In cammino con i pionieri – 2

Nella storia delle centinaia di Sezioni del Club Alpino Italiano si contano ormai con difficoltà le pubblicazioni edite in occasione delle classiche ricorrenze: decennali e loro multipli, che in alcuni casi hanno ormai raggiunto quota 150 anni. In questa vastità di commemorazioni stampate in volumi più o meno corposi e/o eleganti sono molte quelle che non sono riuscite ad andare neanche un po’ oltre all’interesse che può essere loro dedicato dai diretti soci protagonisti. Altrettanto parecchie però sono le pubblicazioni che sono andate al di là del semplice elenco di articoli celebrativi, nel tentativo (riuscito) di produrre storia e cultura.

Sono invece pochissime quelle che emergono dalla “solita rassegna di alpinismo giovanile, vecchietti, arrampicatori, ciclisti, soccorritori, bocciofila (Alberto Benini)”, riuscendo nel compito sovrumano quanto ingrato di presentare qualcosa che si lasci davvero leggere con interesse. Agili, godibili.

E’ questo il caso di In cammino con i pionieri, edito dal CAI Lecco in occasione dei suoi 150 anni (1874-2024), volutamente riservato ai primi cinquanta anni della sua storia.

Una scelta corretta, se consideriamo l’immane vastità di cose che avrebbero potuto trovarvi spazio se si fosse considerato il triplo degli anni. Gli autori, Alberto Benini, Pietro Corti e Sergio Poli, in accordo con la Presidenza del CAI Lecco, si sono concentrati sul filo rosso che collega l’attualità della sezione ai suoi primi decenni di vita.

Un gran lavoro, “stampato su carta a mano invece che lucida, per valorizzare figure citate a proposito e a sproposito (sempre Alberto Benini)”.

GognaBlog è lieto di presentare al suo pubblico qualche articolo estratto da queste prestigiose 128 pagine. Altri due articoli saranno pubblicati su Altri Spazi.

In cammino con i pionieri – 2
di Alberto Benini, Pietro Corti e Sergio Poli
(pubblicato su In cammino i pionieri: 1874-1924 I primi cinquant’anni del CAI Lecco)

Mario Cermenati (1868-1924)
Non è difficile oggi procurarsi informazioni biografiche su Mario Cermenati, nato a Lecco nel 1868 e morto a Castelgandolfo, geologo e storico della scienza, precoce allievo di Antonio Stoppani, vero enfant prodige delle scienze naturali. Piuttosto vale la pena di dedicare qualche riga a capire se quest’uomo, che della sezione del Club Alpino fu la vera anima per tutta la sua lunga presidenza (1890-1924), abbia ancora qualcosa da dire ai nostri tempi, a cento anni giusti dalla morte, avvenuta nel 1924 quando ormai la malattia lo aveva allontanato dalla vita pubblica.

Chi è stato davvero Mario Cermenati? Che ruolo ha giocato nel fare di Lecco un punto di riferimento nell’alpinismo italiano?

Sistema Museale Urbano Lecchese, Galleria d’Arte Moderna. Giovanni Trussardi Volpi, Ritratto di Mario Cerrnenati, 1900, olio su tela, cm 66 x53.

Sarebbe facile sminuirne l’importanza, se pensiamo allo scarto sociale e temporale fra il “suo” CAI e l’esperienza di quell’alpinismo operaio lecchese “anni Trenta” che si sviluppa a breve distanza dalla sua morte. Eppure non è così: aldilà dei primi vagiti arrampicatori, ancora legati all’alpinismo con guide alpine di Ongania o all’attività di Franco Brookes (ancora un inglese a rivelare ai lariani le loro montagne!) e di Carlo Castelli (omonimo del leggendario cassiere del CAI Lecco) che furono i primi lecchesi ad aprire vie di arrampicata sulle nostre pareti, si deve alla sua opera la trasformazione (sostanzialmente tramite sentieri e rifugi) del territorio delle nostre montagne in un fertile terreno su cui potesse fiorire il grande alpinismo.

Un alpinismo di spessore tecnico che, come tutti ben sanno, in epoca moderna è figlio dell’arrampicata di difficoltà, che pure per Cermenati costituiva una sorta di aberrazione del sano andare per monti.

