Intervista ad Alessandro Gogna su Gian Piero Motti (RE 017)
di Carlo Caccia
(Questa intervista servì per un articolo di Carlo Caccia sull’annuario Vertice del CAI di Valmadrera, 2003. Su questo blog, qualche risposta è già stata pubblicata nel post https://gognablog.sherpa-gate.com/la-via-di-gian-piero-motti/)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
Come lo hai conosciuto?
Il 15 gennaio 1967 Paolo Armando ed io (che nelle vacanze di Natale avevamo salito in seconda invernale la via Ottoz-Viotto al Dente del Gigante) avevamo pernottato in una malga sotto l’Uja di Mondrone (Val di Lanzo). Mentre stavamo per partire, ecco che arrivano direttamente dal paese tre alpinisti torinesi: Ilio Pivano, Sergio Sacco e Gian Piero Motti. Io non conoscevo nessuno, solo Motti di nome, più che altro perché me ne aveva parlato Paolo (anche se in realtà l’avevo già sfiorato il dicembre precedente, in Grigna). Paolo invece, torinese, li conosceva bene tutti e, come al solito, ne diffidava. Ma quella volta accettò di buon grado la loro compagnia, perché naturalmente, la meta era la stessa, la via di Guido Rossa alla parete nord dell’Uja di Mondrone. Dopo un’oretta eravamo all’attacco, ed io iniziai per primo. Faceva un freddo siderale, ricordo alla fine della prima lunghezza, una “bollita” alle mani storica davvero. Ma poi prendemmo il ritmo e salimmo tutti e cinque fino in cima, arrivando al paese verso le otto di sera. All’osteria ci ripromettemmo di rivederci, cosa che avvenne solo il 2 luglio 1967, quando scalammo assieme sulla Parete dei Militi (Valle Stretta), via Gervasutti di destra. Qualche giorno dopo ci fu lo storico tentativo di ripetizione della via Gervasutti alla parete est delle Grandes Jorasses (12 luglio 1967): tornammo indietro battuti da ripetute scariche di sassi, davvero pericolose. Per rifarci scalammo, il 17, la via Ratti-Vitali alla Ovest della Noire.
Di cosa parlavate abitualmente?
Ovviamente di alpinismo, il discorso sarebbe lungo, anche perché corredato da lettere che ci scrivevamo. Soprattutto di salite in programma, ma anche ci complimentavamo l’un l’altro per le salite che intanto facevamo con altri. Poi volevamo scrivere la monografia sulla Torre Castello (Rocca Provenzale), cosa che poi in effetti facemmo. Naturalmente, passando gli anni, crescevamo e quindi tono e argomenti di discorso subirono grandi evoluzioni. Come maschietti eravamo abbastanza arrapati, perciò i discorsi, specie in compagnia di altre persone, spesso avevamo un senso decisamente unico…
Domanda aperta: il cammino di Gian Piero, dalle “Riflessioni” ad “Arrampicare a Caprie”.
Il suo cammino fu decisamente personale, lo definirei “lucidamente visionario”. Al tempo dei Falliti o delle Riflessioni era solo un individuo che si faceva delle domande serie sul suo passato e sul suo presente, spostandole come è ovvio anche nel campo dell’alpinismo in generale. Sentiva che molto del suo comportarsi fino ad allora risentiva del comportamento generale degli alpinisti; sentiva che molto del suo sentire e della sua passione originaria era andato modificandosi per seguire i dettami del tempo. Era sensibile, perché buon ascoltatore, e capiva al volo le cattiverie e le bontà: delle prime soffriva molto, in privato. Poi, in pubblico, regalava a qualcuno del sano cinismo. La svolta ci fu dal 21 al 25 giugno 1975, quando ebbe, ricercata, un’esperienza visionaria nella sua amata Val Grande (Lanzo). Dopo di allora, dapprima tutti gli amici, ma poi anche estranei, sentirono che quell’uomo aveva “visto” di più degli altri, che “sapeva” più degli altri. È naturale che altri ancora, refrattari, sviluppassero per Gian Piero una vera e propria insofferenza.
Fu un rivoluzionario?
Sì, del tutto rivoluzionario, nel profondo. Ciò contrastava con il suo comportamento, la sua borghesia ostentata, il suo intellettualismo non di sinistra, il suo vestire sempre in ordine. Soprattutto dava fastidio il suo non lavorare e non studiare più, quasi avesse capito l’assoluta inutilità, nel suo caso, dello studio e del lavoro: un individuo cioè che aveva trovato cose più importanti cui pensare, che sapeva che il suo cammino era individuale, improponibile ad altri se non a chi fosse andato in precedenza incontro ad esperienze come la sua. E del resto, non gli piaceva fingere.
