Ipertecnologismo – 1 (nella pratica) (1-2)
(Il morso dell’iper-tecnologismo)
di Carlo Crovella
(scritto il 4 dicembre 2017)
Lettura: spessore-weight**, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**
Dopo una lunga fase di siccità, è finalmente tornata la neve. Si apre quindi una nuova stagione di sci: gli appassionati di gite e discese fuori pista sperano che sia lunga e ricca di successi. I media si scatenano subito a paventare il rischio valanghe, sono passati in un batter d’occhio dalla mancanza di acqua al crollo di immensi pendii.
In effetti, da appassionato scialpinista di lungo pelo, ho percepito che gli incidenti da valanga sono aumentati in modo significativo negli ultimi 10-15 anni circa. Non solo gli incidenti da valanga, ma un po’ tutti gli incidenti in montagna, e in più il trend riguarda gli eventi fatali. Ma il fenomeno è particolarmente accentuato se ci limitiamo al coinvolgimento di sciatori negli smottamenti di neve.
Anticipo una serie di obiezioni dei lettori. La principale: gli incidenti sono aumentati perché è vistosamente cresciuto il numero di sciatori fuori pista (scialpinisti, freerider, seguaci dell’eliski, ecc.), con l’aiuto della facilitazione offerta dagli sci larghi e sciancrati rispetto alle sigarette dei decenni scorsi. Più praticanti uguale più incidenti, a parità di loro incidenza percentuale, verrebbe da concludere.
Questa tesi ha un fondo di verità, ma non è l’unica ad agire. Gli incidenti coinvolgono sempre più spesso i cosiddetti esperti: guide, istruttori titolati, soccorritori del CNSAS (in uscita privata). Insomma: persone che dovrebbero muoversi a occhi chiusi nella montagna invernale e che, invece, incappano in errori inspiegabili. A questi incidenti si aggiungono poi quelli di sciatori alle prime esperienze fuori pista, subito impegnati in pendii e canali al limite del ribaltamento.
Se si analizza la dinamica degli incidenti, quasi sempre la variabile chiave è costituita da errori umani, spesso incomprensibili se letti a tavolino, a maggior ragione se commessi da personaggi di esperienza. Tagli allucinanti di pendii, discese in canali carichi come uova, orari completamente errati e contro-natura: insomma una vera sfida alle leggi della montagna. Ma come detto, anche i novellini si macchiano di tali errori e quindi c’è un tema trasversale che sta coinvolgendo un po’ tutti i frequentatori della montagna innevata.
Possiamo dire che, oggi, c’è un “tarlo” sottostante che accomuna questo trend nefasto. Giornalisti ben più accreditati di me lo hanno individuato nella cosiddetta overconfidence, l’eccesso di fiducia in se stessi e la conseguente sottovalutazione dei pericoli. A me piace chiamarlo “il morso dell’iper-tecnologismo”.
A mio modesto parere esiste un sotto-meccanismo ancor più subdolo e ingannevole. Viviamo in una società complessiva che da un lato spinge al limite (per vivere momenti adrenalinici, in stile “no limits”: era uno slogan pubblicitario – orologi – già negli anni ’80-90) e dall’altro inventa patacche tecniche e tecnologiche in nome di una presunta sicurezza anche in condizioni limite. Quindi la società spinge al limite e illude che anche al limite ci siano prodotti della società che proteggono.
Il fenomeno è generalizzato in tutta la società attuale. Mi ha colpito la recente pubblicità di un’istituzione di gestione dei risparmi, dove è riportato uno slogan del tipo: “usa il rischio a tuo vantaggio”. Come flash per rendere l’idea la pubblicità accompagna il messaggio con l’immagine di un alpinista appeso alla corda. Il quadretto è sintomatico per sottolineare che nell’odierno immaginario collettivo la montagna è uno dei contesti riconosciuti in cui si “ricerca il rischio”. Lo si ricerca per dominarlo. Tutta la montagna è considerata come il palcoscenico del rischio, ma ovviamente la montagna invernale (aggiungendo le tematiche legate agli smottamenti nevosi) conquista l’oscar del rischio cercato e domato.
Al contrario di questa impostazione, la saggezza dei nostri Maestri ci ha insegnato a “muoverci in montagna evitando i rischi”. Solo che nell’attuale paradigma consumistico e narcisistico, “evitare i rischi” non suscita nessuna attrazione, anzi è quasi una patente da sfigato, altro che da uomo no limits!
Ecco allora due sotto-conseguenze. Da un lato si registrano torme di freerider o scialpinisti improvvisati che, spesso alla loro prima discesa fuori pista, cercano immediatamente l’adrenalina dei 40° o 50° gradi di pendenza. Dall’altro, come accennato, sempre più sovente sono i cosiddetti esperti che commettono errori incomprensibili.
Dopo lunghe riflessioni credo di aver individuato il “Cavallo di Troia” che consente la diffusione di questo errato approccio alla montagna, specie invernale: la tecnologia. O meglio: la tracotanza che subentra grazie all’essersi dotati di ogni strumento tecnico e tecnologico.