La sua figura, collocata all’incrocio fra le scienze naturali, l’azione politica, la promozione dello sviluppo dei territori montani e l’alpinismo, è quella di un personaggio non certo propenso a farsi rubare la scena, semmai il contrario. Oratore e propagandista inarrestabile, provvisto di una vera leadership e di una formidabile capacità organizzativa, di cui resta tangibile traccia (ad esempio) dai verbali delle riunioni del direttivo del CAI o dai suoi interventi sulla stampa.

Cermenati sapeva giovarsi dei giornali, spesso da lui fondati o promossi, con grande disinvoltura, ribadendo colpo su colpo alle affermazioni degli avversari, togliendo loro, quasi fisicamente, lo spazio. Tutto ciò tenendo presente che dagli ultimi anni dell’Ottocento viveva a Roma, impegnato su diversi fronti: politico, accademico e scientifico, in un’epoca (ricordiamolo per i più giovani) in cui la massima rapidità comunicativa era offerta dal telegrafo.

A rileggerlo ora, colpisce la sua capacità di assecondare, nel procedere del discorso, il senso comune per poi imprimere al ragionamento una svolta decisa verso le proprie opinioni, mediante l’introduzione di una citazione, oppure di una frase ad effetto, spesso originata o sorretta da un motto di spirito, oppure prendendo spunto dall’individuazione di una crepa nelle motivazioni dell’avversario.

Se si riprende il testo della sua conferenza (quanto sarà durata?) del 1898 dedicata a L’alpinismo e la scuola, a giudizio di chi scrive la sua cosa migliore, aldilà delle inevitabili lungaggini, si resta ammirati dalla sua abilità nel raccogliere le altrui eredità per farle proprie e svilupparle, equilibrando l’ambito locale al palcoscenico nazionale. E soprattutto si resta ammirati dalla modernità di certi suoi temi. Interessantissima, ad esempio, la rassegna dei giovani avviati precocemente all’alpinismo fra i quali spicca Lina, figlia del ministro Costantino Perazzi (più a suo agio, quest’ultimo, fra i ghiacci che sui banchi del governo, come Cermenati non manca di insinuare, riprendendo un’opinione di Paolo Lioy) che già dodicenne aveva raggiunto i 4500 metri della Punta Gnifetti, tutto a dimostrare come le alte quote non fossero dannose, anzi l’opposto, per i ragazzi più giovani. La disamina storica sul tema è larga e documentata, fino a giungere alla prima formalizzazione delle Carovane alpine avvenuta nel 1892 al Congresso di Palermo, per giungere alle Colonie alpine per fanciulli poveri, splendida iniziativa, che con vera democrazia, mira al sollievo delle classi diseredate e ricorda allo Stato l’obbligo, cui non adempie ancora, di nutrire e vestire gli alunni poveri -oh, il bel giorno in cui si arrivasse a tanto!

Se si pensa quanti e quali alpinisti abbia formato negli anni a Lecco l’alpinismo giovanile, si ha la prova più chiara dell’intelligente efficacia dell’apostolato di Cermenati.

La luna incombe sulla Val Còmera, tra le Punte Stoppani e Cermenati.

Altro suo aspetto caratteristico è la grande capacità di utilizzare a fini argomentativi elementi della cultura classica e contemporanea, tanto tratti dall’ambito scientifico che da quello umanistico, a partire dalla scoperta e valorizzazione degli spazi aperti, introdotta da Rousseau (“La vita cittadina è un lento, continuo veleno per la gioventù”) e presente nel quasi conterraneo Parini, per arrivare ai contemporanei, ai paladini dell’igiene volgarizzata. Per fare un nome, il più noto, quello del monzese Paolo Mantegazza.

La pratica di intitolazione a Mario Cermenati della cima culminante del Resegone ha avvio con questa comunicazione, che la Società Escursionisti Lecchesi dirige al segretario di Cermenati.

Cermenati non manca di esaminare e di mettere l’accento anche sugli aspetti morali dell’alpinismo che sviluppano “quei sensi di libertà e di indipendenza, che sono tra le precipue doti dell’animo virile“.

È alpinismo di esplorazione e di scienza, e su queste fondato e a queste rivolto, quello di Cermenati. È sicuramente un alpinismo impastato di patriottismo, sensibile ai valori letterari (Giacosa, De Amicis, Rey per limitarsi agli italiani) e musicali, come attesta La musica delle montagne, un altro suo scritto, contenuto come il precedente in Cose d’alpinismo, nel quale si tratta largamente di Ponchielli, Petrella e Gomes. Cermenati non è certamente interessato all’aspetto tecnico e a quello della difficoltà, piuttosto a stabilire legami inattesi come quello fra il canottaggio e l’alpinismo, sempre sotto l’insegna dell’irruzione dello sport nella vita quotidiana che caratterizza il nascente XX secolo.

