Incontri con lo Janak
(sette anni di pruriti per una bellezza himalayana di 7000 metri)
di Andrej Stremfelj
(pubblicato su The American Alpine Journal, 2007)
(tradotto dallo sloveno in inglese da Ana Korenjak)
Ho visto lo Janak per la prima volta nel 2000, mentre ero a capo di dieci ragazzi in una spedizione himalayana. Uno dei nostri obiettivi era lo Janak Chuli ma, arrivati in Nepal, abbiamo scoperto che quella montagna non era ancora nell’elenco delle vette consentite. Dopo l’incidente mortale di Andrej Markovic sullo Jongsang Peak, decidemmo all’unanimità di interrompere la spedizione. Ma, al contrario degli altri che erano ansiosi di tornare a casa per riprendersi dallo shock, io non avevo fretta.
Mia moglie Marija e mia figlia Katarina erano già in viaggio per il campo base, non avrei mai perso l’occasione di scoprire con loro un’altra parte nascosta dell’Himalaya.

Janak si alzava alla fine del Broken Glacier. La parete sud risplendeva nel sole pomeridiano e si vedeva chiaramente una via sul suo pilastro sud-ovest, che portava direttamente in cima. Sono stato subito affascinato dalla montagna, in parte perché la sua vetta di oltre 7000 metri era ancora inviolata. Negli anni successivi, il padre di Andrej, Marjan, mi chiese di accompagnarlo alla tomba di suo figlio, ed io accettai di farlo. Ma purtroppo la nostra spedizione (autunno 2005) fu annullata poco prima della partenza. Avevo intenzione di approfittare di questo viaggio per una breve deviazione allo Janak e avevo preso accordi con un giovane alpinista, Miha Habjan, che aveva dato buona prova di sé sul Dhaulagiri. Dato che entrambi avevamo la mente completamente concentrata sullo Janak, abbiamo deciso di andare comunque.
Dopo essere riusciti su una vetta inviolata, il Lashar I 6842 m, eravamo ben acclimatati, così ci dirigemmo verso lo Janak. Non vedevo l’ora di salire sul pilastro, ma Miha stava lottando con un’infezione alla gola e preferiva una linea più facile che seguiva il canalone sul lato destro della parete. Avremmo avuto bisogno di tutte le nostre energie per una via come il pilastro sullo Janak, quindi abbiamo deciso per il canalone.
Abbiamo salito la parete in giornata, assicurandoci solo sugli ultimi cinque tiri. In cima alla parete il vento soffiava così forte e la copertura nuvolosa era così fitta che abbiamo dovuto abbandonare il nostro piano di proseguire verso la vetta durante la notte. Dato che non avevamo né tenda né sacchipiuma, dovevamo proteggerci dal vento il più rapidamente possibile. Abbiamo passato metà della notte a scavare e l’altra metà a sonnecchiare e tremare in una buca poco profonda. Il sole del primo mattino riempì il mio cuore di speranza. Tuttavia, le nuvole che arrivavano da sud mi hanno subito rimesso i piedi per terra.
All’improvviso, l’unica cosa importante era scendere il più velocemente possibile. Ha iniziato a nevicare dopo la prima doppia, e ben presto le valanghe hanno iniziato a spazzare la parete. Quindici ancoraggi, 15 calate: speravamo solo che alla fine finisse. L’inferno è durato finché non abbiamo raggiunto la parte inferiore della parete.

La decisione di tornare in primavera è stata facile. Avevo promesso di aiutare un gruppo di alpinisti di Novo Mesto che volevano salire ai 7140 metri del Pathibhara Chuli (chiamato anche Pyramid Peak). Naturalmente, volevo anche tentare di nuovo lo Janak, questa volta per il pilastro sud-ovest. Miha e io avevamo imparato abbastanza sulla montagna da sapere che il pilastro era scalabile. Sfortunatamente, Miha aveva altri programmi. E non era l’unico, anche gli altri con cui avrei voluto condividere la tenda sullo Janak avevano già altri piani per quell’anno.