Non a caso il fenomeno agisce in misura esasperata proprio nella versione invernale, poiché la tecnologia (in particolare se di natura elettronica) confluisce nell’invenzione di aggeggi che dovrebbero proteggere dal rischio valanga. Non mi riferisco soltanto ai cosiddetti artva (Apparecchio Ricerca Travolti da Valanga), giunti ormai a sofisticatissime versioni digitali, ma anche a una pletora di altri marchingegni: zaini airbag, gps con traccia pre-definita, app che consentono di verificare in che punto ci si trova (ad essere sinceri, questi ultimi mi appaiono più che altro dei braccialetti elettronici imposti a chi sta in libertà vigilata) e chi più ne ha più ne metta.
Tutto questo armamentario ottunde il lavorio del cervello umano, che è invece la vera chiave di volta della sicurezza in montagna. La tecnologia sta “rimbambendo” gli scialpinisti: spesso mi capita di vedere gente che fa gite seguendo pedestremente l’itinerario GPS scaricato sul cellulare, gli occhi fissi sullo schermo, i sensi completamente narcotizzati… non sentono i rumori del manto nevoso, non avvertono se tira vento o meno, e da che parte tira, non si rendono conto (guardando il sole) dell’orario, non focalizzano neppure se stanno tagliando un pendio o se stanno camminano su un crinale… Con tali presupposti, è evidente che spesso si trasformano in vitelli destinati al macello…
Invece il bello dell’andare in montagna (specie con gli sci) è salire e scendere muovendosi nel modo “giusto” rispetto alle condizioni del momento. Concetto che comprende anche l’ipotesi di tornare indietro e/o di non partire proprio. Ma questo, come abbiamo visto, cozza con la spinta adrenalinica e consumistica della attuale società.
Ecco spiegata la principale origine di errori altrimenti incomprensibili: sulla neve si sale e si scende a ogni ora del giorno e della notte (mentre la montagna ha i “suoi” orari e non i “nostri”), ci s’impegna in canali ripidi anche se ha tirato vento per tutta la notte (con immensi accumuli che ci aspettano), si compiono discese mozzafiato in pieno inverno (quando occorrerebbe attendere l’assestamento primaverile).
Tutto ciò è psicologicamente permesso dalla (falsa) sicurezza di essere “protetti” grazie alla gabbia tecnologica in cui ci si infila. Scatta un meccanismo inconscio del tipo: sono “corazzato” e quindi faccio quello che dico io e come lo voglio fare io, mentre invece se fossi nudo e crudo dovrei adattarmi alle leggi della montagna, sapendo muovermi fra le variabili naturali del rischio.
Mi torna in mente un concetto vecchio come il mondo, perché già elaborato dai greci antichi: l’ìbris (ὕβϱις, hýbris), cioè la tracotanza. Anche gli eroi, reduci da mille battaglie, non sanno resistere alla tentazione di sfidare gli dei e gli dei li puniscono con eventi naturali (naufragi, tempeste, arsure irresistibili). Oggi l’ìbris ha radici di natura tecnologica e corrobora la sensazione di onnipotenza dell’uomo contemporaneo.
Per focalizzare meglio l’effetto perverso attualmente dominante, ho coniato il già citato neologismo: l’iper-tecnologismo. Intendo quell’atteggiamento psicologico e ideologico per cui brillano gli occhi nell’aver fra le mani l’ennesimo gioiellino tecnologico, mentre ci si dimentica di quelle che sono le regole di base della montagna.
Ipotizzate di ispezionare lo zaino di un qualsiasi sciatore dei nostri giorni: troverete la pila? Penso proprio di no, eppure il rischio di fare tardi, se non addirittura di bivacco forzato, esiste eccome, a maggior ragione nelle corte giornate invernali. Troverete forse due o tre paia di guanti? Oppure il telo termico? Non parliamo poi di cibo e acqua di riserva, e meno che mai di una candela con fiammiferi antivento. Tutti questi eroi dello sci “veloce e feroce” sanno per caso riparare un attacco rotto? Sanno rattoppare una pelle squarciata da una pietra? Nel loro zaino hanno il coltellino svizzero con pinze varie oppure una pelle di ricambio? Vi lascio immaginare la risposta…
Invece sono capacissimi di portare con loro zaini ultima generazione con airbag in nome della sicurezza (?). Si tratta di zaini che costano parecchie centinaia di euro (anche 1.000!), hanno una tara di 2-3 kg (per tutto l’ambaradan dell’airbag) e per i quali le statistiche segnalano che circa un terzo dei travolti si sono dimenticati di tirare la maniglia dell’airbag (!). In effetti nel marasma emotivo di uno smottamento nevoso, non è da tutti mantenere la lucidità e compiere i gesti necessari con freddezza e distacco.
Nonostante i miei 56 anni anagrafici, ho sul groppone almeno 50 stagioni di montagna (e di scialpinismo in particolare), per iniziazione familiare. Appartengo quindi a una visione che oggi viene percepita come obsoleta e stantia. Eppure non me ne vergogno e sono stufo e disgustato dall’attuale trend in atto.
Per cui urlo senza paura: “Basta con l’iper-tecnologismo!”. Torniamo a un approccio “nudo e crudo” alla montagna: sono convinto che il numero di incidenti diminuirebbe, proprio perché non uscirebbe neppure di casa chi oggi, cadendo nella trappola dell’ìbris tecnologica, si lancia in discese improvvisate o tirate per i capelli.