Cosa rappresentava per lui una salita?
Nei primi anni, prima dei Falliti, una salita era l’azione, era il suo modo di realizzare la sua passione per la montagna, per la natura e per l’avventura. Più o meno allo stesso modo di tanti. In seguito, da una posizione di assoluto rifiuto dell’alpinismo, come di chi non ne vedesse più l’utilità, passò ad una graduale rivalutazione (e quindi ad un forte riavvicinamento all’attività alpinistica) dell’idea di salire sportivamente e con difficoltà sulle montagne. Per lui un’ascensione divenne il riproporsi cadenzato e metodico di un simbolo a tinte fortemente religiose, anche se non nel senso tradizionale del termine “religione”. Era l’ascesi dell’anima verso Dio (ove per Dio s’intenda qualcosa di ben diverso dal Dio tradizionale, non solo cristiano).
Quanto i suoi scritti dicono di lui? E quanto resta invece nascosto?
I suoi scritti dicono di lui molto più di quanto sembra a prima vista. I piani su cui scriveva erano SEMPRE due. Ciò non toglie che molto non abbia mai avuto il coraggio di scriverlo e se lo sia tenuto per sé. Al massimo si lasciava andare a qualche lungo discorso con amici, cui rovesciava nel profondo dell’anima cose che ti rivoltavano come un calzino.
Qual era il suo ideale di vita? E il suo ideale di famiglia? E, ultimo, il suo ideale di alpinismo?
Credo di dover rispondere a queste tre domande rifacendomi all’ultimo periodo. Il suo ideale di vita era semplicemente che ciascuno doveva trovare il suo. Lui lo stava facendo davvero, con grande impegno. Famiglia? Non credo che avesse una grande opinione della famiglia, così come normalmente s’intende. Alpinismo? Un mezzo per raggiungere l’illuminazione e la verità per alcuni, per altri un gioco al massacro, per altri un divertimento tipo hobby, per altri ancora una vera e propria dannazione. A ciascuno il suo alpinismo, ecco il suo ideale.
Come vedeva il mito californiano?
Fu uno dei principali promotori del mito californiano, un prezioso alleato per movimentare l’establishment del tempo. Qualunque cosa fosse “diversa” serviva per rompere il quadro precostituito in cui vedeva agitarsi la maggior parte degli alpinisti.
Dove nasceva il suo desiderio di indagine storica?
L’indagine, più che storica, era semplicemente un’indagine. Gli storici (o meglio i cronisti) fino ad allora avevano registrato degli avvenimenti, magari polemizzando sulle performances (Rudatis, Preuss, ecc.), ma nessuno aveva mai scritto una “storia” dell’alpinismo tentando di attribuire agli avvenimenti un fine, un disegno, o magari semplicemente di definire delle espressioni di comportamento. Ecco perché indagine. Duecento anni di alpinismo la ponevano qualche domanda o no sul perché. Non bastava più Mallory a spiegarci che si va sui monti perché “sono là”.
Secondo te, come mai Gian Piero ha optato per una lettura psicanalitica della storia dell’alpinismo?
NON RISPOSTO, per errore.
Gli studi: che opinione aveva della scuola istituzionale?
Nessuna opinione in particolare. Credo inquadrasse l’istruzione in un disegno più vasto, ideato apposta per ostacolare l’evoluzione dell’umanità. Questo disegno per lui era necessario come ostacolo da superare. Senza ostacoli da superare non ci si evolve.
Come venivano accolti i suoi articoli?
I detrattori sbuffavano e urlavano al profeta maledetto e bugiardo; i sostenitori li leggevano beati capendone il 50%; infine, quelli che non capivano niente, facevano spallucce e giravano pagina.
La fine: era prevedibile?
Sì.
Hai dei ricordi particolari?
Di che cosa, della fine? Non credo sia giunto il momento per parlarne.
Cosa pensavi, negli anni Settanta, del “Nuovo Mattino”? Come l’hai visto andare a finire?
Anch’io sono stato affascinato dalla nuova Weltanschauung, più o meno in contemporanea a Gian Piero. In seguito, nel 1980, ho dato corpo a queste nuove acquisizioni culturali e comportamentali tramite i 100 Nuovi Mattini. L’ho visto andare a finire sul patibolo dell’arrampicata sportiva, come del resto ebbe il tempo di vedere anche Gian Piero. Tutto Arrampicare a Caprie verte su questo tema, la morte del Nuovo Mattino.
