Gli inizi della Lecco alpinistica
di Vittorio Pifferetti
(pubblicato su Vita di Club del CAI Lecco, 1° trimestre 1969)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)
II redattore di questo notiziario (Vita di Club, NdR), che ha voluto inserire una rubrica fissa dedicata ad una certa gloriosa epoca dell’alpinismo lecchese, ha avuto la cortese idea di chiedermi di stendere un articolo di circostanza. Fare un esame retrospettivo di quanto il passato ci mette in serbo nella memoria, non è cosa facile, e mentre mi accingo a fare ciò i ricordi che si affastellano in me mi fanno rivivere il susseguirsi degli avvenimenti col più schietto entusiasmo.
Chi scrive, trascorse gli anni della sua gioventù a San Giovanni di Lecco, dove esisteva un Circolo ricreativo denominato “Nuova Italia”, che curava fra le altre cose anche alcune discipline sportive quali il pugilato, la pallavolo e successivamente anche l’alpinismo. Dedito all’alpinismo era un gruppetto di 10-11 persone, fra i quali ricordo Riccardo Cassin, Mario Dell’Oro (alias Boga), Augusto Corti (detto Gusto), Vittorio Panzeri (detto Cagiada), Giovanni Giudici (detto Farfallino), Ginetto Esposito, Ugo Tizzoni, Pino Comi. A poco a poco mi avvicinai anch’io a questi giovani, che erano legati all’amore dei monti con un attaccamento mirabilmente e morbosamente sano, e fui quindi attratto da quella passione che accomuna gli animi e li spinge a grandi aspirazioni.

Riallacciandomi all’inizio degli anni Trenta, mi riscopro colmo di liete rimembranze e di intense soddisfazioni. Rivedo gli allenamenti ginnici che si svolgevano nel salone da ballo della “Nuova Italia”, ed al cui esercizio partecipavamo noi rocciatori unitamente ai pugili. Rivedo i miei primi cimenti con la roccia, anzi la prima arrampicata che effettuai con Ugo Tizzoni e Farfallino Giudici. Rivedo i miei costanti progressi di rocciatore quando, dopo aver percorso tutte le vie normali della Grignetta, ero promosso dagli altri componenti del gruppo a capocordata.
Rivivo i miei sforzi, per arrivare a questo ruolo, diretti a vincere le difficoltà, a realizzare ascensioni con mete sempre migliori, tra le quali ricordo le prime assolute alla Guglia De Amicis, nei Cadini di Misurina, alla Cima del Bancòn, in Civetta, al Corno del Nibbio e al Torrione Palma in Grignetta, al Campanile San Pietro, sul San Martino, al Pizzo d’Erna, quest’ultima con Augusto Corti (capocordata) e Angiolo Longoni. Poi la prima ripetizione della via Castiglioni-Kahn, alla parete ovest, della Torre Venezia, in Civetta.

Riscopro che tutto questo aveva pienamente soddisfatto la mia passione alpinistica e che il mio animo era felice di un sentimento vero, per l’amicizia sincera ed umana che basa la sua essenza nella reciproca stima, nella bontà e nell’indomito entusiasmo per la montagna. Un’amicizia alla luce del sole, nell’abbagliante splendore delle vette, senza distinzioni e differenze, senza antagonismi. È superfluo soffermarsi sul fatto che allora disponevamo di una rudimentale attrezzatura, come è sintomatico ricordare che allora i chiodi venivano fabbricati da noi stessi e che ci servivamo di pesanti corde di canapa e manila, calzavamo più paia di calzettoni di lana anziché gli scarponi con suole di Vibram e che non esistevano staffe e chiodi a pressione. Intendo soffermarmi su come invece era fatto il regolamento in vigore alla “Nuova Italia”, che tassativamente prevedeva che ogni componente del gruppo doveva sottoporre all’approvazione di Cassin, già allora caposcuola con una spiccata personalità, la salita che avrebbe inteso effettuare. Come pure per divenire capocordata bisognava essere qualificato dalla ripetizione di tutte le vie normali della Grigna ed essere ritenuto all’altezza in base alle qualità messe in mostra nelle varie prove, in seguito alle relazioni che i compagni di cordata o gli eventuali osservatori esprimevano sul conto dell’interessato. Così ognuno si formava gradatamente a valutare le ascensioni che doveva affrontare, in quanto bastava che uno da primo della cordata non superasse con padronanza di se stesso una via per venire relegato a compiti di retroguardia meno impegnativi. Si usciva alpinisti completi, all’altezza di ogni evenienza. Dovevano bastare i chiodi già in parete per ripetere una determinata via: se uno ricorreva a piantare un chiodo per trarsi d’impaccio, incorreva in una sanzione di carattere tendenzialmente sportivo. Con questi sani principi si diventava un capocordata, e in pratica ogni cordata si avvaleva di rocciatori che potevano alternarsi ed in ogni eventualità guidare la progressione dell’arrampicata. Cosi si tempravano il fisico nella fatica per l’ascensione, si acquistava il senso delle proporzioni in rapporto alla morfologia e alle difficoltà delle pareti.