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Vorrei tornare agli incidenti da valanga provocata, (tanti o pochi, non fa differenza) che coinvolgono esperti!? La neve e le valanghe hanno azioni ecumeniche, cioè le valanghe non guardano in faccia a nessuno, disse qualche cosa del genere molti anni fa Andrè Roch. E l’eccesso di tecnologia centra fino a un certo punto. Posto che la tecnologia non riesce ancora (né succederà nel vicino futuro) a esplorare le profondità del manto nevoso per dirci se un pendio è stabile o meno, la tecnica invece può già molto. Attraverso la conoscenza di uno degli svariati modelli di valutazione (sono almeno 4 in Europa e un paio nelle americhe), tutti figli del metodo di valutazione globale del pericolo valanghe di “san Werner Munter”, diffuso a partire da metà degli anni ’90 e ancora oggi il migliore. C’è da chiedersi dunque se questi modelli siano conosciuti e applicati, anche dagli esperti. C’è da chiedersi se vengano ancora insegnati (posto che lo si sia mai fatto) nei corsi del CAI, nei corsi guida o tra i tecnici del CNSAS. Se poi si possano diffondere e applicare attraverso le famigerate macchinette, tanto meglio. Insomma la tecnologia c’è e ci condiziona, ma sta alla nostra coscienza ricondurla alle sue reali funzioni.
Io non mi riferisco a nessuno in particolare e non accuso nessuno. Osservo soltanto come si è evoluta la società italiana in questi ultimi quaranta anni, anche il cai fa parte della società italiana, e anche tutti noi. Non so se si possa vivere meglio, so solo che la società italiana ha quasi del tutto abbandonato una valutazione meritocratica degli individui e preferisce avere rapporti clientelari o nepotistici e se non riesce in questo si struttura con certificazioni e garanti, costruite da burocrati che nulla hanno a che fare con le problematiche che regolamentano. Mi spiace se si sente offeso, ma tutti noi facciamo parte della stessa società e dobbiamo cercare di rendercene conto se vogliamo fare qualcosa per farla crescere in maniera positiva, non in maniera parassitaria come oggi si preferisce fare per semplice comodità: ci si impegna personalente molto poco, si usano solo le parole certificate che si sono imparate.
E ci sono gli alpinisti che non vanno in montagna, che devono affidarsi agli aspetti tecnico-tecnologici per riuscire a fare qualcosa e per salvare pelle e reputazione. Sono questi ultimi che sono certificati, ascoltati e quasi sempre insegnano perchè spesso non andando in montagna hanno più tempo e voglia. Ma è la società che si basa sul “volontariato” e pochissimo sulla professionalità, quella capace nevvero, non quella certificata (qui da noi gli ordini professionali, e non tali, addirittura si autocertificano)
Non so a chi Lei alluda ma lanciando accuse così pesanti penso sarebbe onesto dire apertamente a chi lei si riferisca.
Se poi per volontariato Lei si riferisca alle scuole del CAI mi permetto di dissentire completamente.
Cominetti dici proprio bene, avevo provocato, accettare se stessi penso sia la cosa più difficile della propria vita, bisogna conoscersi, ma se non si cerca di farlo si rimane sempre nel dubbio di saper fare qualcosa di proprio, si rimane indecisi e incapaci nel nulla. Direi che si resta deboli. Però bisogna riconoscere che per la società si è buona carne da macello e da consumo.
Rileggendomi mi é sembrato che possa essere stato frainteso. Io apprezzo il progresso e quando, e se serve, lo uso volentieri.
Panzeri sono pienamente d’accordo con quanto scrivi ma non direi che essere felici con se stessi accettandosi per come si é, sia cosa così scontata…
Si parla muro contro muro. Ci sono gli alpinisti che vanno in montagna e sanno che tutto dipende dalla propria testa e dalle proprie conoscenze e capacità. E ci sono gli alpinisti che non vanno in montagna, che devono affidarsi agli aspetti tecnico-tecnologici per riuscire a fare qualcosa e per salvare pelle e reputazione. Sono questi ultimi che sono certificati, ascoltati e quasi sempre insegnano perchè spesso non andando in montagna hanno più tempo e voglia. Ma è la società che si basa sul “volontariato” e pochissimo sulla professionalità, quella capace nevvero, non quella certificata (qui da noi gli ordini professionali, e non tali, addirittura si autocertificano). Qui da noi vige “l’ignoranza e l’incapacità” come esempio da rispettare, lodare, seguire e premiare e se poi sono bravi a mettersi in mostra e pontificare allora sono il massimo. Non capisco perché la maggioranza delle persone non riesca ad accettare se stessa e viva infelice e frustrata …. basta così poco!
Direi che Benassi ha sintetizzato le ragioni di chi sta da questa parte di opinione. Chi non apprezza le innovazioni tecniche e tecnologiche che il progresso ci ha dato? Nessuno di noi direi. Ma sono le sensazioni che può dare e la profondità nel rapporto con madre natura che si annacquano pericolosamente quando invece di sviluppare il nostro istinto si prende la scorciatoia offerta dalla tecnologia.
L’esperienza (e manco quella a volte basta) si ottiene con tanto tempo e pazienza e oggi nessuno pare avere piú né una né l’altra. Sembreranno discorsi da vecchi ma a tutte le età è importante portare a casa la pelle.
