Il vecchio, il giovane, il cattivo

Dopo la scomparsa, riproponiamo un’intervista a “tre big” realizzata da Nanni Villani. Protagonisti: Bruno Detassis (2008), Cesare Maestri (2021) ed Ermanno Salvaterra (2023). L’intervista è preceduta da alcune considerazioni di Nanni Villani.

Ermanno Salvaterra, alpinista per sempre
di Nanni Villani
(pubblicato su alpidoc.it il 18 settembre 2023)

È trascorso un mese dalla morte di Ermanno Salvaterra in un incidente sul Campanile Alto.

Mi era capitato, nel lontano 1988, di mettere insieme per un’intervista, pubblicata su Alp n. 40, agosto 1988, lui, Cesare Maestri e Bruno Detassis.
Tre grandi figure dell’alpinismo dolomitico e internazionale, personaggi che di storie da raccontare ne avevano un’infinità: dalle prime salite tra le montagne di casa del Brenta alle imprese in Patagonia. Il Cerro Torre fu un’ossessione per i primi due, la meta mai raggiunta di una esperienza vissuta da capospedizione nel 1958 per Detassis.

Delle tante considerazioni dispensate da Bruno in quel pomeriggio di trentacinque anni fa, ce ne fu una che più di tutte mi colpì: la distinzione tra alpinisti e crodaioli.
Ero convinto, fino a quel momento, che il crodaiolo fosse un funambolo dell’arrampicata su roccia, appartenente dunque a una categoria che aveva proprio Maestri come massima espressione, e l’alpinista una figura in grado di muoversi a suo agio su ogni terreno di montagna, dalla parete di roccia al pendio di ghiaccio.
Una congrega, quest’ultima, che aveva in Walter Bonatti la sua massima espressione.

Detassis nell’occasione mette in piedi un’altra definizione: «In montagna ci sono due mentalità, quella dell’alpini­sta e quella del crodaiolo. Il crodaiolo ha una mentalità che a un certo punto lo porta a lasciare la montagna. All’alpinista non inte­ressano le difficoltà, interessano la cima, la passeggiata, la conqui­sta di un traguardo che vale per la sua età. Per me questa è pas­sione […]. Io andrò in montagna finché le gambe mi porteranno».

Dunque per Detassis chi è alpinista lo è per sempre. Una passione che non si esaurisce, la montagna come casa e non come palcoscenico.

Non ci sono dubbi che Ermanno Salvaterra sia stato un alpinista. Lo dichiara lui stesso in quella intervista di gioventù: «A me piace andare in montagna, in assoluto. Quando non farò più il V passerò alle vie di III e IV, e poi andrò per sentieri».

A quasi settant’anni Ermanno i gradi alti li faceva ancora, stava programmando una nuova avventura patagonica. È morto il 18 agosto 2023 su una via di III e IV, durante un’uscita con un cliente.

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Il Brenta, la Patagonia, l’alpinismo vecchio e nuovo, l’avventura: ce ne parlano tre famosi arrampicatori dolomitici, di tre diverse generazioni. Ermanno Salvaterra: «Sono caduti i miti, oggi c’è chi considera la salita al Cerro Torre come una specie di passeggiata». Bruno Detassis: «In montagna ci sono i crodaioli e gli alpinisti. I primi a un certo punto smettono, i secondi restano attaccati alla montagna per tutta la vita: io sono un alpinista». Cesare Maestri: «Il Brenta è cambiato, per questo non ci vado più». 

Il vecchio, il giovane, il cattivo
(pubblicato su Alp n. 40, agosto 1988)
di Nanni Villani

Non sono i protagonisti di un nuovo spaghetti-western di Ser­gio Leone. Il giovane, il vecchio e il cattivo sono tre persone in carne e ossa, tre alpinisti famosi che vivono all’ombra delle pareti del Brenta. 

