosofia/ideologia di vita o dell’andar per monti. Presenta se stesso e quello che fa senza dare nessuna interpretazione o motivazione di ordine generale. È anche sincero nel mostrare alcuni aspetti sicuramente singolari della sua vita personale. Inoltre nel film non ci sono concessioni all’esibizione narcisistica di pettorali, glutei, pose ieratiche, fascette per i capelli o pantaloncini attillati o altri abbigliamenti alla moda come avvenne per alcuni personaggi del passato, ma solo qualche maglietta o felpa molto banale con il logo dello sponsor. Honnold è molto lontano dal porsi come un super-eroe, un figo o un guru ispiratore. Un ragazzo di oggi, un po’ strano, ma abbastanza “normale” che fa cose straordinarie con maniacalita’ ma apparentemente con non curanza. Nei video successivi che si trovano in rete, ha anche imparato a sorridere e a scherzare con una certa disinvoltura e la cosa lo ha reso anche più simpatico. Per quanto riguarda il rischio percepito, con la connessa botta di adrenalina e i positivi effetti che può produrre dopo, quando si torna vivi a casa, è innegabile che sia un elemento di fascino dell’alpinismo. Ovviamente il rischio percepito per Honnold e’ diverso da quello di un dilettante che arrampica slegato sul quarto, anche se gli errori possono produrre gli stessi effetti. Certamente il film non spingerà migliaia di aspiranti suicidi a buttarsi slegati su quelle difficoltà ma potrebbe indurre qualcuno ad alzare un po’ troppo il livello di rischio rispetto alla sua preparazione e qualche preoccupazione educativa, non censoria, non è proprio così peregrina per un’organizzazione come il CAI. Gli stessi sceneggiatori del film hanno introdotti vari avvertimenti in proposito.
il trailer del film Free Solo con protagonista Alex Honnold è eccellente e fantastico.
Finalmente un film estremamente interessante con un eccelso protagonista.
Una grandissima impresa nell’arrampicata moderna che non ha pochi eguali.
Un film che non è per tutti i palati fini. Honnold fa parte di una ristretta elite di puri alpinisti e non può essere compresa la sua filosofia di vita dai cosiddetti compagni di merende domenicali.
Neppure io ho visto il film Free Solo e non credo che lo vedrò. Ma non ho neppure visto Pulp Fiction fino in fondo perché mi sono addormentato alle prime scene. Questione di gusti.
Credo che Honnold sia un fenomeno e che rischi molto meno di certi caioti (non tutti, ovviamente) che la domenica si improvvisano alpinisti su facili pareti che ogni tanto incontro. Non dimentichiamo che in caso di caduta l’effetto meccanico del suolo sul corpo umano è indipendente dalle capacità tecniche e dal grado di ciò che si stava facendo.
Quindi penso: Honnold grande atleta e il Cai….fa quello che può.
Honnold mi è simpatico perché ha le orecchie a sventola, è timido e non arrampica neanche tanto bene; voglio dire che per quello che ne capisco ce ne sono tanti più bravi di lui: Manolo è il primo che mi viene in mente. Il suo film mi è piaciuto ma non mi sono immedesimato (e come facevo?). Credo che ormai sia a posto per tutta la vita e spero che abbia il buonsenso di godersi a lungo i soldi guadagnati, con la sua bella fidanzata o con tanto altre.
Povero Alex Honnold – scusatemi se intervengo di nuovo, ma non posso farne a meno.
Ha fatto qualcosa di straordinario, soprattutto, secondo me, ha acceso la fantasia di moltissimi arrampicatori, se non vuoi chiamarli alpinisti.
Lasciamo perdere il pubblico generico al quale di sicuro è rivolto il film, ma per noi che amiamo la montagna, la pratichiamo e pratichiamo l’arrampicata, non è fantastico, non è un sogno di quelli genuini, l’idea di poter andare su per una parete liberi e indipendenti, di scegliere a nostro piacere quando e dove andar su senza alcun vincolo?