Però in pratica cosa si fa?
Si porta in giro gli allievi senza “marchingegni”?
Io no!!!!! In caso di incidente ( e può capitare anzi sappiamo tutti che è capitato) sia che tu sia Guida o Istruttore ( e mi riferisco ad una delle ultime sentenze del tribunale di Milano dove l’Istruttore è stato equiparato alla Guida come responsabilità) qualcuno potrebbe chiedere: ma dal punto di vista tecnico è stato fatto tutto il possibile?
Sinceramente Giacomo, io sono un istruttore di Alpinismo del CAI dal 1984 e sono ancora oggi in attività nei vari corsi che organizza la mia scuola. L’anno scorso ho fatto l’aggiornamento periodico. Quindi come potrei negare che il miglioramento delle attrezzature e delle varie tecniche di assicurazione e di progressione, hanno porato ad un maggiore livello e una maggiore sicurezza.
Su questo non ho dubbi. Perchè non sono ne cieco, ne retrogrado e nemmeno fuori dal tempo.
Tutto questo però non mi impedisce di notare un eccesso nell’appoggiarsi a queste tecnologia.
Io ho imparato a scalare su ghiaccio verticale con gli attrezzi a manico dritto e con le le viti che per avvitarle ci voleva il terzo attrezzo e 2 mani. Ma non per questo rifiuto quelli di adesso curvati e riconosco il loro vantaggi tecnici e anche di sicurezza. Stessa cosa dicasi per i ramponi. Te li farei vedere i miei primi ramponi che mi regalò un mio caro amico e maestro!! che adesso non c’è più.
Tutto questo però non mi impedisce di notare che oggi c’è un eccesso di appoggio alla tecnologia. Per me tendiamo troppo a sostituire il nostro istinto, la nostra capacità di fiuto, con la tecnologia. E questo, a mio parere, oltre ad essere brutto, freddo e distaccato, è anche pericoloso. Perchè ti fa credere di essere più bravo di quello che sei in realtà.
Prendi questa APP che ti dice questo. Prendi quest’altra che di dice quest’altro. Accendi il GPS che ti dice il percorso, i metri, i passi, la fatica che fai, le calorie che hai consumato, ect. ect.
Per rispondere un po’, ma a modo mio. Io sono molto contento perché posso fare ancora quasi tutto quello che facevo a 30 anni grazie alle nuove tecniche e ai nuovi sistemi di allenamento e gli sci, le scarpette, le corde…. con le picche e i ramponi faccio molto di più, purtroppo la testa non è più quella di quando ero giovane e accetto con maggiore difficoltà certi rischi. Vedo però che le vie che salgo ora, ma anche quelle che avevo salito, vengono salite poco dai più giovani di me e spesso impiegano più tempo o giorni di me, talvolta chiamano l’elicottero, anche su quelle cosiddette moderne e ben attrezzate…… e io sono vecchio e mi ritengo mica tanto bravo. Basta vedere anche solo l’attività dei nuovi accademici, quasi tutti, per vedere che di persone capaci ce ne sono proprio poche e le altre si affidano a “congegni” per passare fuori in qualche modo. I tempi son cambiati, son passati tanti anni e ora mi diverto soltanto….. per le vie di ottavo devo avere un socio che mi tiri su, quelle di settimo c’erano già, quelle di nono son per la mia prossima vita. Però devo ancora provare a bucare!
Ignorando per un attimo la tangente di pessimismo cosmico con l’uomo schiavo delle macchine – che certamente merita un’interminabile discussione a se’ stante – riprovo a tornare sul contenuto dell’articolo.
Si declinano sentimenti ma non si spiega quali tecniche sono nefaste e perché’. Per altro le statistiche non sembrano confermare i sentimenti.
L’impressione e’ che qualcuno scelga un tempo t “che segna la sua epoca”, congeli le tecniche disponibili a quel tempo e decida che tutto quello che viene dopo sia superfluo o addirittura dannoso.
Con questo modo di procedere possiamo per esempio decidere che l’abbigliamento moderno e’ esageratamente comodo, i ramponi e le piccozze moderne troppo efficaci, le scarpette di arrampicata troppo precise eccetera.
Il movente potrebbe sembrare un non ben compreso “fastidio” nel vedere altri che agiscono in maniera diversa da quello che noi abbiamo definito essere lo standard. Di qui a forzare allarmi di abuso della tecnica, perdita del contatto con l’ambiente eccetera
E’ davvero un problema? O forse il pessimismo cosmico e’ la chiave di tutto?
Rispondo a Matteo, in maniera telegrafica.
Quanto riportato nell’articolo viene riassunto nel paragrafo “conclusions”, di cui riporto:
” ii. The number of fatalities in uncontrolled terrain almost
doubled between the 1960s and the 1980s. Since then,
numbers have remained relatively stationary with no
further significant increase, despite a large increase in
the number of winter backcountry recreationists.”
Quindi, Matteo, non c’è, dal 1980 ad oggi, significant increase of the number of fatalities.
Se sei ulteriormente interessato, scaricati dal sito di Aiut Alpin qualche dato, e, curiosamente, noterai lo stesso pattern.