Il giovane si chiama Ermanno Salvaterra. I lunghi capelli e la barba folta, di un biondo carico, non bastano a farne un Gesù Cristo, non fosse altro che per l’aria troppo sorniona e soddisfat­ta. Lui poi a certi richiami proprio non ci tiene, dato che quest’anno di primavere ne fa trentatré. Nato a Pinzolo, dove tutt’ora vive, ha all’attivo un mezzo migliaio di vie sparse per le Alpi. Ma le imprese che lo hanno fatto conoscere sono state le sue salite in Patagonia, tra cui spicca la prima invernale del Cerro Torre. 

All’Urlo di Pietra, come è stato definito il Torre, è strettamente legata l’umana vicenda di Cesare Maestri, il cattivo. Perché cattivo? C’è un compressore, appeso po­co sotto la cima del Torre, ad accusarlo di lesa maestà. Ci sono i dubbi e i sospetti di quanti non hanno mai creduto a Cesare, alla sua salita del Torre nel ’59, quan­do durante la discesa dalla vetta perì Toni Egger. Ci sono, ancora, le lunghe file di chiodi con cui secondo molti profanò tante pa­reti delle Dolomiti. 

Maestri, nella cerchia dell’alpi­nismo internazionale, giocò per molti anni il ruolo del diavolo, non solo o non tanto per l’incredibilità di alcune delle imprese da lui compiute, quanto per la sua vo­glia sanguigna di polemizzare contro tutti e tutto. Le vesti del dissacratore gli sono ancora oggi cucite addosso, e nella storia dell’alpinismo resterà sempre e co­munque un “cattivo”. 

Il terzo personaggio è un vec­chio signore dalla lunghissima barba bianca, con due occhi chiari sempre in movimento. A Maestri lo accomuna un destino che li ha visti lasciare Trento, città d’origine, per trasferirsi a Madonna di Campiglio. Non ha bisogno di grandi presentazioni, Bruno Detassis; tra gli appassio­nati della montagna la sua pipa non è meno famosa di quella di Sandro Pertini. Negli anni Trenta salì con pochissimi chiodi le pareti nord-est del Croz­zon di Brenta e della Brenta Alta, segnalandosi come uno degli al­pinisti più forti dell’epoca. Oggi, non lontano dagli ottant’anni – per la cronaca è nato nel 1910 – è una delle ultime voci, senza dubbio la più viva, del migliore alpinismo classico.

Abbiamo chiesto a questi tre signori, ideali rappresentanti di altrettante generazioni di alpinisti, di sedersi insieme attorno a un tavolo. In un pomeriggio di primavera già denso di foschie, si è così parlato del Brenta, della Patagonia, di alpinismo e di avventura. Era chiaro fin dall’inizio che nessuno avrebbe rispettato fino in fondo li gioco delle parti. Ermanno Salvaterra è un giovane arrampicatore che non disdegna, anzi spesso ricerca, un alpinismo di gusto antico, fatto di solitudine, di fatica, di salite difficili su grandi di pareti. 

Il cattivo, del cattivo non ha proprio niente. Questo tranquillo signore sulla sessantina., dalla faccia tonda incorniciata da una corta barba grigia, è oggi un nonno che quasi si commuove raccontando della sua passeggiata tra i boschi con la nipotina. Con gli anni la vena polemica si è stemperata. Quella ironica è quasi intatta, e Cesare è tra i pochi grandi o ex-grandi che abbiano l’accortezza, almeno qualche vol­ta, di autobersagliarsi. Chiamato a rappresentare la generazione di mezzo, si dimostra un personaggio anomalo, difficile da incasellare all’interno di un’epoca. 

Il grande vecchio, infine, è un uomo apertissimo alla novità, uno spirito giovane che ha sempre evitato di vivere di ricordi. Il suo è un modernismo equilibrato, verso il quale è spinto non dal patetico desiderio – tipico di tante delle primedonne del passato – di sentirsi ancora al centro delle attenzioni, ma piuttosto dalla convinzione che, nel bene e nel male, sono le nuove leve a cui si deve guardare per capire dove va l’alpinismo. Il discorso con lui parte da lontano, da quel Brenta di cui è una sorta di simbolo vivente. 