Non si lascia sfuggire nemmeno i riferimenti gastronomici (la trota è animale alpinista perché sale oltre i 3000 metri) strettamente connessi a quei banchetti in cui la sua oratoria trovava largo campo di applicazione, assumendo talvolta aspetti quasi paradossali, come quando, discutendo di vini, si lascia andare a lodarne l’efficacia in qualità di lubrificanti dell’oratoria politica, anche nelle riunioni parlamentari. Obbligato (afferma lui, ma non è il caso di prestargli eccessiva fede) ad assolvere al ruolo di oratore, in occasione dell’inaugurazione (1899) della capanna SEM ai Piani Resinelli, se la cava brillantemente ostentando una falsa modestia che oggi muove al sorriso, ma ponendo l’accento sulla fraternità fra le diverse associazioni alpinistiche, tutte impegnate a diverso titolo a fare réclame alla montagna e all’alpinismo, senza mancare di aprirsi a belle pagine di descrizioni del territorio:

Ecco lì, a pochi salti, basso e tozzo, il Coltignone: qui sopra il nostro capo, come si levasse ora dal letto liberandosi da pesanti coltri, s’erge la figura elegante e simpatica della Grignetta la quale, fra parentesi, da alcuni punti di vista ricorda in certo modo il Duomo, di cui voialtri milanesi andate a ragione così orgogliosi; qui, in faccia, fa pompa di sé la dentellata mole del classico Resegone, con la boscosa appendice della Pizza d’Erna; là infondo, vedete troneggiare l’aspro massiccio dello Zuccone Campelli, e più lontano ecco forare il cielo altre punte di varia forma e di vario nome”.

Giuseppe Ongania (1869-1911)
Giuseppe Ongania nasce a Lecco il 23 dicembre 1869, da una antica famiglia in odore di nobiltà. Nel 1893 si laurea in ingegneria civile al Politecnico di Milano e si dedica alla progettazione di prestigiose opere nella sua città, tra cui l’Ospedale e la sede della Banca d’Italia [Comunemente Palazzo Falck. N.d.R.] nella centrale piazza Garibaldi. Molto attivo in diversi campi, nella sua breve esistenza ricoprirà rilevanti cariche in importanti istituzioni lecchesi: la Cooperativa Case Popolari, la Società del Teatro, la Banca di Lecco.

Ritratto di Giuseppe Ongania

Nel 1895 viene eletto consigliere comunale nella lista democratica e nel 1897 sindaco di Lecco, risultando così, a 27 anni, il più giovane a ricoprire questa carica nella città lariana. Ruolo che esercita fino alle dimissioni nel 1909, con un breve intervallo di due mesi nel 1900, quando viene sospeso dal Prefetto di Como per avere esposto il Tricolore sul Municipio per celebrare il Primo Maggio. Evidentemente, il momento politico non era favorevole alle istanze progressiste, tanto che spesso le feste dei lavoratori venivano vivacizzate dalle cariche della Cavalleria.

Dal periodico lecchese Il Prealpino del 10 maggio 1900: “La sospensione del nostro Sindaco. Bisognava aspettarselo. Il Sindaco di Lecco, ing. Giuseppe Ongania, per il solo fatto di nutrire sentimenti liberi, indipendenti, è stato violentemente sospeso dalle sue funzioni. […] A qualcuno può dar noia, che non tutti i rappresentanti dei Comuni si adattino ad essere servitori ciechi e fedeli degli stipendiati rappresentanti del Governo”. L’episodio assunse una rilevanza nazionale e la stampa, non solo quella socialista e repubblicana, ma anche alcune testate monarchiche, si mobilitò in suo favore. Tutti i commentatori lo definirono un provvedimento grottesco, e il poeta Giovanni Bertacchi il 3 maggio 1900 gli dedicò una composizione ironica intitolata Il Primo Maggio d’una Bandiera, All’Ingegnere Giuseppe Ongania, pubblicata su Il Prealpino.

Risultato: il Prefetto si coprì di ridicolo, il Sindaco venne reintegrato, e la sua popolarità, già molto forte, aumentò ulteriormente.