Eddai, chi non ha sognato di alzarsi una mattina e andare via su quella parete, come un ragno?
Nel film c’è questo, soprattutto. Certo, c’è anche lo show business, il richiamo al pubblico generico, la cattiva interpretazione della montagna, e il tornaconto economico di Honnold e della troupe che lo ha filmato.
Basta ignorarli.
L’arrampicata che ci viene offerta non può che toccare le corde del sogno di chiunque arrampichi con amore, secondo me, liberi e soli a contatto con la roccia!
Ad Honnold va riconosciuto almeno questo, per favore.
Questo è link proposto nella premessa:
https://gognablog.sherpa-gate.com/free-solo/
Ho voluto leggerlo prima di questo articolo per avere una visione d’insieme più ampia.
Mi sento di condividere quasi tutti i pensieri che sono stati espressi, partendo dalla sfera emozionale espressa da Lorenzo, passando dalla cultura del super uomo ricordata da Carlo e dall’assenza del rischio che denota qualunque attività, anche la più “sicura”, come sottolineato da più voci.
Penso che esperienze così dense, che divengono spettacolo, si allontanano necessariamente dalla sfera intima che ci guida a percorrere un certo cammino.
Anche se si tratta di un’altra disciplina, mi va di raccontare che quando ho concluso la mia prima gara su lunga distanza, la Supermaratona dell’Etna che parte sul livello del mare arrivando a 3.000 m dopo 43 km di sviluppo, mi sono infastidita sapendo che un conoscente aveva prontamente messo la foto del mio arrivo su fb in tempo reale. Per elaborare quell’incredibile esperienza personale, cominciata 4 mesi prima con gli allenamenti, ho impiegato almeno una settimana e quando mi capita di pensarci, mi emoziono ancora.
Il solo fatto di decidere di guadagnare del denaro da un’attività così forte da tanti punti di vista, relega l’esperienza a una dimensione che non è più riconducibile alla sfera personale che ci spinge a cercare i nostri limiti e a scoprire le nostre capacità.
L’attività (che non mi sento in nessun modo di chiamare “impresa”) diventa puro spettacolo e quindi, a questo punto, trovo che non abbia forse senso che il CAI la promuova.
mi pare un articolo che non sta in pendi da qualunque parte lo si guardi…
a) dubito che il film di Honnold inviti all’emulazione. se uno lo fa non commette un errore è semplicemente un matto
b) l’autore, e mi stupisce che lo faccia da tecnico di soccorso, afferma che analizzando gli errori compiuti si eviterebbero altre morti. Mi pare una fesseria, poiché è noto che l’errore fa parte della vita, puoi analizzare tutto quello che vuoi, ma prima o dopo, bravo o meno che sia, lo farai. dalle mie parti si dice “l’ora del belinone viene per tutti” . lì, quindi, conta il fattore culo (ho fatto milioni di errori in montagna – nella vita – e ne ho subito le conseguenze, per fortuna sino ad oggi non irreversibili, conscio che potrebbe sempre arrivare quello buono)
c) non a caso molti grandi (berahult, Terray, loretan) sono morti su delle scemenze.
d) neanche io amo Honnold, rispetto quello che fa ma non lo apprezzo, e sono convinto che se continuerà su quella strada finita male, come i vari osman…, perché l’errore – se la posta è alta – costa caro anche lui (anche se non sempre, la solita variabile incognita).
alle riflessioni di MAnera (che saluto, ho condiviso con lui – ormai più di venti anni fa e con certo timore reverenziale – una salita e ancora più una discesa sotto l’acqua torrenziale al triangolo della Caprera durante il corso istruttori) aggiungo quella di Detassis, che ha sempre sostenuto che l’alpinista migliore è quello che torna a casa.
Non so se sia così, ognuno è ala fine libero di scegliersi il proprio percorso senza essere giudicato e senza che il cai debba fare da balia ad essere adulti e pensanti.