Da sinistra: Cesare Maestri, Ermanno Salvaterra, Bruno Detassis e Nanni Villani. Foto: Daniele Panato.

Come è cambiato il Brenta in tutti questi anni? 
Detassis. Cambiato il Brenta cosa vuol dire? Le rocce non cambiano, al massimo ogni tanto si staccano. Se qualcosa cambia è nell’uomo, nell’alpinista.

Non ci sono più rifugi e sentieri, non c’è molta più gente?
Detassis. Questo sì, specialmente i sentieri attrezzati hanno portato in Brenta moltissima gente, anche troppa. Con i nuovi rifugi è più comodo arrivare agli attacchi delle vie. Poi sono cam­biati i materiali alpinistici, ed è più facile muoversi. 

Tu hai lavorato per attrezzare le Bocchette. Oggi non sei pentito? In qualche modo hai favorito l’invasione del Brenta… 
Detassis. No, le Bocchette ci volevano. Il Brenta è tagliato da grandi cenge naturali, e attrezzando la traversata di tutto il gruppo si è permesso a chiunque avesse una certa esperienza alpinistica di godere di uno spettaco­lo incredibile, dantesco. Le prime ferrate, come quella delle Tofane, sono state fatte nella guerra del ’15-’18, e secondo me è giusto che fossero mantenute. Poi in Dolomiti è venuta la mania delle ferrate, e purtroppo non c’è stato nessun controllo. Per i rifugi è un po’ lo stesso discorso: bisogna smettere di costruirne di nuovi, e migliorare quelli che già ci sono.

Cosa è cambiato invece nell’uomo, e quindi nell’alpinismo? 
Detassis. Una volta, facendo il Campanile Basso, verso la cima ho trovato uno e gli ho chiesto: «Chi sei tu?».
«lo – mi ha gridato – sono Cesare Maestri». Per lui era la prima volta, per me la centesima. Lì per lì non ho pensato niente, poi, con il passare del tempo, mi sono accorto che si chiudeva un’epoca, cui io appartenevo, e si apriva quella di Maestri e di quelli della sua età. La mia era l’epoca dei Graffer, degli Armani, tutta gente che andava in montagna per fare delle belle salite, senza nessuna grossa competizione, tant’è vero che non abbiamo mai saputo chi di noi fosse il più forte. Abbiamo sempre puntato all’itinerario più diretto possibile, cercando però sempre il facile nel difficile. Ce­sare ci ha dato l’artificiale, adesso i giovani parlano di VII e VIII grado, di arrampicata libera. Anche noi abbiamo fatto della libe­ra, e quella di allora era proprio libera: se uno volava saltavano giù tutti, perché di chiodi se ne usavano sempre pochini. Non ho nient’altro da aggiungere, voglio solo dire che ho sempre avuto rispetto per Maestri e gli alpinisti della sua epoca, come adesso ne ho per Salvaterra e gli altri giovani. Non mi vengano solo a dire che non ci sono più salite da fare, perché se uno si interessa ne trova ancora per tutta la sua vita.

Anche in Brenta? 
Detassis. Certo, bisogna solo aver voglia di camminare, e ci sono ancora bellissime vie da salire. In passato ne ho fatte vedere molte ad amici, adesso che si arrangino. 

Sentiamo Cesare che cosa pensa. 
Maestri. lo sono stato un alpinista anomalo, e per me la montagna è stata un banco di lavoro, un teatro dove ho recitato, e che diventava vero solo nel momento in cui io ero su per fare qualche salita. Da molto tempo non vado più in Brenta, tra quelle montagne dove per venticinque anni ho fatto la guida. Non ci vado più perché non mi piace il casino, il rumore, la sporcizia. Anche se non voglio dire che certe cose una volta non esistessero. Mi ricordo che ero già incazzato ai quei tempi quando andavo sul Campanile Basso e trovavo dap­pertutto bottiglie e barattoli. La porcheria era già un problema, ma non come adesso. Adesso poi in più ci sono i pentiti, i vari Buscetta della situazione, che dopo aver sporcato le montagne di tutto il mondo si mettono a fare i puritani a tutti i costi. La montagna è lì, sempre ugua­le, sono d’accordo con Bruno, ma oggi è più rovinata di un tempo. Poi è cambiata la mentalità dell’al­pinista, che ha un altro spirito, tende ad altre mete. Non voglio dare giudizi, non mi sento di dire se il cambiamento è stato in me­glio o in peggio. A me oggi l’alpinismo non dice più molto, ma dopo che mi sono battuto tutta la vita perché in montagna ognuno facesse ciò che preferiva, natural­mente nel rispetto della libertà altrui, non posso certo porre dei limiti, affermare arbitrariamente che l’attuale è una forma non vera o degenere dell’alpinismo. 