Grande appassionato di montagna, la figura di Ongania è di grande rilevanza all’interno della vita del CAI Lecco per la strettissima collaborazione con l’amico Mario Cermenati, di cui fu il fedele vice presidente dal 1894 al 1904, assumendo un ruolo di crescente importanza con l’infittirsi degli impegni di Cermenati, che lo portavano lontano dalla città.

Ma va ricordato anche come alpinista, la cui attività, svolta prevalentemente avvalendosi di guide alpine, è ricca di ascensioni di rilievo. Tra queste ci sono numerose scalate su roccia, tanto da poter affermare che è con lui che a Lecco nasce l’alpinismo “tecnico”. Scorrendo l’elenco delle sue salite, ne segnaliamo alcune in particolare.

Nel 1896 compie la prima ascensione della Guglia Centrale della Punta Elsa del Redasco in Val Grosina, con Antonio Facetti del CAI Milano e la guida malenca Enrico Schenatti.

Così ne riferisce sulla Rivista Mensile del CAI: “Partimmo alla chetichella, per rendere meno doloroso e rumoroso il fiasco, non improbabile, che […] poteva attenderci”. La salita si rivela invece una deliziosa arrampicata di roccie, dove lo Schenatti deve montare sulle spalle dell’Ongania per superare un lastrone alto il doppio della guida. I due compagni lo seguono assicurati dalla corda, con i soli calzerotti (per ovviare alla scarsa aderenza degli scarponi chiodati sulla roccia liscia), con i quali terminano la non banale ascensione.

Nel 1898 è la volta della Aiguille Meridionale d’Arves nel Delfinato, del Pizzo Badile e del Cengalo.

Ongania sale all’Arves a luglio con Alfredo Redaelli, il fondatore dell’omonimo vellutificio e fra i più attivi alpinisti lecchesi del periodo, anche se tesserato al CAI di Como, il milanese Antonio Facetti e le guide Alexandre Barthelemy e Alphonse Guille. La via, aperta nel 1878 dalle guide di Grindelwald Almer padre e figlio con un cliente di assoluto prestigio, il reverendo William Auguste Coolidge, uno fra i maggiori alpinisti dell’epoca, presenta uno scorbutico “mauvais pas”, immortalato dalla eccezionale fotografia del Facetti che ritrae i compagni durante la discesa. “Lassù io non potevo portare che una macchina di ben piccole dimensioni; cosicché la veduta […] è il risultato di due lastre riunite e di un forte loro ingrandimento, reso possibile dalla bontà dell ‘obbiettivo che diede nitidi i più minuti particolari”.

Una impresa, quella della fotografia, che ricorda lo scatto epocale della signorina Lily Bristow all’alpinista britannico Albert Frederick Mummery, impegnato sulla “sua” fessura al Grépon nel massiccio del Monte Bianco, il 5 agosto 1881.

Sul Cengalo, il 16 agosto, Ongania, Alfredo Redaelli e lo scienziato di nascita lecchese Bruno Galli-Valerio, accompagnati dalla guida di Agneda Giovanni Bonomi, raggiungono la cresta della “via normale” superando in prima ascensione la parete sud-ovest. I facili pendii sommitali sono difesi da una fascia alta 150 metri di ripide placche di III e IV grado, secondo la valutazione della guida del CAI-TCI di Bonacossa-Rossi, che descrive la via come “interessante e difficile nel primo tratto, dove bisogna scavalcare un blocco strapiombante poco sicuro”.

Nel 1899 torna all’Aiguille Meridionale d’Arves dando prova di un interesse sportivo per l’arrampicata, assai moderno per l’epoca, che va ben oltre la mera collezione di vette. Anche se nemmeno Ongania si sottrae al richiamo dei colossi alpini. Nel 1902 compie diverse salite nel gruppo del Monte Bianco, tra cui la vetta (dove tornerà nel 1906), il Dente del Gigante e le Grandes Jorasses. Nel 1904 sale il Cervino per la Cresta di Zmutt, ascensione anche questa di rilevante valore tecnico, per l’epoca. Sempre nello stesso ambito va segnalata la traversata Charmoz-Grèpon, una grande classica con arditi passaggi su roccia.

La sua figura assunse tale rilevanza nell’ambiente alpinistico lecchese che, mentre era ancora in vita (morirà prematuramente nel 1911) il milanese Eugenio Fasana, uno dei massi pionieri dell’arrampicata nelle Prealpi, gli volle intitolare la sua salita solitaria alla cresta occidentale dello Zucco Pesciola in Valsassina, compiuta nell’inverno 1909-1910, presto divenuta una delle più popolari ascensioni delle montagne lecchesi.