Sentite, io sono un signor nessuno, ben consapevole di stare qui a scrivere tra persone di grande esperienza alpinistica. Ma una domanda… Perché tutte le volte, a leggervi, sembrate monoliti di saggezza (e lo dico con stima e simpatia, badate bene!).
Ma una cazzata, una terribile cazzata, un errore grosso, l’avrete pur fatto anche voi. Di quelli che non si raccontano per non essere presi a piccozzate, per intenderci.
E parlo di cazziate fatte con coscienza e convinzione, di quelle che al ritorno (fortunoso) ci si siede e ci si dice: “mai più! Questa non la racconto…”
Non sono solitamente una persona che invidia il prossimo. Anzi, posso circoscrive con sicurezza l’unica ragione che mi rende invidioso. Sono invidioso di quelle persone che vivono la vita da Leoni.
Quelli autentici non quelli che “rischiano” per essere riconosciuti come tali.
Il Free solo è una delle massime espressioni di libertà alle quali soltanto una persona veramente “libera” può cimentarsi.
Ci siamo credo tutti in questo blog cimentati a dei Free Solo fino al massimo quarto grado.
Magari cercando di raggiungere la “vera” parete da scalare. Ebbene, stavamo rischiando la vita in quel frangente ma ci trovavamo talmente a nostro agio su quel terreno da essere esenti da timori… Eravamo “liberi” di goderci l’avvicinamento.
Detto questo, non credo che personaggi come Honnold istighino la gioventù all’emulazione nel mondo dell’Alpinismo.
Potrebbe forse succedere in altri sport. In alpinismo ci si scontra continuamente con i propri limiti come forse in nessun altro sport e si progredisce soltanto quando si è realmente pronti a farlo. L’aspetto fisico matura pari passo con quello psicologico/mentale.
Si rinforzano i muscoli … Si rinforza la mente.
Poi esistono i fuori classe che non hanno nulla a che vedere con la gente comune. Queste persone meritano di essere analizzate separandole dalla massa. Come si fa a fare un discorso sul pericolo paragonando un Auer ad uno che frequenta il CAI alla domenica? Non si può ed è inutile.
Parlando di Honnold… Il suo film non mi ha emozionato. È troppo robotico è calcolato. Ha poco dell’umano. Si è preparato per quasi due anni circondato dai migliori alpinisti Americani.
Il rischio era estremamente calcolato per avere il massimo ritorno dell’investimento. Mi sbaglierò ma non credo si cimenterà più in una impresa così pericolosa.
Auer d’altro canto lo trovo il massimo esponente della “libertà” di cui parlavo all’inizio. Il giorno prima dell’impresa sul Pesce, correggetemi se sbaglio, ha percorso in sicurezza con il fratello i punti chiave della via.
Il giorno dopo senza dirlo ad anima viva (a parte il fratello) si è cimentato nell’impossibile.
Ammiro Auer 1000 volte più di Hannold.
Condivido pienamente il commento di Ugo.È assurdo pensare che l’alpinismo si possa fare in assoluta sicurezza e la sicurezza non è certo raggiunta con manovre e materiali ma con una scrupolosa preparazione fisica e tecnica ed è solo questa che ci assicura quel ragionevole margine di sicurezza anche in free solo, dove, detto per inciso, chi è preparato e conscio di quello che fa rischia sicuramente meno rispetto a chi sale senza allenamento e preparazione adeguata completamente bardato di ogni ritrovato tecnico.
Detto questo concordo pienamente con Ugo con l’aspetto di eccessiva spettacolarizzazione, per me al limite della pornografia, di quel processo intimo e personale che porta un’alpinista a praticare del free solo e come Ugo, pur apprezzando il valore assoluto dell’impresa, non ho volutamente visto il film.
Sul fatto poi che si possa creare emulazione tutto è senz’altro possibile ma nel corso degli anni ho visto scalare con continuità in free solo pochissimi arrampicatori e tutti erano molto consci e motivati in quello che facevano e se calava la motivazione specifica infilavano l’imbragatura ed erano comunque appagati.