All’improvviso ho pensato a Rok Zalokar. Come capo della commissione per l’alpinismo all’interno dell’Associazione alpina slovena, all’inizio dell’anno gli avevo stretto la mano e gli avevo consegnato un premio per essere risultato il giovane alpinista più promettente dell’anno precedente. Dopo la cerimonia mi ero avvicinato e gli avevo chiesto dei suoi piani. Mi aveva risposto che non aveva niente di speciale in mente; infatti era giunto il momento per lui di iniziare a studiare. Mi ricordai di lui quando avevo quasi disperato di trovare un partner per lo Janak: composi il suo numero telefonico. Fu un po’ sorpreso e iniziò a parlare – a se stesso più che a me – dei suoi studi e della mancanza di tempo per raccogliere fondi. Ho detto che avrebbe potuto continuare i suoi studi dopo il nostro ritorno, ma le opportunità per una buona salita come questa erano rare. Ai soldi avrei pensato io. Promise di rispondermi in via definitiva entro un’ora o due. Non ci volle molto perché mi richiamasse…
I membri della nostra spedizione erano per lo più alpinisti più anziani che non scalavano nulla di straordinario da molto tempo, se mai lo avevano fatto. La loro esperienza riguardava le cime alpine di 4000 metri oppure le facili montagne più alte, come il Kilimanjaro e l’Aconcagua. All’aeroporto, quando hanno incontrato Rok, un appariscente e forte 23enne, hanno tenuto per sé i loro pensieri. Dopo essere diventati amici, Rok ed io ci siamo scambiati le nostre impressioni su quell’incontro e ci siamo fatti una bella risata. Come leader della spedizione, mi aspettavo giorni agitatii per il prossimo mese e mezzo.

Il nostro obiettivo comune era il Pathibhara, una vetta al confine tra India e Nepal, a nord del Kangchenjunga, che era stata scalata solo una volta nel 1993. Sembrava che scalare la montagna per la cresta nord-est oltre la Sphinx, l’anticima di 6825 m sarebbe stato il percorso giusto per la maggior parte dei membri della spedizione. Potevano esserci problemi nella parte alta, ma Rok ed io avremmo sistemato corde fisse per preparare la via agli altri. Stavamo per salire con campi e corde fisse nel classico stile himalayano, che comunque avrebbe permesso a Rok e io di acclimatarci completamente.
In otto giorni da Suketar arrivammo a Pangpema, lì allestimmo il campo base sotto il maestoso Kangchenjunga. Nonostante i miei avvertimenti sulla enormità dei ghiacciai, la maggior parte dei membri della spedizione erano mentalmente impreparati alle dimensioni dell’Himalaya. È diventato subito chiaro che per il nostro gruppo sarebbe stato assai difficile raggiungere la vetta. Il primo a tentarla, il membro più esperto della spedizione, si fermò da qualche parte prima della sella tra la Sphinx e il Pathibhara. Poi è stato il turno di Rok e mio.
La mattina presto abbiamo percorso la cresta della Sphinx. La vista era mozzafiato. Tutte e quattro le vette del Kangchenjunga erano lì davanti, assieme alle possenti sentinelle del Siniolchu a sinistra e dello Jannu a destra. Il Kirat Chuli si ergeva formidabile proprio di fronte a noi, e la catena dello Jongsang era dietro. Il raggiungimento della sella prima del Pathibhara è stato impegnativo e abbiamo sistemato tutti i 200 metri della nostra corda extra. La cresta saliva dolcemente per un po’, poi però si trasformava presto in una sega di denti di ghiaccio affilati. Ho organizzato la protezione del percorso in modo che la corda zigzagasse tra i denti. Dalla vetta nord-est del Pathibhara, abbiamo potuto vedere che la cresta scendeva ripidamente in un intaglio profondo per continuare ancora a lungo verso la vetta.