Ma torniamo all’Aiguille meridionale d’Arves attraverso i racconti dell’epoca, per meglio immedesimarci nella scabrosa situazione fissata dallo scatto del Facetti. La via Almer era considerata una delle scalate più impegnative nelle Alpi del Delfinato, ma con una singolare particolarità: sui 400 metri circa di dislivello, le maggiori difficoltà sono concentrate nell’ultimo tratto precedente la vetta. In particolare, sui 15 metri della “cascade pétrifiée”, magistralmente raffigurata nell’incisione di Edward Theodore Compton nel 1895.

Il passaggio iniziale della “cascade”, un lieve strapiombo alto circa tre metri, entra nella storia dell’alpinismo come il “mauvais pas” dell’Arves, come era uso identificare, nella letteratura alpinistica, un punto particolarmente difficile o pericoloso di una ascensione. Il “passaggio chiave”, per dirla in italiano. E quello dell’Aiguille meridionale ne rappresentava alla perfezione il significato, sia dal lato della difficoltà che da quello del rischio; tanto da essere ritenuto ancor oggi di discreto impegno tecnico. VI grado inferiore, secondo le valutazioni attuali.

All’epoca ovviamente una simile difficoltà era insuperabile, soprattutto in piena parete, e si faceva quindi ricorso alla “piramide umana”: il capocordata montava sulle spalle di un compagno, possibilmente alto e robusto, cercando di raggiungere dei buoni appigli che gli permettessero di proseguire autonomamente su terreno più facile. Poi, una volta trovato un buon punto di sosta, una generosa trazione della corda aiutava gli altri a salire. Oggi il passaggio è abbondantemente protetto da dieci solidi ancoraggi distribuiti in 22 metri, senza contare il punto di sosta attrezzato proprio alla base dello strapiombino; ma nelle condizioni di allora, un passo falso nella rocambolesca manovra sospesa sull’abisso, avrebbe avuto conseguenze disastrose per l’intera cordata.

Il disegno Compton raffigura un improbabile punto di assicurazione su una buona cengia rocciosa; mentre la foto ritrae la situazione reale: “senza rete”.

Il mauvais pas della via Almer all’Aiguille Meridionale d’Arves nell’incisione di Compton (ne riportiamo un ritaglio) e in quella di Vittorio Turati apparsa sul Bollettino del CAI, entrambe eseguite a memoria.

Un lungo articolo di Cesare Fiorio, Carlo Ratti e Guido Rey del CAI Torino nel “Bollettino del Club Alpino Italiano” del 1889, ci descrive con grande efficacia le Aiguilles d’Arves e la salita della via Almer. Ma soprattutto ci riporta al clima di quell’alpinismo pioneristico intriso di competizione-collaborazione, dove è essenziale dar conto delle proprie ascensioni con dettagliate relazioni, da un lato per mostrare il proprio valore, dall’altro per rilanciare la sfida ad andare oltre.

Le avevano ammirate in tanti le Aiguilles, sotto il profilo alpinistico, tra cui personaggi del calibro di Horace Walker, Adolphus W. Moore ed Edward Whymper, oltre agli immancabili scienziati che ne rilevarono la strana particolarità della roccia. “Un fenomeno rarissimo, forse unico nelle Alpi, e degno di grande considerazione relativamente alla roccia dominante, un conglomerato grossolano, composto di ciottoli rotolati di roccie [sic] diversissime e di una sabbia granitica, il tutto cementato insieme da carbonato di calce”. C’è un po’ di tutto: diverse varietà di granito, gneiss, porfido; perfino calcare, con resti di fossili marini. Un cocktail minerale per veri buongustai.

Quando l’Aiguille meridionale, un enorme dente roccioso, viene vinta per il versante sud, l’itinerario diventa un punto di riferimento in quel settore delle Alpi. È il ventottenne Rey che racconta l’ascensione compiuta con Fiorio e Ratti, trasportandoci sulla Brèche supérieure, l’intaglio più alto della cresta a una quarantina di metri dalla vetta, in una situazione che oggi definiremmo quantomeno precaria. Difficoltà per nulla banali, grande esposizione, attrezzatura primitiva consistente in corda di canapa e scarponi chiodati, nessun punto di assicurazione… Vietato cadere!