Nel film premio Oscar The Hurt Locker il protagonista, ritornato alla vita normale, la spesa al supermercato, la cura del figlio…. dopo un po’ chiede di ripartire per un nuovo turno in Iraq. Per molti apprezzare/sopportare la banalità della vita quotidiana è possibile solo mettendola periodicamente in gioco. È un meccanismo che può agire a livelli diversi e con frequenze diverse: per qualcuno può essere una passeggiata ogni tanto in montagna, per altri un quasi quotidiano sfidare la morte. Per qualcuno un complemento, per altri una dipendenza. Proprio in questi giorni, dopo un periodo di tensione e paura, apprezziamo di più cose banali come bere un caffè al bar o andare dal parruchiere, che abitualmente diamo per scontate e non ci sembrano di particolare valore. Persone un po’ particolari come Honnold, come emerge dal film, sono poco attratte da una vita “normale”, almeno per ora, e hanno bisogno di sensazioni decisamente più forti di quelle che bastano alla maggior parte degli altri per apprezzare anche il togliere le foglie dal cornicione, come lo sminatore di The Hurt Locker o Nanni Moretti in Caro Diario che dopo l’esperienza della malattia potenzialmente mortale dice: “Che bella la vita: un caffè, un bicchiere d’acqua e un cornetto al bar…”. L’articolo tuttavia non di questo parla, ma del ruolo educativo/orientativo che secondo l’autore organizzazioni di massa come il CAI dovrebbero avere nei confronti di manifestazioni estreme di quel meccanismo anti-depressivo e anti-ansia che sta alla base, ad un livello di intensità infinitamente minore, anche delle attività di “Collaudo Anziani” organizzate dallo stesso CAI. Un po’ come dire: apprezziamo e valorizziamo come organizzazione il buon vino in quantità moderata, ma scoraggiamo e mettiamo in luce i pericoli dell’alcolismo, che peraltro è alla base di molte opere d’arte eccezionali, appunto.
Premetto che io sono per la massima libertà nella pratica dell’alpinismo per cui secondo me ognuno è libero di rischiare se lo vuole. Aggiungo ancora che ritengo sciocco pensare si possa praticare alpinismo senza accettare un certo livello di rischio. Fatte tali premesse io volutamente ho evitato di guardare il film sull’impresa di Honnold. Non accetto l’idea di presentare come spettacolo la possibilità della morte in diretta, e tutta l’organizzazione di quel film, a mio avviso, punta proprio su questo stimolo emotivo. Mi sembra un ritorno allo spettacolo di gladiatori dell’antica Roma.
Pur conscio dei rischi che ho affrontato, nelle mia vita di alpinista, ho sempre cercato di applicare due principi che ho sentito da due personaggi che ho conosciuto:
Uno celebre: George Livanos: <<Le grandi audace fan le brevi carriere>>.
L’altro da un altro personaggio meno celebre: Carlo Carena, detto “il Carlaccio”: << Alpinista che torna buono per un’altra volta >>
A me pare che se si usa l’avventura di Honnold come perno del proprio ragionare, come mi pare faccia la riflessione proposta, allora sarebbe strettamente necessario riferire anche le sue parole sulla stessa, quelle essenziali che ha pronunciato, e scritto, e ripetuto ogni volta a proposito del rischio.
Per rispetto e completezza d’informazione.
Honnold divide nettamente tra rischio e conseguenze.
Il livello di rischio di un pilota di F1 – dice – è molto più alto del mio, per la contrazione estrema del tempo e dello spazio delle reazioni che gli sono richieste.
Ma le conseguenze dei suoi errori, sono minime rispetto alle mie, grazie al sistema protettivo della costruzione delle auto moderne da corsa, e degli impianti in cui corrono.
Il suo rischio, dice Honnold, è molto minore, grazie alla propria conoscenza ed esperienza delle tecniche d’arrampicata, e del livello relativamente minore – per lui – sulle quali le applica nei casi di free solo.