Era tardo pomeriggio. Dovevamo considerare i fatti e decidere rapidamente. Il resto della squadra avrebbe potuto raggiungere la vetta principale se la via fosse stata completamente attrezzata con corde, ma ciò avrebbe richiesto materiale, energie e tempo che non avevamo. Rok ed io potevamo continuare verso la cima, ma avremmo dovuto bivaccare durante la discesa e non avevamo né attrezzatura né cibo. Saremmo sopravvissuti, ma potevamo dimenticarci lo Janak. La cima era così vicina ed era dura prendere una decisione così difficile. Ci siamo presi il rischio e abbiamo deciso di sacrificare il Pathibhara per il nostro tentativo sullo Janak. Se solo il successo sullo Janak fosse garantito…
Il giorno dopo mi trovai di nuovo in cima alla Sphinx con Marjan, il padre di Andrej, e Borut Novak. Entrambi erano paghi di quella salita con una vista così celestiale.
Il nostro riposo al campo base è durato solo un giorno, e presto abbiamo raccolto attrezzature e cibo su un telo di tela davanti alla tenda. Non sapevamo come sarebbe stato lo Janak in quella stagione; eravamo stati troppo impegnati con il Pathibhara. Ma a giudicare dalle altre pareti della zona, ci aspettavamo di trovare molto ghiaccio e roccia nuda, e quindi un’arrampicata più dura. Avevamo esattamente quattro giorni per spostarci dalla base di Pangpema al campo base avanzato sotto lo Janak, scalare la parete e discenderne almeno la metà. Le previsioni del tempo per il dopo erano pessime e non volevamo incappare in una tempesta come quella che avevo vissuto l’anno precedente.

Dopo aver spostato il nostro campo sotto lo Janak, alla fine del Broken Glacier, ci siamo riposati per un giorno, poi abbiamo impostato la sveglia molto presto, restammo ancora nel dormiveglia per un po’, infine ci precipitammo per partire in mezz’ora. Un’ora dopo eravamo alla base della parete. Ci aspettavamo di avanzare rapidamente sui pendii più bassi, ma invece affondavamo nella neve, graffiavamo il ghiaccio sottostante e ogni tanto trovavamo crepacci nascosti. Più in alto abbiamo trovato risalti di ghiaccio di fusione che presto si sono trasformati in un ripido pendio di ghiaccio, e l’ ci legammo in cordata. Dopo un lungo tiro che abbiamo salito in contemporanea, protetti da due o tre chiodi, abbiamo raggiunto la sommità di una prominente fascia di seracchi e ci siamo presi una pausa.
Seguirono ripidi canaloni con un difficile passaggio difficile su una fascia rocciosa. Ho piazzato una sosta ai piedi di un gradino di roccia più grande. Rok ha superato magistralmente il primo tratto levigato della barriera granitica, mentre io ho affrontato la seconda parte, con parecchi tratti di misto fino all’inizio del nevaio centrale della parete. Abbiamo scalato simultaneamente il pendio apparentemente infinito fino a raggiungere un enorme crepaccio sotto l’ultima parete rocciosa. L’umore è migliorato assai quando abbiamo scoperto una cengia ampia e completamente piatta, dove abbiamo montato la tenda.
È stata una bella serata. Le cime più basse proprio davanti a noi e quelle più alte all’orizzonte perdevano una dopo l’altra il bagliore rosso del sole al tramonto. Venne la notte fredda e colorò il cielo di un blu metallico. Il fornello riempiva la tenda di vapore e di buoni odori di cibo. Ci adagiammo in orizzontale senza materassini né sacchipiuma. La notte è stata sopportabile finché abbiamo cucinato. Ci alternavamo, sonnecchiando e cucinando. Subito dopo aver spento il fornello, il gelo ha cominciato a mordere. Non ci permetteva di dormire in pace. In preda ai brividi, ci rigiravamo da una parte all’altra, da una schiena all’altra. Presto più che dormire fu un continuo muoversi, così siamo tornati a cucinare, cercando di scaldarci. Alla fine arrivò un’alba grigia.
Veli di umidità offuscavano l’orizzonte, ma ci preparammo velocemente per partire e alle 6 del mattino ero in testa sul ripido pendio di ghiaccio sopra la tenda. Finii il tiro su roccia, sotto una fessura ripida. Prima di iniziare questa lunghezza, Rok ha dato un’occhiata dietro l’angolo per vedere se sembrava meglio dall’altra parte, ma è tornato subito. In piena esposizione, ha superato in opposizione il passaggio chiave della via e si è spinto fino a una sosta sul lato destro della cruciale traversata di ghiaccio che avevamo visto dal basso. Quel lungo e stretto pendio di ghiaccio era sorprendentemente ripido all’inizio, con ghiaccio scadente. Due tiri di traversata e discesa hanno richiesto molto tempo ed energia.
