Intervista a Matteo Della Bordella

Intervista a Matteo Della Bordella
a cura della Redazione di Lo Zaino
(pubblicato su Lo zaino n. 18, autunno 2022 e su sassbaloss.com/lozaino)

Il suo stile parla chiaro. Basta dire by fair means per capire di cosa stiamo parlando: solo mezzi leali, nessun artifizio. La più bella dichiarazione d’amore che un alpinista può fare alla montagna. È questo l’approccio di Matteo Della Bordella al mondo verticale. Ritenuto uno dei più forti alpinisti della sua generazione, Matteo scopre la bellezza dell’arrampicata durante l’adolescenza, quando insieme al papà Fabio si diverte in falesia tra prese e appigli arrivando ad affrontare il mitico Pesce, in Marmolada. Ma l’avventura, quella con la A maiuscola, arriva quando i Ragni di Lecco (di cui sarebbe poi diventato Presidente) lo invitano a diventare parte del gruppo. I Ragni sono un gruppo di élitari scalatori cresciuti tra la Grigna e le montagne limitrofe. Alpinisti visionari, che negli anni hanno tracciato linee superbe sulle montagne più belle del Pianeta. Le stesse di cui si sarebbe innamorato Matteo quando, nel 2011. raggiunge per la sua prima volta la Patagonia. L’obiettivo? L’apertura di una linea sull’allora inviolata parete ovest della Torre Egger, l’ultimo grande problema della Patagonia. La salita gli richiede tre spedizioni, la costanza e la capacità di continuare a perseguire un certo tipo di strada senza lasciarsi abbattere dai continui fallimenti cui la parete lo sottopone.

Dopo sono venute altre linee, tutte tecniche e difficili, tra Patagonia, Himalaya e Alpi, dove lo spazio esplorativo esiste, ma richiede occhi esperti. Matteo oggi è una conferma per l’alpinismo italiano, grazie alla sua attività continua che ogni anno lo porta in spedizione alla ricerca di nuovi obiettivi e nuove linee ancora da tracciare. Chi, se non un alpinista così attivo e in continua ricerca, può fornirci un quadro su quello che è lo stato dell’alpinismo italiano oggi?

Matteo della Bordella con Arianna Colliard in cima al Naranjo de Bulnes (Picos de Europa).

Matteo, partiamo da una considerazione generica. Negli ultimi vent’anni hai visto cambiare qualcosa in Italia?
Quando ho scelto di dedicare la mia vita professionale al mondo dell’alpinismo c’erano meno ragazzi tra i 20 e i 30 anni in giro con progetti e realizzazioni interessanti. Oggi è più facile trovare compagni di cordata o essere coinvolti da idee nuove e fresche, semplicemente perché è cresciuta la comunità.

Sicuramente negli anni ho visto crescere il numero degli appassionati praticanti e con loro è cresciuto anche il livello, sia quello tecnico, sia quello legato alla scelta degli obiettivi. Basta guardare a quest’ultima estate per comprendere quanto il livello sia alto.

In arrampicata in Canton Ticino sulla via Leap of Faith al Poncione d’Alnasca.

Cosa intendi?
Ci sono state tante spedizioni interessanti. La cordata valdostana che con una semplicità disarmante ha raggiunto gli Ottomila, con le salite in velocità di François Cazzanelli. Quella di Francesco Ratti, Alessandro Bau e Leonardo Gheza, che ha aperto una nuova via sulla parete est dell’Uli Biaho Spire, in Karakorum. E ancora Federica Mingolla e Niccolò Bartoli partiti alla volta del Kirghizistan, dove hanno tracciato un nuovo itinerario su big wall. Ma anche la nostra spedizione in Perù, con la SMAM (Sezione Militare di Alta Montagna).

Quattro spedizioni, con quattro obiettivi di prestigio anche a livello internazionale. Anni fa, se tutto fosse andato bene, ne avresti avuta una o al massimo due.