Le conseguenze invece sono mortali, senza margini: esserne consapevole non vuol dire affatto, nel suo caso, proporre tali conseguenze come mitologia, ma solo come possibilità. Giustamente, secondo me.
Mi pare impeccabile.
Aggiungo che molti dei free solo estremi purtroppo sono morti, e spero con tutte le mie forze che ciò non avvenga ad Honnold. Mi pare che nella ripetizione dell’avventura intervenga un fattore di hubrys, per dirla in breve, che sconvolge l’equazione rischio/capacità degli avventurieri, finendo per pesare sulle conseguenze, per quanto ben note all’inizio del cammino.
La riflessione dell’articolo, che trovo comunque pertinente, non dovrebbe creare infine schieramenti. Penso che al mondo ci sia posto per Honnold, per Dean Potter, per le solirarie di Hauer sul Pesce in Marmolada, come Huber sulla Cima Grande o Alain Robert in Verdon su Polpot. Trasmettere un film su una di queste imprese non significa dare necessariamente un messaggio diseducativo. Certo vanno contestualizzati. Personalmente ho letto Spiderman di Alain Robert e vi ho trovato anche una serie di riflessioni assolutamente interessanti e che denotano un tipo che ha idee solide, anche se discutibili, ma non e’ certo uno che ci prova e se la va la va…Mediamente la gente con cervello, pur vedendo tali imprese capisce che se ne deve tenere ben alla larga. Concordo quindi che il Cai, il Soccorso Alpino o qualsiasi altra istituzione debbano veicolare un messaggio equilibrato. Perche’ certo non si puo’ poi pensare che l’esaltato di turno sia in grado di sopravvivere al free solo solo perche’ si e’ comprato il Sector. Personalmente tutti coloro che hanno fatto imprese free solo mi hanno certo affascinato e mi chiedo quale spinta abbiano dentro. E penso che al mondo c’e’ posto anche per loro. D’altra penso alle mogli, ai figli e ….. mah…. la risposta non la trovo del tutto ma l’importante e’ che l’abbiano trovata loro e va bene cosi. sul rischio che ti avvicina alla morte, per quanto mi riguarda, ho sempre ragionato pensando che procedere sicuri il piu possibile e rinunciare una volta in piu’ e’ quello che permette di riprovarci il giorno dopo. Che alla fine e’ la cosa piu’ importante di chi vuol andare in montagna. Giocarsi tutto in una sola salita, oltre ad essere insensato per il mio modesto modo di vedere le cose, toglie inoltre la possibilita’ di riprovarci e questo, per me, non va bene.
saluti a tutti
Mi riaggancio al commento 1 e anche io sono convinto che gli errori più gravi, quelli che determinano conseguenze veramente tragiche, siano quelli “soggettivi” più che quelli “oggettivi”. La pressione sociale verso l’idea del superfigo (che sia l’ottavogradista su roccia o la sciatore del ripido) è il più micidiale di tutti. Per questo mi sono sempre battuto contro la filosofia “Sector No Limits” che è emersa già 40 anni fa. Riconoscere e accettare i propri limiti soggettivi riduce, anche se non annulla del tutto, la propensione a commettere errori. La società edonistica spinge invece verso l’idea del godimento esasperato (non solo in termini alpinistici) e questo modello è una cattiva tentazione. Mi sono convinto da decenni che la vera funzione didattica non è insegnare l’ultimo nodino o il protocollo A o B, bensì portare gli allievi, anzi portare ciascun singolo allievo, a focalizzare i propri limiti ed accettarli. Impresa ardua, perché spesso i primi che non sanno rinunciare al proprio godimento personale sono gli istruttori.