Al di là del traverso ci aspettavamo una specie di canalone che ci avrebbe portato su per la parete terminale fino in cresta. Che delusione! Abbiamo dovuto affrontare invece una ripida parete di roccia che, dopo tre tiri di misto difficile, finalmente si è arresa. Lasciamo la corda sotto uno strapiombo di roccia e raggiungiamo la cresta senza fermarci, coperta ormai dalle nuvole che erano arrivate velocemente dal lato tibetano. Cadeva una leggera neve e la vetta sembrava lontana. Più ci avvicinavamo, più forte nevicava. Entrambi riflettevamo in silenzio su come saremmo scesi con quel tempo, e così facemmo il massimo sforzo per affrettarci. Nella nebbia e sotto un’abbondante nevicata, la cresta affilata si è improvvisamente appiattita e abbiamo raggiunto una vetta piuttosto ampia.
Il mio sogno di sette anni si era avverato. Una lacrima di gioia potrebbe essere stata versata dietro i miei occhiali mentre abbracciavo Rok. Un alpinista appena all’inizio della sua carriera, l’altro prossimo alla fine della sua. Siamo stati i primi a salire su questa cima, soli nel mezzo dell’enorme Himalaya, eppure soli solo fisicamente, perché sapevamo d’essere nei pensieri e nel cuore di molte persone a migliaia di chilometri di distanza. Abbiamo utilizzato il GPS del nostro telefono satellitare per determinare la nostra posizione e abbiamo scattato alcune istantanee. Non abbiamo potuto vedere molto. Ad alta voce ricordai ad entrambi che la storia non era ancora finita, non prima di essere scesi di mille metri sull’ampio altopiano del Broken Glacier.
Arrivammo di sera al luogo del nostro bivacco. La corda si era bloccata durante la seconda doppia, ma eravamo riusciti a risolvere velocemente il problema. Ancora una volta abbiamo impiegato parecchio tempo sulla traversata, anche se l’abbiamo percorsa in simultanea. Abbiamo smontato la tendina e siamo scesi nella notte. Quando ho fatto i buchi nel ghiaccio per l’ultima doppia stava ormai albeggiando. Un’enorme nuvola che era apparsa da qualche parte sopra la pianura indiana si sollevò in alto nel cielo e crebbe lentamente verso lo Jannu, come se fosse attratta dalla forza invisibile dei giganti himalayani. Siamo rimasti così colpiti da questo gioco della natura che per un po’ abbiamo dimenticato dove eravamo.
I primi raggi di sole ci hanno colti in mezzo all’altopiano glaciale. La parete dello Janak era ancora in ombra, ma il sole ha riportato in vita le batterie del nostro telefono. Per la prima volta potevamo mandare a casa la notizia del nostro sicuro ritorno. Questa è stata la liberazione per le nostre famiglie ma l’inizio della nostra ultima sofferenza. La nostra concentrazione, così intensa negli ultimi due giorni, si era ridotta rapidamente, mentre ci invadeva la stanchezza e mentre affrontavamo la salita finale alla nostra tenda del campo base avanzato: ci sembrò più lunga ed estenuante dell’intera parete.
Sommario
Area: Janak Himal, Nepal
Ascensione: prima salita in stile alpino dello Janak Chuli 7041 m, per il pilastro sud-ovest (1150 m, IV-V, 60°-70° / III, 45°-55°), Andrej Stremfelj e Rok Zalokar, 5 e 6 maggio 2006. Discesa per la stessa via (19 doppie e disarrampicata).
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bellezza.
A leggere queste avventure viene voglia di ribellione.
Infatti!
Grazie Alessandro.
Per ricordarci ogni tanto che siamo sul blog di un alpinista. Grazie di queste pillole di sana avventura verticale.