Ciao
Facendo automazione e sviluppando tecnologia, arrivavo dallo sviluppo dei primi pc, avevo come primo obiettivo quello di fare in modo che anche le persone (sia operai che tecnici) stupide o ignoranti potessero servirsene e fare facilmente quelle cose per le quali i prodotti erano stati pensati e costruiti. Dopo alcuni anni di sviluppo gli stupidi e gli ignoranti che li usavano producevano di più e gli intelligenti di meno: gli stupidi eseguivano senza porsi dei problemi…… i prodotti ormai erano troppo complessi e interconnessi. Con le belle interfacce che avevamo pensato si divertivano e giocherellavano pensando di saper fare le cose, ma era ormai tutto centralizzato.
Infatti !!
Molti dicono i computer ci hanno semplificato la vita. Le digitalizzazione renderà tutto più semplice.
A me non sembra che sia proprio del tutto così.
Per come la vedo io, stiamo noi diventando schiavi delle macchine. Dobbiamo ragionare ed agire come la loro tecnologia vuole.
Vai in banca , il computer non va…non puoi fare più nulla. Tutto bloccato. Siamo totalmente dipendenti di una macchina. Senza poi considerare quanto questa macchina rende la vita più frenetica.
Dobbiamo trasferire tutto questo anche nell’alpinismo?
Bella questione.
A mio parere c’è una serie di nostre espressioni che corrispondono a poche motivazioni tutte di ordine emozionale.
Paura, curiosità, emulazione, affermazione.
Sono comuni a tutti, le prime tre e anche al genere non umano, ai cosiddetti animali.
Tecnica e tecnologia, da non intendere come sinonimi, ne sono una conseguenza.
La tecnica corrisponde a un fare, la tecnologia fa.
Da qui, come per i campanili, che ogni paese vuole più alto del vicino, la tecnologia ha soddisfatto aspetti di peso, tra cui, qualcosa in cui credere.
Per molti corrisponde al progresso.
È luogo comune sentire affermazioni univoche sulla bontà della tecnologia.
Più raro è incappare in quache voce che abbia riconosciuto quanto la tecnologia da servizio sia divenuta da servire.
La situazione è a gorgo.
Anche chi a suo tempo avrebbe rinunciato a mangiare la mela, ne è a sua volta coinvolto.
Intorno al totem della tecnologia danzano tutti, inebriati, in attesa del nuovo modello.
La distanza dal punto di origine è tale che gli applausi, la standing ovation, la ola sono sì ancora per la bellezza, ma non più per quella di una rossa foglia d’autunno, ma per la “auto-automobile”.
Ogni tanto penso che per limitare la propria “animalità” l’uomo abbia sviluppato la tecnologia. Facendo così però ha perso in proporzione la propria capacità di “sentire” il mondo che lo circonda. Spesso si preferisce, o magari è più comodo, essere degli squilibrati, sia con se stessi sia con gli altri?
Giacomo, senza voler essere talebani, che non riconoscono che un certo progresso nelle attrezzature ha permesso più prestazioni e più sicurezza. Una eccessiva tecnologia rovina il rapporto con l’ambiente. Tende ad annullare questo rapporto che deve essere carnale, diretto tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda. Il pericolo va respirato, l’istinto non va represso. Bisogna imparare a leggere l’ambiente , è così che si impara a viverci, a venire fuori da certe situazioni. La tecnologia deve essere secondaria, può essere un aiuto ma non la base. Quando leggo su certe relazioni di vie della copertura cellulare, sinceramente mi viene da ridere.
Ma cercare di essere piu’ specifici? A me continua a non essere chiaro dove la tecnica ( tecnologia per l’autore ) sia di troppo, negli esempi citati nell’articolo.
Gli sci di nuova generazione? Una maggiore efficacia e’ dannosa? Dobbiamo continuare a spaccarci le gambe con gli attacchi vecchi?
L’arva? Roba data per scontata da ormai 30 anni? L’airbag? posso capire chiedersi in quali situazioni davvero aiuta ( a sopravvivere )… Ma induce a sottovalutare i rischi? Forse in persone assolutamente prive di sensatezza… Ma in questi casi e’ davvero la tecnica il problema? I gps ? Null’altro che una versione moderna delle carte topografiche. L’uso o non uso e’ essenzialmente questione di gusti.
Nessuno degli strumenti citati deroga alla valutazione delle condizioni meteo, dei manti nevosi, e del tempo. Quindi perche’ dare la colpa alla tecnica?
Personalmente non ho esperienze recenti in Italia. Io frequento Alta Savoia e Svizzera Occidentale. Non mi pare di notare scialpinisti malcapitati con tanti gps e poca cognizione di causa. La gita con gli sci e’ un fatto estremamente comune e popolare. Non e’ percepito come un’attivita’ per pochi eletti. Gli itinerari classici sono frequentatissimi, capita di vederci famiglie. In Svizzera ci sono molti turisti con le guide. Dove per turista si intende semplicemente un non-locale senza un curriculum da piolet d’oro… E non un idiota patentato.
Insomma, tutto questo trend preoccupante non lo vedo. Ma devo essere l’unico, in quanto l’approvazione del testo e’ unanime…
La soluzione a tutti i problemi delle discipline alpinistiche sarà la “cintura antigravitazionale”, spero almeno regolabile in intensità.