Si ha l’impressione, dall’esterno, che Bruno abbia saputo farsi montanaro, che abbia costruito un rapporto con la montagna pro­fondo e duraturo. Tu dai più l’idea di un cittadino che con la montagna ha avuto una storia anche intensa ma circoscritta nel tempo
Maestri. In realtà siamo entram­bi nati a Trento, e perciò tutti e due siamo cittadini di estrazione. Secondo me gioca un ruolo im­portante le physique du rôle. Se come regista dovessi scegliere un uomo per fare la guida alpina, tra mille sceglierei senz’altro Bruno. 

A parte le physique du rôle, non pensi che il tuo rapporto con la montagna sia stato molto diverso da quello di Bruno? 
Maestri. Bruno ha agito in un’e­poca diversa. È logico che ades­so non possa fare a meno di portarsi dietro il suo personaggio. Il sacerdote a cui tolgono la tonaca, dentro resta un sacerdote. Certo, per me l’alpinismo è stato più un mezzo di espressione che un fine: forse qui sta la differenza.

E Cesare Maestri non si porta dietro da anni il suo personaggio? 
Maestri. Senza dubbio è così, anche se è una cosa inconscia. Se sei abituato a vivere in un certo modo non puoi cambiare, vieni avvolto dal tuo personaggio. 

Detassis. In montagna ci sono due mentalità, quella dell’alpini­sta e quella del crodaiolo. Il crodaiolo ha una mentalità che a un certo punto lo porta a lasciare la montagna. All’alpinista non inte­ressano le difficoltà, interessano la cima, la passeggiata, la conqui­sta di un traguardo che vale per la sua età. Per me questa è pas­sione, e non un vestito da prete. lo andrò in montagna finché le gambe mi porteranno. Cesare di­ce che non c’è più il silenzio e la solitudine di una volta. È vero, ma basta spostarsi di qualche centi­naio di metri dai sentieri e dalle vie più affollate per non trovare più nessuno. 

Cesare, ti senti crodaiolo? 
Maestri. Davanti a te hai tre generazioni di arrampicatori. Ab­biamo tre teste diverse, tre modi diversi di andare per il mondo, ma tra noi c’è un filo comune. Tutti e tre godiamo dell’andare in montagna, del vedere fiori, be­stie e bei panorami; noi abbiamo saputo che Ermanno sa correre, ci siamo sbizzarriti ognuno nella propria epoca a fregarci l’uno con l’altro le salite. Il nostro è stato un modo eclettico di avvicinarsi alla montagna: ne abbiamo godute le bellezze, abbiamo sa­puto correre e credo che ognuno di noi sia stato a volte alpinista e a volte crodaiolo. 

Detassis. Però, e dopo non par­lo più, l’alpinista se ha una vera passione non smette. Non arrive­rà più su in cima, ma andrà più in basso. lo sono stato anche un crodaiolo, è vero. Oggi non ho più l’abilità e la forza per esserlo, ma resto un alpinista. 

Maestri. Allora alpinista sono anch’io, perché prendo la mia piccola Carlotta e la porto a scia­re, a fare le passeggiate per vedere le marmotte. E’ vero che non mi sento più di arrampicare. Bruno ogni tanto mi rimprovera affettuosamente perché ho lascia­to perdere: il fatto è che non mi diverto più, e poi non sarei capa­ce, pur non potendo fare altri­menti, di stare dietro a un altro in cordata. 