Secondo te a cosa va il merito di questo? Una migliore comunicazione?
In realtà trovo un sempre maggior distacco tra la percezione e la comunicazione dei veri valori alpinistici. Per spiegarmi meglio, trovo che ci sia una sempre maggior separazione tra chi realizza salite interessanti e chi invece riesce a raggiungere un pubblico mainstream grazie alla comunicazione. Sono molti gli alpinisti italiani, oltre a quelli già citati, che ogni anno terminano la stagione con un curriculum ricco di realizzazioni. Molto spesso però la maggior parte rimane argomento di discussione tra noi del settore. Mentre altre prestazioni, molto meno interessanti, riescono a raggiungere un vasto pubblico, grazie a un grande lavoro di comunicazione. Ecco, trovo che ci sia una separazione sempre più grande, come se fossero due mondi completamente diversi. Qualche anno fa questa era meno marcata, forse anche perché le realizzazioni erano numericamente inferiori.

Questo può avere delle conseguenze?
Nel settore no, ma agli occhi di un appassionato esterno a questo mondo può avere un’influenza importante. Perché diventa difficile distinguere tra le varie salite, tra quelle che effettivamente meritano un posto nella storia dell’alpinismo e quelle che, pur rimanendo prestazioni sopra la media, non portano a una crescita o a uno sviluppo dell’ambiente alpinistico italiano. Ma, al contrario, porta a un inaridimento dell’ambiente.

Se esiste un colpevole, a chi va imputata la colpa?
È colpa di tutti. Sia nostra, che a volte non badiamo molto agli aspetti comunicativi, sia dei giornalisti che dovrebbero avere le competenze per distinguere tra una salita e l’altra senza inseguire le mode o i nomi del momento. Credo sempre più fermamente che la crescita non arrivi dal business, ma dalla voglia di ingaggiarsi con qualcosa di nuovo e ancora sconosciuto. Secondo me è questa la chiave a cui dovremmo guardare per scovare nuovi talenti e per trovare una crescita alpinistica.

Pensi esista un divario tra il livello italiano e quello estero?
No. All’estero ci sono tanti forti alpinisti, ma noi in Italia abbiamo tutte le capacità per fare qualcosa di bello, e lo facciamo! La differenza principale che noto tra Italia ed estero sta proprio nella comunicazione: gli alpinisti più comunicati sono anche quelli che effettivamente lavorano per portare qualcosa di nuovo, per innovare questo mondo.

Basta guardare alla comunicazione di Alex Honnold, il suo livello è altissimo, così come la sua comunicazione è ormai globale. Dovremmo prendere spunto, mentre a livello di capacità non abbiamo nulla da invidiare.

Andiamo verso la fine di questa intervista. Cosa vedi nel domani dell’alpinismo italiano?
Sicuramente oggi è più facile trovare compagni di cordata con cui condividere progetti, anche impegnativi. Già solo una decina di anni fa trovare la giusta persona era molto più difficile. Se poi penso a tutto il movimento e guardo quante proposte di spedizioni ricevo ogni anno, non posso che essere felice per la frenesia con cui tutto si sta muovendo. È come se avessimo messo l’acceleratore e penso che per un bel po’ di anni ancora andremo avanti in un crescendo di opportunità.

Una tua sensazione o motivata da qualche esempio? Si possono solo ipotizzare risposte. Può essere una moda?
Per qualche ragione le persone sentono l’esigenza di andare in montagna, di scoprire cosa si cela oltre i boschi, sulle pareti verticali, io penso che i numeri continueranno a crescere ancora, ma potrei anche sbagliarmi. So anche che, come avviene in tutti i campi, prima o poi la curva raggiungerà il suo apice e inizierà a scendere. Ovviamente spero di no, ma spero anche che l’alpinismo mantenga la sua sfera, sicuramente più allargata, senza diventare così mainstream come il calcio.

Sul Cerro Torre lungo la via dei Ragni. Foto: Nicola Lanzetta.