Gian Piero: è ancora un mito per le giovani generazioni?
Non lo so, non credo. Non mi piacerebbe però che il suo esempio e il suo insegnamento fossero ripresi ancora con le stesse modalità del passato. Fu frainteso una volta e potrebbe esserlo di nuovo.
Le “Antiche sere”, ossia la sintesi felice. Motti, ad un certo punto, si è trovato di fronte a qualcosa di irraggiungibile?
Forse le “Antiche sere” sono una contemplazione dell’irraggiungibile, l’annullamento dell’Io di fronte alla grandezza del Mistero. Nella nostalgia del tempo in cui, vivere nel Mistero, era la normalità.
Profilo psicologico del personaggio.
Questa è una domanda difficile, perché non voglio e non posso inquadrarlo in definizioni psicologiche. Posso dire solo che era un uomo impegnato in una lotta totale, un uomo che aveva capito che la salvezza non poteva venire dall’alleanza con gli altri. Perciò era forte, volitivo, testardo sulle cose che gli interessavano; disinteressato alla stragrande maggioranza delle cose; la donna spesso era uno strumento per concedersi un simulacro d’estasi (fisica o psicologica) che gli serviva per riconoscere meglio, in un successivo momento, la vera estasi.
Com’era con gli amici? E con i genitori?
Simpatico e affabulatore con gli amici, talvolta un vero profeta. Con i genitori, l’unica che contava era la madre. Era riuscito a far accettare il suo disinteresse per la laurea e per il lavoro. I pochi lavori remunerati che fece (articoli, ecc.) non li prese mai come una scusa per dire che in realtà lavorava anche lui.
Come vedeva i grandi del passato?
Passava da una profonda ammirazione (Gervasutti) alla dovuta considerazione per i meriti alpinistici, in una scala assai variegata e complessa. Credo però che leggere attentamente la sua “Storia dell’Alpinismo” risponda alla domanda meglio di quanto possa fare io. In ogni caso non si soffermava mai solo sulle imprese, voleva sempre conoscere le motivazioni e le inseriva nel contesto storico. Come del resto fa qualunque vero storico che non sia proprio nella tradizione di Tacito. La Storia dell’Alpinismo non bisogna leggerla solo in chiave psicoanalitica: ci sono ricerche e annotazioni culturali e di ambientazione che esulano totalmente dall’ambito psicologico.
Quali erano le sue letture preferite?
Francamente non ricordo. Era però di sicuro abbastanza onnivoro: una cosa di cui sono certo è che aveva letto più di un libro di Freud, cosa che secondo me, forse per inconscia contraddizione, lo spinse ad intraprendere un cammino personale e psicologico molto simile a quello di Jung.
Come lavorava ai suoi scritti?
Sempre di pomeriggio, talvolta di sera, mai al mattino. Al mattino dormiva sempre fino alle 11 o anche oltre, perché diceva che i sogni “forti” vengono sempre e solo al mattino.
Che Pier Verri sia un eccellente non si discute.
Sì Paolo, decisamente non ti stai spiegando o comunque non ci stai riuscendo. Perché l’unico che qui ha fatto una “brodaglia” sei stato tu, con questi commenti volatili e privi di fondamento. Ti sei messo a sputare sentenze senza dare una concreta giustificazione circa le tue valutazioni, come se fossi in possesso di una verità che ti autorizzi a farlo.
E che ti autorizzi anche ad etichettare come banda di massificati e mercificati, chi non la pensa come te. Quando non sai quali possano essere i riferimenti di ciascuno: sia che siano i più alla portata di mano, o altri che magari nemmeno tu conosci (ma non sia mai che dall’alto del tuo scranno tu possa dubitare che esista un mondo che sia diverso da quello che è alla tua di portata) Più che di vero alpinismo (utilizzo il minuscolo, perché non sia mai che la cosa mi possa essere contestata) il sapore che percepisco è quello di un vecchio alpinismo. Fatto di posizioni autoreferenziali e di invidie.
Paolo, quando per te un alpinista è degno di questo appellativo, insomma è eccellente??
Sì, proprio non riesco a spiegarmi.
Gabriele, ho scritto eccellenze, veri (non VERI), magari volevo scrivere verri… per te guai a prenderli come riferimenti, sembra che l’esempio debba essere preso da altri, forse quelli più a portata di mano?
Alessandro cerca sempre di fare ottima cultura alpinistica, almeno per me, non fa mai brodaglie insapori e con pochi contenuti adatte alla massa di bocca buona che capisce poco di alpinismo, ma forse fra poco dovrà adattarsi al mercato anche lui.