Detassis. Io dietro a Ermanno ci vado. L’importante è sapere che ti puoi fidare del tuo capocordata. Lo devi studiare: qua, in testa, c’è uno studio di Ermanno, che io non dico… perché è solo mio. 

Sentiamo Ermanno, allora. Sei un alpinista o un crodaiolo? 
Salvaterra. A me piace andare in montagna, in assoluto. Quando non farò più il V passerò alle vie di III e IV, e poi andrò per sentieri. Mi diverte l’arrampicata libera, e arrivo a superare quelle difficoltà che il mio allenamento e soprattutto la mia voglia mi consentono. Non sono il tipo che si allena metodicamente, resto di­verso tempo senza fare assoluta­mente niente, poi mi metto ad arrampicare in palestra, per un mese o due, e dopo le falesie non le guardo più. Mi piace anche sciare e adesso sto facendo le prove del chilometro lanciato: uno che arrampica solamente, quello che qui stiamo chiamando crodaiolo, non può permettersi di stare via una settimana per fare una gara di sci o per andare a trovare una donna. 

E il mondo alpinistico che ti cir­conda, come lo vedi? 
Salvaterra. L’alpinismo è cam­biato incredibilmente, perché è cambiata la testa della gente. Non esiste più ad esempio il periodo, una volta lunghissimo, di apprendistato. Oggi, specialmen­te in palestra, chiunque inizia subito da vie difficili, quelle che venivano salite dopo qualche an­no di preparazione. Poi è caduto il mito della montagna, che fino a non molto tempo fa era conside­rato un mondo per esseri fuori dal comune. 

Ermanno Salvaterra ospite del Cuneo Montagna Festival nel 2010; davanti a lui uno storico “cimelio”: un pezzo del compressore utilizzato nel 1970 da Cesare Maestri sul Cerro Torre e lasciato appeso sull’ultimo chiodo a 100 metri dalla vetta. Foto: Enrica Raviola.

È per questo che oggi tutto sem­bra scontato? Anche le grandissi­me salite quasi non fanno più notizia. Eppure, come impegno e rischio non valgono certo meno delle migliori vie del passato… 
Salvaterra. Nelle Alpi la situa­zione è molto cambiata rispetto ai tempi di Bruno e anche di Cesa­re. Ci sono più rifugi, è più facile raggiungere gli attacchi, c’è più gente che gira, sai che è più facile essere eventualmente aiu­tato, girano moltissime informazioni, quindi il peso psicologico di una salita, anche difficilissima, non è più quello di una volta. Di questo mi sono reso conto in particolare quest’anno, quando sono stato da solo in Patagonia. Ho sentito fino in fondo il peso di essere in parete sapendo che al campo base nessuno mi aspetta­va, che in caso di difficoltà nessu­no mi avrebbe probabilmente visto. Quando arrampichi in Brenta la testa sa che quando scendi trovi il rifugio, il gestore che conosci, la pastasciutta e la gen­te, e perciò arrampicando sei molto più tranquillo. E in poco tempo sarà probabilmente così quasi dappertutto, anche in Himalaya e Patagonia. Pensiamo solo al Torre, a cosa ha rappre­sentato: oggi qualcuno lo considera poco più di una passeggiata. 

Bruno Detassis

Sembra che anche il famoso ven­to patagonico si sia calmato. A tutti è rimasta impressa l’immagine di Pedrini che arrampica in maglietta… 
Salvaterra. Chi ha una lunga esperienza di Patagonia dice che effettivamente le condizioni climatiche un po’ sono migliorate. Anche a me è capitato di arram­picare in maglietta e mutande sulla Saint-Exupéry facendo 12 tiri nuovi per puro divertimento; è stato quasi come andare in palestra, dopo siamo scesi a doppie. Ma il vento e il freddo ci sono, anche se bisogna dire che pro­babilmente la storia del brutto tempo era stata un po’ gonfiata. Succede che dopo un paio di tentativi falliti per il brutto, uno decida di lasciar perdere, anche se il tempo è migliorato, o comunque non è poi così terribile. Dopo, una scusa o per gli altri o per te stesso devi pur trovarla, specialmente se sei uno un po’ conosciuto. Così torni dicendo che il tempo era spaventoso, neanche per falsità o cattiveria, ma perché qualcosa devi pur dire. E raccontare che non sei salito per­ché non ne avevi voglia o non te la sentivi, non è da tutti. 