Secondo te il CAI può essere un valido aiuto per i giovani che vogliono approcciarsi al mondo verticale?
Per iniziare sicuramente sì, può avere un ruolo centrale. Nel CAI ci sono tante scuole con istruttori esperti e preparati, oltre ai numerosi corsi di avvicinamento offerti dalle sezioni. Quando però, con tutte le conoscenze e l’esperienza del caso, si iniziano a immaginare salite di alto livello credo che si debba andare con le proprie gambe. Quello che il Club Alpino potrebbe fare è la creazione di corsi per giovani che già hanno un buon livello. Una sorta di scuola di alta specializzazione alpinistica, che permette a questi ragazzi di formarsi e magari raggiungere il traguardo di una spedizione extraeuropea. Non è un’idea innovativa, ma qualcosa che già esiste in Austria, Svizzera, Spagna e molti altri Paesi con risultati ottimi. Questo permette di scovare nuovi talenti e di offrire loro la giusta formazione per inseguire la loro passione alla ricerca della via meno battuta.

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Intervista a Matteo Della Bordella ultima modifica: 2023-01-24T05:34:00+01:00 da GognaBlog

8 pensieri su “Intervista a Matteo Della Bordella”

  1. Interessante questo Nicolini, che non conosco. Mi è simpatico. Su Il Dolomiti c’è una sua intervista? Sai/sapete darmi gli estremi (numero, giorno, pag, ecc). Grazie mille!

  2. TRENTO. “La miapassione per la montagna è nata alla vista delle Pale di san Martino: mi hanno fatto lo stesso effetto d’una bella ragazza, rapendomi”. Li riassume così, Remo Nicolini, i suoioltre 60 anni trascorsi fra vette e sentieri per vivere “il vero spirito dell’alpinismo, all’insegna della lentezza ma soprattutto dell’osservazione. Ho conosciuto tanti nuovi amici e fatto esperienze messe a poco a poco in un bagaglio, che tutt’oggi continuo a riempire”, anticipa l’oggi 80enne a Il Dolomiti. 
     
    “Un tempocamminare in montagnaera visto come una perdita di tempo. Prezioso tempo che veniva tolto al lavoro – esordisce Nicolini -. Guardando indietro però, possiamo dire che quello fosse un atto eroico, perché ci si incamminava (dopo aver letto una guida ndr) con la voglia di scoprire le montagne e le loro vie, all’insegna dell’avventura. Oggi, tutto è cambiato e quegli stessi monti percorsi decine e decide di anni fa sono divenuti palestre dove gli sportivi, non più alpinisti, fanno a gara a chi arriva per primoo a chi rischia di più”, premette.
     
    Quello di Remo Nicolini, trentino classe 1943 e storico presidente della Sosat(Sezione operaia società alpinistica tridentina) è un modo di camminare “lento – rivela -. Alzo lo sguardo verso il cielo, seguendone i cambiamenti.Osservo il mondo intorno a me e continuo a stupirmi – racconta l’alpinista -. L’alpinismo è per me un sentimento che pervade l’animo, un qualcosa di profondo e moltolontano dalle ‘performance’ odierne, vissute all’insegna di quella stessa rapidità che caratterizza la società moderna”.
     
    Scalare per dire di averlo fatto, fotografie degli ‘influencer’ in vetta postate sui social in direttissima e recensioni di “rifugiche ormai sono grandi hotel: ecco, cos’è diventata la montagna oggi – aggiunge Nicolini -. Non ci sono più quei ricoveridove un tempo ci sitendeva la mano fra ‘compagni’, ci si aiutava e si seguivano i grandi nomidell’alpinismo con la voglia di imparare sempre più.Niente brioches o leccornie, perché unpasto caldo, qualche chiacchiera e una canzone cantata con allegria erano il modo migliore per coronare una bella giornata trascorsa in vetta”, sottolinea.
     
    “Quei rifugi oggi non esistono più, o almeno non così come erano un tempo: io, per quanto, possibile cerco di evitarli tutti – ribadisce l’alpinista e scalatore -. Luoghi, ora, non più abitati dallo spirito umano ma da numeri: niente più atmosfere gioviali e condivisione, con tanto di gestori che cercavano un posto ‘comodo’, per modo di dire, dove farti dormire. Sempre più spesso, soltanto cellulari e la pretesa di essere trattati, appunto, come nei grandi alberghi”.
     