Siamo sulla parete nord-est, su di una sporgenza rocciosa, una specie di cornice larga solo quanto la mano in qualche punto e lunga alcuni metri, il più bel sito che siavi nei dintorni; sopra noi il pendio si drizza bruscamente e forma una muraglia alta circa tre metri, arrotondata al sommo e più che verticale […]. Ai nostri piedi continua un pendio vertiginoso che sfugge subito allo sguardo non lasciando che il vuoto al di sotto.

Sulla cornice […] ci avanziamo dunque per alcuni passi, ma tosto essa si perde, e per proseguire dobbiamo aggrapparci a scarsi appigli […]. Guadagnati pochi metri, Ratti, in testa alla cordata, […] si trova innanzi ad un tratto perfettamente liscio. Spiccando un piccolo salto di fianco riuscirebbe forse ad afferrare un appiglio, ma vi rinunzia perché i compagni, a qualche metro più in basso poggiati anch’essi su piccole sporgenze, non sono abbastanza sicuri per sostenere, nel caso, un urto od uno strappo della corda. […]”. Allora provano con la piramide umana! “Ti giuro che quando tu, Ratti, mi stavi sulla schiena annaspando colle mani la roccia liscia al disopra, io non pensavo né al tuo pericolo, né alla riuscita, ma solo al dolore che mi procuravano sugli omeri le punte acuminate dei tuoi tacchi ferrati”.

Niente da fare. Allora è la volta di Rey, come da prassi nelle cordate di ogni tempo: “io ci ho provato; ora tocca a te”. “Mi tolsi gli scarponi, salii sulle tue spalle (del Ratti…), annaspai io pure per qualche minuto, feci uno sforzo di braccia, ed i miei piedi abbandonarono le tue spalle. Il tratto difficile è lungo circa 15 metri.

A mezza via […] sporge dalla liscia parete uno spuntone, [dove…] riuscii a mettermi a cavalcioni […], e colle braccia e col viso aderenti alla parete, respirai. Ripresa la via, in pochi metri di incertissima arrampicata mi ritrovai al sicuro, e mi rincantucciai in fondo ad una spaccatura, seduto su di una solida pietra”, assicurando la corda ad un’altra sporgenza.

Verso le 4 del pomeriggio inizia la discesa. Nessuna tecnica di corda doppia, nessun chiodo… Almer aveva fissato una funicella “di soccorso” al punto di sosta nella spaccatura, su cui si erano calati a braccia. Ma Rey e soci hanno una corda troppo corta, che devono fissare ad una scaglia circa quattro metri sotto la spaccatura per poter arrivare alla base del passaggio. All’ultimo della cordata tocca così scendere senza assicurazione fino alla corda di calata, ma a questo punto la scaglia dà segni di cedimento e, opportunamente strattonata, cade nel vuoto insieme alla fune “lasciando quel terzo in brutta posizione ridotto a’ suoi propri mezzi. La mancanza totale di sostegni gli rese molto difficile e non scevra di pericoli la discesa”, come si può facilmente immaginare…

La foto scattata da Antonio Facetti che riprende la situazione reale. Due uomini (uno in piedi e uno sdraiato) assistono alla discesa dell’ultimo della cordata che si sostiene alla corda di calata mentre viene aiutato dal quarto compagno.

Dalla foto del Facetti si vede nitidamente la corda per la discesa fissata sul famigerato passaggio.
Da notare che i tre piemontesi in quell’occasione fecero, oltre ad una prestigiosa ripetizione, anche la prima salita senza guide… Senza però averlo programmato. La loro guida infatti, mentre erano in marcia per raggiungere la montagna, una volta che gli venne chiarito l’obbiettivo della giornata, girò sui tacchi abbandonando i signori clienti al loro destino… Ma, in un estremo tentativo di salvare la professionalità, raccomandando loro prudenza.

Il Cervino. A sinistra il tratto sommitale della Cresta di Zmutt, in un classico scatto di Vittorio Sella.
I nomi dei pionieri sulla cresta sommitale del Resegone. E un Dente per Ongania?

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In cammino con i pionieri – 2 ultima modifica: 2024-12-04T05:49:00+01:00 da GognaBlog

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2 pensieri su “In cammino con i pionieri – 2”

  1. E’ doveroso ricordare queste figure che, grazie al loro appezzabile bagaglio di cultura, conoscenze, intraprendenza e impegno, hanno reso un grande servizio alla società e, in particolare all’alpinismo.

  2. Beh, però Ongania ha la sua bella cresta allo zucco Pesciola, li vicino, meta di infinite carovane di persone.

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