E con il perentorio “gli alpinisti VERI” di Paolo, ce ne possiamo tutti tornare indietro di 50 anni con un solo balzo. Fortunatamente Alessandro è stato più lungimirante affermando che ” Fu frainteso una volta e potrebbe esserlo di nuovo.”…con amarezza e tristezza occorre constatare che ha avuto ragione. Che grandissimo peccato.
Auguro a Ugo per gli 80 anni di restare fantasioso come lo è sempre stato anche nei suoi anni di alpinismo.
Ho capito e non dirò più niente, non mi aiuta a capire.
So che se non lodo il Motti tante persone si sentono offese, lui è un mito della cultura alpinistica divulgata e massificata, ma non riesco, per me non c’è nulla di alpinistico da imparare da lui, solo qualche suo ragionamento è molto bello.
Gli alpinisti veri ne fanno di più profondi e complessi.
E vi assicuro che da loro c’è sempre da imparare nuove “cose”.
Uno degli “eccellenti” mi ha detto che ci sono persone che brillano di luce propria, molte altre per brillare hanno bisogno di scrivere libri e guide e richiamare l’attenzione mettendosi di continuo in mostra.
Grazie a tutti.
L’informazione di Ugo mi è graditissima: è anche per questo che leggo il GognaBlog.
Invito chi conosce fatti inediti a renderli pubblici quando se ne presenti l’occasione, come in questo caso.
Così tutti potremo sapere e imparare.
Premesso che non mi sembra abbia senso fare una classifica del livello di bravura come fosse una questione di muscoli, dei personaggi del passato, ma a mio avviso conta in primo luogo quello che hanno lasciato per gli altri.
Comunque io quelli “delle nostre parti” citati li ho conosciuti tutti e posso puntualizzare alcune cose: mi sono trovato a scalare di fianco alla cordata Machetto Motti e posso assicurare che Guido cedeva molto volentieri il comando della stessa a Gian Piero. Sempre tra quelli “delle nostre parti” di quel periodo credo che il più forte di tutti sia stato Giorgio Bertone e mi ricordo bene quando con il suo accento un po’ da valligiano mi disse della salita fatta con Gian Piero dello spigolo degli scoiattoli alla cima Ovest di Lavaredo <<Quel diavolo di Gian Piero passa dappertutto con una facilità che io mi sogno>>
Ognuno da il valore che crede alle parole.
Ripeto da bravo a mediocre ce ne corre.
Dei latini poi, mi interessa poco. Spesso usare le loro definizioni mi sa di puzza sotto al naso.
Motti oltre ad essere un bravo alpinista e arrampicatore, era anche un uomo intelligente che si faceva delle domande
Gli ECCELLENTI come li chiami tu, se le fanno ?
Per me no, i bravi stanno a metà, come i mediocri.
“Aurea mediocritas” dicevano i latini e anche “la virtù sta nel mezzo”.
Le eccellenze sono altra roba, quasi non si sa più chi siano, da anni se ne stanno nascosti per non essere massacrati dalle masse dei brocchi che amano mettersi in mostra 🙂
Fabio, negli anni settanta quelli che scalavano alla grande erano altri, mi vengono in mente dalle sue parti Macchetto, Armando, Calcagno, Cerutti, Grassi, Comino…
Lui era di sicuro fra i bravi, ma come lui ce ne erano tanti.
Paolo, un alpinista che, a ventitré anni, sale il Pilastro Gervasutti al Tacul in prima ascensione solitaria non può certo essere mediocre. Senza contare tutto il resto.
Non credo che sia stato questo il suo messaggio. Forse solo ad una lettura superficiale.
ottima regola.
Però…… mi sembra che ti sei già fatto una convinzione su di lui dal momento che lo definisci “MEDIOCRE”.
Sei sicuro che fosse un alpinista mediocre???
ci hai arrampicato insieme?
lo conoscevi così bene?
Grazie, leggo informazioni di tutti i generi sul Motti, qui se ne parla sempre tanto, ma non riesco ancora a cambiare l’opinione di alpinista mediocre e uomo fallito che mi ero fatto su di lui quando ero giovane, negli anni settanta.
L’ho sempre visto come il “vate” della morte dell’alpinismo italiano di alto livello mondiale, per sostituirlo con quello massificato.
E talvolta mi sembra di sbagliare, anche perché tante persone lo stimano.
Cercare di conoscere e di capire è la mia ferrea regola di vita.
Resta il mistero.