Ultimamente la percentuale di tentativi falliti al Torre e al Fitz Roy è scesa di molto. Come lo spieghi? 
Salvaterra. Ci sono stati, come nel dicembre del 1987, alcuni pe­riodi di bel tempo. Ma a parte questo, penso che conti molto la massa delle informazioni che cir­colano. Quando siamo stati al Tor­re nella stagione 1982-1983, sapevamo più o meno dov’era la montagna, e ba­sta. Non avevamo idea della posi­zione della Spalla, della successione dei tiri, del materiale ne­cessario. Quando sono arrivato all’ultimo chiodo buono di quelli lasciati da Cesare (era una brut­ta giornata e non si vedeva niente) ho messo un chiodo a pressio­ne. Quando ci sono salito, mi sono accorto che a pochissima distan­za c’erano i chiodini di Bridwell. Tre anni fa, prima ancora del tentativo di Pedrini, avevo prova­to anch’io a salire in solitaria, e le cose erano già del tutto diverse, perché della via sapevo tutto. E adesso tutti quelli che salgono sanno perfettamente cosa li aspetta. Per questo tutto è diven­tato molto più semplice, e i miti sono caduti. 

Senza il mito, l’alpinista vive me­glio o peggio? 
Salvaterra. Probabilmente era più bello ai loro tempi, c’erano delle emozioni e soddisfazioni più intense. Comunque io non voglio miti per il mio alpinismo. Mi pon­go dei traguardi alla mia portata e quando li raggiungo ne cerco altri. 

Cesare, il mito ha pesato sul tuo modo di andare in montagna? 
Maestri. Io penso di essere sta­to un mito. 

Ma a parte il mito che hai rappre­sentato tu per gli altri? 
Maestri. Nel mio alpinismo non ho avuto miti, e ho cercato di smitizzare me stesso. Personalmente la retorica della vetta non mi ha mai interessato. Quando sono arrivato in cima al Torre, la prima cosa che ho pensato è stata: «Puttana Eva, adesso biso­gna tornare giù». Il bello dell’al­pinismo, per me, era l’immagina­re cosa potevo fare, il sentirmi allenato. 

Il mito del Torre non l’hai creato anche un po’ tu, magari con un libro come Duemila metri della nostra vita
Maestri. Il mito del Torre era nato ancora prima, quando i fran­cesi avevano detto che «il solo pensare di salirlo era cosa vana e ridicola». In ogni caso un mito non si crea dal nulla, a meno che tu non sia un grandissimo regista. 

Cesare Maestri

Bruno, tu sei stato il primo italiano a fare un pensierino alla parete-­mito per eccellenza, la Nord del­l’Eiger…
Detassis. Io non so cos’è il mito, se è un fatto religioso, una passione plebea o chissà cos’altro an­cora. All’Eiger io cercavo l’avven­tura, e basta. 

Oggi si parla molto di avventura, spesso a sproposito. Che cos’è per te l’avventura? 
Detassis. L’uomo ha di fronte a sé tutta una serie di punti di domanda. La curiosità lo spinge a cercare di vedere cosa c’è die­tro, e così nasce l’avventura. Av­ventura è penetrare nell’ignoto. 

Oggi di ignoto resta ben poco… 
Salvaterra. Dipende da cosa in­tendiamo per avventura e per ignoto. Per me l’avventura sta dietro a un qualcosa che o tu non hai provato personalmente o al limite che hai già provato ier,i ma capisci che oggi può essere per te una cosa nuova. Anche la stes­sa via per chi la sale più volte può essere sempre diversa. 