Evidenziare i limiti dell’ipertecnogia significa prendersi del passatista retrogrado. La fascinazione collettiva per l’ultimo ritrovato tecnologico non risparmia i professionisti e non mi stupirei se tra i requisiti indispensabili che attestano la professionalità delle guida vi sarà a breve un power bank da 15000mAh da tenere nello zaino.
L’approfondimento e la ricerca di solidità tecniche e razionali è soverchiante, mentre troppo spesso ci scordiamo l’importanza delle altrettanto fondamentali e complementari competenze non tecniche legate al fattore umano.
In ogni caso gli ambienti naturali resteranno ancora luoghi incerti e variabili ad ogni passo, impossibili da governare con qualsiasi scorciatoia tecnologica e da sottomettere a qualsiasi calcolo predeterminato.
Sono pienamente d’accordo con l’autore dell’articolo (uguale a decine di altri presenti in questo blog), tranne quando si meraviglia del fatto che molti esperti restano coinvolti in incidenti. Intanto distinguiamo tra Istruttori a vario titolo (tutti dilettanti) e membri del CNSA. Oltre a molti validi membri di questa inutile congrega (ho già scritto molte volte che il CNSA dovrebbe sparire e il soccorso dovrebbero farlo i militari che si addestrano per questo gravando-giustamente- sulle nostre tasche) ne conosco moltissimi che con la montagna si danno del Voi e quindi non sono esperti di un bel niente.
I professionisti (le guide alpine, sic) sono i più a rischio. Il motivo l’ha scritto l’autore dell’articolo stesso: c’è stato un grande aumento dei praticanti. Ergo che tra questi praticanti, molti si siano avvalsi del servizio di una guida alpina e quindi ecco lì il motivo dell’aumento degli incidenti PER TUTTI, incluse anche le guide alpine.
Nei primi anni 80, durante i miei corsi guida un Istruttore dell’ENSA a Chamonix ci disse che lo scialpinismo uccide le guide! Era Francois Labande, non uno qualunque e aveva ragione, ho scoperto solo pochi anni dopo.
Ritrovarsi sulla neve con le pelli sotto gli sci e qualche persona al seguito è una situazione paragonabile all’attraversare un campo minato. Lo posso dire dopo 33 anni di onorata carriera di guida, e quindi se ci sono più scialpinisti al mondo, e molti di loro andranno con la guida, per queste ultime un aumentato rischio di finire nei guai c’è.
Tutte le stime hanno e possono avere il loro valore strumentale.
Ma qui più che la questione cartesiana sulla crescita percentuale o meno della mortalità, incidentalità, eccetera, è quella appunto olistica che riguarda la relazione di ente con un altro ente. Uomo-ambiente.
La realtà che scaturisce da una osservazione contaminata da strumenti e artifici tecnologici, nonché da medoti di valutazione del manto nevoso pedestremente applicati, è differente da quella che sussiste quando siamo in relazione con l’ambiente.
In un caso la nostra intelligenza estetica e sottile tende a venire meno, in quanto meno impiegata — ci sono gli strumenti — e in quanto, se soppesata, è meno accreditata di quanto non si faccia nei confronti della tecnologia.
Nell’altro, viceversa. Ovvero ciò che sentiamo non è screditato. Ciò è vero tanto meno siamo intossicati da idee, pensieri, cibo e sentimenti.
Essere la natura è differente che credere di navigarci dentro. E quando la sei, non hai bisogno che qualcuno di dica cosa fare.
Ma la cosa non si esaurisce, nuovamente, attraverso una misurazione delle due modalità.
Tanto più le variabili si stringono a pochi dati da considerare, tanto più la tecnologia avrà vita facile a spuntarla.
Tanto più si estende il numero degli elementi in gioco, in modo direttamente proporzionale avrà più doti per il successo la sensibilità, la concentrazione, l’identificazione con il territorio che solo un essere senziente può realizzare.
Per questo i camosci travolti, nonostante la loro frequenza in ambiente, sono sempre pochi.
L’appendice conclusiva è quella di maggior portata. È una portata culturale. È quella in grado di vedere il peso della tecnologia nella nostra concezione del mondo.
Un peso sufficiente a portarci lontano dalla natura, da noi stessi, dalla realtà attraverso la relazione.
Cosa di poco conto per chi ne ha le consapevolezze utili ad emancipare il problema.
Diverso è, e pesantemente invalidante nei confronti delle nuove generazioni che trovano la presenza della tecnologia come un dato della realtà, invece che una scelta umana. E quindi osservarla con senso critico.
Come i ragazzi che chiedono qual’è l’albero delle uova e pensano che l’acqua sia sempre uscita dal rubinetto.
Veramente interessante Umberto, grazie, però non capisco cosa intendi con Vietnam alpinistico e algebre olistiche.
A una prima scorsa (gli ho dato appena una scorsa) appare che in effetti gli incidenti mortali in “uncontrolled terrain” siano effettivamente in crescita, considerando anche che gli ultimi anni sono stati mediamente meno nevosi -e qui scatenati, che è il tuo campo!
Per trarre qualche ipotesi di interpretazione però occorrerebbe davvero stimare il numero di praticanti a partire dagli anni ’80.
Concordo in toto.
Bene la tecno, ma meglio la testa e l’amore e il rispetto x la vita propria, dei propri cari e altrui.