L’esuberanza dei miei anni verdi veniva così soddisfatta: un desiderio di emulazione, un entusiasmo prorompente, ideali puri e ardimentosi, appagavano pienamente la mia grande passione.
Con questi ideali si costituì un gruppo, i cui componenti non chiedevano di meglio che passare i più bei giorni in montagna. Era un gruppo affiatato, che si sentiva in festa soltanto nel trovarsi assieme: sono amicizie che durano tuttora e che si manifestano ad ogni incontro, anche se le vicende della vita ci hanno in parte dispersi e ci tengono separati. In questa maniera si formò a Lecco una culla dell’alpinismo, una scuola che si elevò ad accademia con il nome degli alpinisti che uscirono ed escono dall’inestinguibile vivaio. Rivangando queste indimenticabili giornate di montagna e di amicizia, che hanno forgiato in me un carattere forte e perseverante, con rinnovato piacere rievoco un giorno di festa per me. il primo agosto 1935, sulla parete est-nord-est del Corno del Nibbio settentrionale si tracciava una nuova via: i miei compagni di cordata erano Emanuele Pelizzari e Vittorio Ratti.
Per dovere di cronaca dirò che lo stesso itinerario era stato invano tentato da Erminio Dones. La via, conosciuta come la “Ratti”, si stende a sinistra della via Cassin, e dopo una serie di crepe oblique, presenta una fessura verticale e profonda. Si tratta di una via giudicata estremamente difficile: V con passaggi di VI.
Affrontiamo la parete di primo mattino disposti con Emanuele Pelizzari capocordata, Vittorio Ratti in seconda posizione e quindi io. Non eravamo ancora giunti alla prima fermata che un volo di Emanuele, con conseguente contusione alla nuca, lo inducevano a cedere il comando a Vittorio Ratti che lo avrebbe tenuto fino alla vetta guidandoci nella conquista. Rimango ancora oggi ammirato di quanto ho visto compiere in questa ascensione da Vittorio Ratti, un alpinista che avrebbe raggiunto poi traguardi luminosi.
Rivedo le sue movenze, il suo fisico possente nella muscolatura del torso e delle braccia, il suo caratteristico ed elegante destreggiarsi sulle fessure e gli appigli della via al Nibbio, quando si sforzò con la sua audacia e abilità, la sua potenza ed arte, a superare il passaggio chiave. Rivedo in quel passaggio i suoi vigorosi assalti, i suoi muscoli compressi nello sforzo e madidi di sudore; risento risuonare con felicità il martello sul chiodo che tiene e che ci permette di avanzare.

Vittorio Ratti rimane un maestro inimitabile dell’alpinismo lecchese, una figura di portata leggendaria. Vorrei che ognuno che ripete la sua via al Nibbio si soffermasse a ricordarlo, che i giovani sapessero di quale tempra era forgiato Vittorio Ratti, che valutassero quali eccezionali qualità di alpinista ed uomo possedesse.
In questa salita io ebbi solo una parte marginale, infatti mentre Ratti si dibatteva per un periodo di tempo non sicuramente valutabile, me ne stavo seduto in fermata su uno spuntone di roccia che aveva tutta l’intenzione di trafiggermi i glutei. Essendo di carattere allegro e espansivo, replicavo alle scherzose battute degli amici che ci seguivano con lo sguardo dal basso, fra i quali Riccardo Cassin che incitava il suo pupillo Vittorio Ratti. Vera gioia e le più pure soddisfazioni provai per aver potuto dare spontaneamente ed entusiasticamente all’impresa il mio modesto apporto. Ero contento per aver contribuito al superamento di un severo banco di prova per Vittorio Ratti, che apriva il ciclo delle sue conquiste folgoranti anche su pareti lunghissime che rispecchiano mirabilmente la personalità e non solo la forza o l’ardimento, ma anche l’intelligenza dell’Uomo.
Ho parlato di questo, perché su questa parete, tracciando una via nuova, ho dato sfogo alla mia passione, alla mia maniera di intendere l’alpinismo, a quella tecnica del giusto e del piacevole, senza l’artificiale nel quale è caduto questo sport negli ultimi anni. Mi sento fiero dei miei giorni passati in montagna con gli amici, perché l’amicizia ha costituito la base di ogni mia attività.
Ho arrampicato con gioia, nell’atmosfera di una passione comune, per la piena soddisfazione dei miei ideali. Per questi ideali la montagna mi ha attratto e mi dichiaro ora contento nel senso più completo della parola per l’attività che vi ho svolto, conservando sincera ammirazione per i Cassin, Boga, Ratti, Vitali, Esposito, Tizzoni, ecc. che più di me hanno dimostrato di saper fare.
A me basta affermare che di questi giorni mi nutrirò negli anni tristi dell’incipiente vecchiaia, sopportando l’inesorabile legge del tempo, come allora sapevo sopportare e dimenticare le fatiche, gli sforzi, i rischi, per conquistare la montagna.
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Bellissimo articolo-racconto che fa capire molto bene il perché dell’alpinismo e le sensazioni che si provano. Complimenti!
Molto interessante questo articolo notiziario di Vittorio Pifferetti sull’ inizio della scuola dell’alpinispmo lecchese.
Grazie