Escludere il culto della morte non significa esaltare il culto della vita.Chi va in montagna corre meno rischi di chi guida o è passeggero di un’auto.Si può morire per un rigurgito di cibo nel canale sbagliato o per la puntura di un insetto o per un bagno fatto durante la digestione, oppure perchè non si è fatto l’esame del PSA e si ignora di avere un cancro alla prostata,o si cammina sul marciapiede mentre si stacca una pezzo di cornicione dal tetto.Non è praticabile prevenire tutto,si può sempre commettere un errore oppure essere vittime di errori altrui.Se non fosse così vivremmo tutti almeno 100 anni e saremmo 20 miliardi anzichè 7.Il film Free solo esalta l’arrampicata pura,alla stessa stregua dei sub che tentano di battere il record mondiale di immersione o dei paracadutisti estremi.Freud ci ha spiegato che le nostre pulsioni spaziano tra Eros (Amore) e Thanatos (morte): i moventi inconsci che condizionano le nostre azioni.Si può provare a sostenere che l’alpinismo,specie quello estremo o l’arrampicata pura, manifesti la prevalenza di un forte istinto del Thanatos,ma non è dimostrato e comunque non vale certo per tutti.Personalmente ritengo che il buon alpinista, come l’escursionista esperto, debba saper valutare e riconoscere i propri limiti e sapersi fermare o rinunciare prima di iniziare.
La catena di errori e altre affermazioni presenti nell’articolo scaturiscono da una osservazione asettica e puntualmente razionale del rischio/incidenti/morte/insegnamento/spettacolarizzazione.
La dimensione emozionale è assente.
È una modalità che riflette la cultura che ci ha formati.
In questa, dove dire razionalità corrisponde a dire intelligenza, non è pensabile riconoscere che ogni scelta anche cosiddetta razionale si genera da una scintilla emozionale.
Chi cessa l’alpinismo non lo fa per argomenti razionali – che pure saranno presenti in lui – piuttosto perché l’emozione che lo sosteneva è venuta a mancare, sostituita da altre, compresa quella della paura.
Così chi seguita a scalare si muove secondo l’emozione che vive.
Quando questa è referente di una motivazione autentica e genuina, ovvero quando scalando viviemo la soddisfazione di noi stessi, ci sentiamo creatori, stemporalizzati, uno con gesto e terreno, nessun argomento razionale può interrompere il flusso di bellezza che siamo.
Tutti in quelle condizioni di libertà dell’io alzano sicurezza e prestazione.
Tutti senza quella considizioni, bistrattati da un io dittatore e razionale tremano come sarti coreani anche con il chiodo davanti alla pancia.
Io ho avuto due, chiamiamoli, incidenti. Me la sono cavata senza conseguenze. Se osservo, a distanza, la sequenza degli avvenimenti, con onestà vedo perfettamente anche la sequenza di errori. Uno schema molto preciso, da manuale.
Non ho fatto tesoro di quegli errori, trasformandoli in esperienza: li ho resi spunto di riflessione.
E ho smesso di arrampicare.
Non di praticare nevi e ghiacciai, ma di arrampicare, nel termine puro del termine, sì.
Ho intrapreso “la seconda vita”, parafrasando l’autore.
Ho avuto e ho paura? Sì, perché vergognarsi nell’ammetterlo. Non siamo tutti eroi, né uguali. Ho fatto mia una dimensione diversa, me la sono costruita per continuare ad andare in montagna.
Stavo spingendo un acceleratore che forse non era mio, ma del gruppo di cui facevo parte e dal quale (perché no?) ambivo considerazione e rispetto.
Ci sono voluti due incidenti per capire che non mi fregava niente. Che non era il mio modo di andare per monti, in Natura.
Oggi mi assumo la responsabilità di rischi diversi. Non so se più gestibili, certamente a me più congeniali.
Ecco, questa è una riflessione che non ho mai incontrato nei gruppi CAI frequentati: che non esiste solo un rischio oggettivo, superabile con la tecnica, l’esperienza, la testa.
Esiste il tuo rischio. La tua soglia. Una dimensione personalissima e insondabile.
… Se te la nascondi.