    La montagna non è più la stessa, e a sostenerlo, fra i vari, è anche Nicolini, che molte vette del territorio le frequenta letteralmente da una vita: “Prima dell’avvento della tecnologia, quando partivamo lo facevamo non sapendo molto. Si procedeva lentamente, si valutava cosa fare e i rischi passo dopo passo – prosegue -. Se necessario, si tornava indietro, perché le escursioni un tempo non erano una gara. Ora la tecnologia dà tante sicurezze, fa usare meno il ‘cervello’ ed eliminaquel fattore ‘avventura’un tempo assicurato”. 
     
    Poche certezze ma tanta voglia di scoprire il mondo: “Questo ha significato inevitabilmenteavere paura, tante volte – ammette – ma sono convinto che non esista alpinista senza paura.L’importante è sapersi fermare e valutare, riflettere, un po’ come quando ci fa male qualcosa: “Come mai mi fa male?”, ci chiediamo. Così si deve fare con la paura: valutarla, comprenderla e agire con fermezza, altrimenti si rischia di farsi assalire dal panico”.
     
    “Ammetto di avere un po’ di nostalgiadei tempi andati ma non condanno la tecnologia che io stesso, sebbene in maniera ‘primitiva’, utilizzo: sono per la giusta misura, in tutto. In questi anni,non ho mai smesso di camminare, ho solo cominciato a ritarare un po’ le mie camminate, vista l’età – conclude Nicolini -. Ho compiuto 80 anni da pochi giorni ma posso dire che, nonostante lamente inizi un pochino a vacillare e lamemoria ogni tanto venga meno, il corpo sia ancora allenato, riuscendo ancora a fare giri lunghi. Poco fa ho fatto un’escursione di 10 ore con 2000 metri di dislivello: tanto per dire che l’amore e la voglia di andare in montagna, credo,non me li toglierà mai nessuno

    no, dai, per fortuna non tutto è venduto


     

  3. Insomma vuole dire che non esiste più l’alpinismo in quanto mera conquista dell’inutile, ma solo un alpinismo (che sia di punta o di quotidianità, dettato dagli sponsor e dalla necessità di portare a casa la pagnotta ???? ….pecà. 

  4. Intervista che non rende giustizia al personaggio di Della Bordella che meriterebbe sicuramente di più. Ma che forse non è interessato ad apparire più di così perché impegnato nelle scalate più che sui social.
    Vivendo di alpinismo gli sponsor ti obbligano a un minimo sindacale (loro vorrebbero comunque molto di più, sempre) di presenza sui social. Se gliene dai a palate (i casi non mancano) diventi subito famoso e anche se fai cose da nonnetta, tipo le normali agli 8000, acquisisci enorme risonanza presso il pubblico poco o per nulla specializzato.
    Nell’alpinismo ci sono sempre stati quelli che alle chiacchiere preferiscono l’azione e sono sempre più forti di altrettanti personaggi famosi.
    E’ un po’ come succede per l’informazione mainstream che non vuole faticare a cercare notizie approfondite e magari scomode a scapito di un pubblico credulone che si accontenta.
     
    Chi si accontenta gode, dice un proverbio, e se proverbio è divenuto è perché abbracciato da una grande moltitudine.
    E se uno vuole soffrire invece di godere? Questione di gusti. 
    Si prende il proverbio di poc’anzi e si cambia il secondo verbo. Vedrete che il significato ne viene stravolto. Ecco, è quello che fanno gli alpinisti curiosi, esplorativi, impopolari e, proprio per questo, di punta.
     

  5. MdB è uno straordinario alpinista completo su tutti i terreni e i suoi successi parlano da soli. Etica, umiltà, empatia ma soprattutto sconfinata passione e talento fanno di lui una delle più grandi figure di spicco di questo terzo millennio. Nutro per lui una sincera e sconfinata stima. È un autentico interprete dell’alpinismo classico in chiave moderna.

  6. Garbo, stile, umiltà, tanta ma proprio tanta capacità e altrettanta fantasia.
    Sono anni che seguo gli sviluppi dell’alpinismo di Matteo. Ed è un po’ come uscire dalla tenda una bella mattina di sole, su un gran balcone di cime innevate.
    Matteo e le sue salite, le sue avventure, sono un po’ come un sabato in montagna. È buffo, lo so. Ma sento una gran tranquillità nel partecipare, in video o solo sulla carta, all’alpinismo di Matteo.
    Viva i Ragni!

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