Chi va per mare ha gli stessi problemi (e non so cosa e’peggio)
Ambrogio
la tecnologia tende a sostituire l’uomo nelle sue azioni.
Che senso ha in montagna…dove andranno a finire le emozioni?
Da obsoleto, concordo! E grazie anche ai commentatori, in particolare a Matteo: anche negli altri campi, se i protocolli o la tecnologia (ma anche il narcisismo, così tipico di questi anni) ti impediscono di tener acceso il cervello, ti portano al macello….
Certo, Corrado. Hai citato qualche esempio corretto.
Io ti indico una pubblicazione internazionale del 2016 in cui si parla in maniera esaustiva ed approfondita della questione, cercando di cogliere evidenze e discrepanze dall’analisi dati.
https://www.geogr-helv.net/71/147/2016/gh-71-147-2016.pdf
Se si leggono anche solamente le conclusioni, direi che qualche indizio interessante lo si desume.
Si tratta di semplici analisi dati, nulla di mostruso; ma io come base per una discussione preferisco un siffatto articolo alle sensazioni da Vietnam alpinistico sul monte Bianco, o ad algebre olistiche che pare vadano tanto di moda.
Una considerazione. È stata messa in piedi una struttura sociale per permettere una certa garanzia di non farsi troppo male o di essere salvati. È una struttura molto costosa e discutibile sotto vari aspetti. Siamo sicuri che migliori la vita della nostra società? Sembra che il numero dei morti sia sempre lo stesso o quasi. E il resto sia solo più giocoso anche se rumoroso. È un bene? O è solo uno dei tanti intrallazzi pagati dallo stato? Non capisco.
Per la Svizzera i dati sugli incidenti da valanga negli ultimi 20 anni ci sono tutti: https://www.slf.ch/en/avalanches/destructive-avalanches-and-avalanche-accidents/avalanche-accidents-of-the-past-20-years.html
Calcolare il tasso di mortalità (o di semplice infortunio) non è però semplice visto che non si hanno dati sui praticanti, o meglio sulle giornate/uomo. Certamente i praticanti (free ride, skialp, ecc.) sono aumentati ma di quanto non si sa. Sempre guardando i dati SLF per la Svizzera e guardando solo due anni (2008 e 2016) non si vede l’aumento che ci aspetteremmo: i morti sono stati 16 nel 2008 e 20 nel 2016.
Sempre l’Istituto Svizzero per lo studio delle Valanghe fornisce un grafico sui morti da valanga a partire dal 1936: https://www.slf.ch/en/avalanches/destructive-avalanches-and-avalanche-accidents/long-term-statistics.html da cui si vedono forti fluttuazioni del numero dei morti.
“ai miei tempi era meglio”
Anche se ho 57 anni (quasi 58) anche questi sono i miei tempi. Anche perchè, in tutta sincerità, continuo ad andare in montagna, più o meno, come quando ne avevo 20.
Quindi per quanto mi riguarda non si tratta di NOSTALGIA la mia avversione alla troppa tecnologia.
La troppa tecnologia guasta il rapporto diretto, a pelle tra:
UOMO-MONTAGNA ;
UOMO -AMBIENTE.
Avere tutto sotto mano (o almeno pensarlo di averlo) falsa l’esperienza, falsa il vissuto.
Non faccio l’estremista talebano, che rifiuta tutto, ma farmi spianare completamente la strada da un’applicazione, da un GPS, ect. non ha senso. E non ha gusto.
Condivisibile l’articolo e condivisibile la posizione di Umberto.
Anzi di più: per decidere se c’è un effettivo aumento degli incidenti, occorre riferirli al numero di praticanti, perché il numero assoluto in se non significa nulla o quasi.
Sull’effetto della tecnologia sulla razza umana, la mia impressione è che spesso il miglioramento della tecnologia porta più a un abbassamento medio dell’uso dell’intelligenza al problema piuttosto che a una migliore performance media.
In altre parole, se una cosa diventa più facile, invece che metterci la stessa attenzione e ottenere risultati molto migliori, in media preferisco fare un po’ “ab minchiam” che tanto poi risulta facile metterci una pezza e ottenere risultati accettabili (e magari anche un po’ migliori di prima)
Me ne accorgo sul lavoro da ingegnere con l’uso di internet, di programmi CAD, CAM e CAE o gestionali vari.
Ma ancora più evidente è notare che ormai è quasi impossibile fissare un appuntamento a più di tre persone senza che ci sia qualcuno che telefona per dire “dove siete? Allora iniziate ad andare che poi vi raggiungo li…”, ovvero non è stato capace di pianificare/prevedere; o non ha voluto farlo, sicuro che non ci sarebbero state conseguenze (una volta tre persone che aspettavano mezz’ora poi ti tiravano un culo così!)
Temo che applicata al andar per monti questa tendenza al rimbambimento possa in effetti aver effetti pericolosi, ma non ho assolutamente dati per affermarlo
Una risposta banale, forse risibile: qui da noi gli elicotteri girano parecchio e le squadre del soccorso sono molto numerose e con dotazioni fantascientifiche. Al Bianco quando c’è bel tempo da mezzogiorno è un via vai di almeno tre elicotteri a evacuare infortunati. Tutto questo rumore mi impressiona.