In Patagonia non cerchi l’avven­tura che le Alpi non ti offrono più? 
Salvaterra. No, ci vado perché è un ambiente che mi attira mol­to, e ogni volta ritorno con un grosso bagaglio di nuove espe­rienze. Ma non c’è bisogno di andare così lontano per vivere l’avventura. Basta sapersi guarda­re intorno. 

Non hai invidia per Bruno, che ha avuto sotto mano un Brenta in molte zone ancora inesplorato, con grandi pareti ancora da sa­lire? 
Salvaterra. Un po’ sì. Oggi per salire per primo una grande pa­rete devi effettivamente andare in Patagonia o all’Isola di Baffin. Però cose nuove ce ne sono sempre da fare. Gli arrampicatori fortissimi, come un Manolo, prima di essere supe­rati abbandoneranno l’arrampi­cata libera e si porteranno in montagna, trasferendovi una cer­ta mentalità e le nuove tecniche: allora vedremo un grosso salto di qualità in alta montagna, anche in zone come la Patagonia, e per l’alpinismo si aprirà una nuova fase. 

Maestri. Io penso, riguardo al­l’avventura, che ho invidiato una sola persona al mondo. È stato l’astronauta Armstrong che ha vissuto, quando è sceso per primo sulla luna, un momento irripetibi­le. Ricordo benissimo l’immagine dei suoi piedi che scendono dalla scaletta. Prima di toccare la su­perficie lunare, proprio all’ultimo momento ha avuto un’esitazione e ha ritirato per qualche secondo il piede, riproponendosi così come uomo. Ecco, avrei dato qualsiasi cosa perché quel piede fosse stato il mio. 

La tua idea di avventura è diver­sa perciò da quella di Ermanno: lui fa riferimento a un’area ignota all’individuo, tu a un terreno o a un traguardo non toccato in precedenza dall’uomo. 
Maestri. Io ti ho parlato di quel­la che sarebbe stata l’avventura della mia vita. Poi è evidente che l’avventura ha una dimensione del tutto personale. Io oggi sto vivendo quell’avventura particolarissima che è l’incontro con la mia nipotina. Può far ridere, ma mi dà la stessa carica del Torre. L’importante è che l’avventura sia genuina, vissuta nel profondo: non c’è niente di più falso e pericoloso della dimensione av­ventura alla Jonathan (trasmissione televisiva degli anni Ottanta condotta da Ambrogio Fogar, NdR). 

Che cosa rappresenta per te oggi il Brenta? 
Maestri. Il gruppo più bello delle Dolomiti, che ho molto ama­to e che oggi non frequento più per non soffrire nel vedere tanto casino, come ho già detto. 

Salvaterra. Cesare, te ne devo dire una cattiva. Tu ti lamenti del casino, ma intanto sei uno di quelli che con l’eliski di casino ne fanno e tanto, e allora proprio non ti capisco. 

Maestri. Io non voglio fare il pentito. Ho sempre pensato che l’attività con l’elicottero, se sottoposta agli opportuni controlli e restrizioni, non dia particolari problemi all’ambiente. E poi voglio dire una cosa: quando ac­compagno in elicottero venti pistaioli, non dico che arrivano giù venti alpinisti, ma venti persone che hanno sicuramente più ri­spetto per la montagna. 

Nanni Villani

Com’è cambiata la vita di chi abita tutto l’anno in un paese di montagna? Come valligiani, non avete rimpianti per il Brenta di una volta? 
Salvaterra. Io sono giovane, non ho vissuto il periodo in cui la gente era obbligata a emigrare. Però ho ben presente com’è cambiata la vita a Pinzolo negli ultimi vent’anni. Pinzolo, fino a quando non sono stati fatti gli impianti, nel 1969, in inverno era un paese morto. Grazie allo sci la gente ha trovato un lavoro, e si è potuta fermare. Secondo me, qui come altrove, una parte del terri­torio va sacrificata per permette­re alla gente del posto di vivere, un’altra va invece severamente salvaguardata. Se adesso voles­sero fare dei nuovi impianti nelle zone più integre, come verso l’Adamello, sarei il primo a oppormi, a costo di mettere le bombe sotto i piloni degli skilift. 

Detassis. Certo, era tutta un’al­tra vita, quando io ero giovane. In ogni modo, in tutto questo gran casino che c’è, oggi si vive molto meglio.  

Il vecchio, il giovane, il cattivo ultima modifica: 2025-03-23T05:08:00+01:00 da GognaBlog

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12 pensieri su “Il vecchio, il giovane, il cattivo”

  1. Expo #10:

    […] questi 3 sono uomini liberi , che non avevano paura di uscire dalle “categorie” dei giornali , ne di sbagliare , o di mandarsi a cagare […] questi non temevano di non essere più chiamati dai giornalisti, il loro mondo era la fuori.

    Concordo: è più o meno quello che anch’io ho scritto al #8.
    Rimane il fatto, su cui mi sembra anche tu concordi, che il politicamente corretto non c’entra una fava.
    E poi, se vogliamo dirla tutta, comunque non dicono niente di scomodo.
     

  2. @6
    Invece il paragone con il carosello d’impianti non c’entra nulla. Se hai letto l’intervista, Maestri rispondeva, arrampicandosi sugli specchi, ad un affondo di Salvaterra (“sei uno di quelli che con l’eliski di casino ne fanno e tanto”). Trovo semplicemente offensivo accostare l’eliski al rispetto per la montagna.

  3. @ 8
    .
    .
    Per me Cominetti ha ragione, non tanto sulla definizione di :”Politicamente corretto” , quanto perché questi 3 sono uomini liberi , che non avevano paura di uscire dalle “categorie” dei giornali , ne di sbagliare , o di mandarsi a cagare , come mi sembra fosse successo fra Maestri e Salvaterra dopo la “divergenza di opinioni” sul Torre del 59.
    .
    .
    Secondo me questi non temevano di non essere più chiamati dai giornalisti, il loro mondo era la fuori.

  4. Mi ricordo di una bella e colorita  partita alla morra,  con Detassis giocatore,  a cui ho assistito fuori dal rifugio Brentei. 

  5. Bella intervista.
    Il politicamente corretto (Cominetti al #1), che ormai si tira in ballo -spesso a sproposito- in qualunque occasione, non c’entra una fava: semmai si tratta di personaggi (ormai affermati) che non temono di dire qualcosa di sgradito a qualche sponsor, come invece spesso succede agli “atleti” dei nostri giorni (anche se ovviamente c’è chi fa eccezione, come ad esempio, il primo che mi viene in mente, Sébastien Berthe).

  6. A me piace andare in montagna, in assoluto. Quando non farò più il V passerò alle vie di III e IV, e poi andrò per sentieri

  7. @3
    Beh…immagino si riferisse a paragonare un carosello d’impianti e un eliski… È evidente che Maestri non sia mai stato un purista, ma una persona intelligente sì e pone una questione interessante con una simile risposta e forse ha proprio ragione lui su quale sia “il meno peggio”

  8. Li ho conosciuto tutti e tre, in particolare Detassis nel 1985 al Brentei, qundo andammo a fare la sia via delle Guide al Crozzon. Era il cinquantenario della via e aveva fatto fare una bottiglia di vino con etichetta personalizzata per commemorare l’apertura. Ce ne regalò una. Mi immedesimo molto nel suo essere appassionato montanaro.

  9. Tre generazioni e tre epoche ben distinte più collegate di quanto possa sembrare.  
    Altro titolo:
    Il Custode Leale,il TecnoEstremista e il Ribelle Rivoluzionario.
    Calzano?
     

  10. E poi voglio dire una cosa: quando ac­compagno in elicottero venti pistaioli, non dico che arrivano giù venti alpinisti, ma venti persone che hanno sicuramente più ri­spetto per la montagna. 

    Mah…

  11. Gente concreta che ha vissuto la montagna quando questa era ancora una cosa concreta, non un “non luogo” denominato “terre alte”.

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