L’articolo di Crovella è condivisibile.
Ma io sto continuando a chiedere a chiunque dica: “gli incidenti in montagna aumentano”, di esplicitare le fonti.
Quindi lo chiedo anche a Crovella: può indicare da quali fonti desume che gli incidenti in montagna sono aumentati negli anni?
Grazie.
Io penso che tutte le volte che si vuole massimizzare una attività umana, anche lo studio nelle scuole, si debba abbassare il livello, sia di impegno che di difficoltà. Nelle attività pericolose, per esempio, si cerca di enfatizzare la sicurezza e i sistemi per garantirla. Si moltiplicano corsi e certificati e garanti, ma il tutto sempre abbassando il livello. Nelle scuole, nei sistemi di soccorso, nella scelta degli insegnanti e nella selezione dei professionisti si delega molto agli strumenti tecnologici e si trascura la capacità dell’individuo, anzi gli individui capaci danno fastidio e vengono isolati. Si preferisce annullare qualsiasi sistema meritocratico per far sentire tutti eguali, meritevoli e capaci.
La chiamo sindrome da Auto-automobile (l’obiettivo prossimo futuro).
Secondo me si dovrebbe molto più spesso parlare dell’individuo, non solo dell’individuo medio o mediatizzato, quello esclusivamente sociale.
Oggi ho letto l’impresa (?) di uno che per primo (?) ha salito tutti (?) i 3000 delle Dolomiti. Bravo, ma per me con poca fantasia e direi con scarse capacità…. chissà quanti altri nel secolo precedente lo hanno fatto, ma senza assurgere alla cronaca degli eroi dei media (quelli del nulla ?).
Devo dire che non capisco, rispetto, ma proprio non capisco perché si parli solo di socialità, condivisione, massificazione… senza rendersi conto che se non si parla anche di individualità più o meno forti e capaci, si muore molto facilmente…. si inventano anche le scuole per diventare imprenditori….e i centri di ricerca…. senza dire mai di che cosa, del nulla? E chi insegna, forse gli esperti? Però i finanziamenti, come gli aumenti di stipendio a pioggia qualcosa fanno, poco, molto poco, forse mantengono il sistema inerziale: chissà.
Standing ovation. Purtroppo la tecnologia porta ad una iperconfidenza col pericolo e spesso attrezzature che dovrebbero aumentare la sircurezza diventano invece strumenti per ridurre i margini di sicurezza. Ad esempio, nell’immersione sportiva l’avvento dell’uso di miscele arricchite di O2 con lo scopo di ridurre i rischi di embolia, ha portato ad un numero maggiore di incidenti.
Tornando alla montagna, penso alla follia degli zaini airbag dotati di ventola in cui si pubblicizza la possibilità di gonfiarli più volte ( !!! ) senza dover ricaricare la bombola, come se rischiare di finire sotto una valanga fosse una cosa normale.
C’è poi, secondo me, anche un problema di formazione. Una volta era nei fatti obbligatrio frequentare un corso per entrare nel mondo dello scialpinismo. Oggi molti vanno in negozio, comprano l’attrezzatura e, se va bene, fanno una uscita con una guida col risultato di non avere la più pallida idea di cosa sia l’abc sul rischio valanghifero.
Noto su queste pagine un’insistente tendenza all’adagio “ai miei tempi era meglio”, un po’ in tutti i campi dell’andare in montagna, dall’ostilita’ allo spit, all’ansia da iper-tecnologia, ritenuta la madre della crescita degli incidenti. Si arriva perfino a discutere se sia giusto o meno portare il cellulare. Mi permetto di osservarlo perche’ pur essendo vecio pure io ( 51 ), mi sorprende quanta approvazione riscuote in questa comunita’.
C’e’ il rischio di essere prigionieri del nostalgico. A mio parere il numero degli incidenti aumenta perche’ aumenta il numero di fruitori della montagna, come detto. Piu’ domanda, piu’ guide, piu’ uscite. E il cosiddetto errore umano, negli incidenti per valanghe e’ molto opinabile. Facile da dirsi a posteriori, non necessariamente facile a priori, considerando che molti degli incidenti ( a me sembra la maggioranza, ma posso sbagliare ) avvengono con presenza di guide o di persone nominalmente esperte. Di qui, sostenere che questo avviene per eccesso di affidamento alla tecnologia, a me pare forzato. Non credo che nessuna guida o persona esperta consideri l’airbag come uno strumento per poter prendere azzardi in pendii instabili. Tanto meno l’arva che e’ in uso oramai da piu’ di 30 anni.
Sull’assenza di educazione alla montagna: a me pare naturale che si acquisisca con il tempo e l’esperienza. Chi puo’ dire di avere avuto l’equipaggiamento perfetto fino dalla prima uscita? Stessa cosa per la sensibilita’ e la capacita’ di orientamento. E il GPS e’ uno strumento, non autorizza a spegnere il cervello.
Il “fastidio” di dover convivere con sempre piu’ gente in montagna, con stili e modalita’ differenti e’ comprensibile. L’aumento della fruizione va sicuramente indirizzato nel modo giusto perche’ l’ambiente non venga compromesso. Ma dal punto complessivo di crescita culturale della societa’, credo sia piu’ positivo che negativo.
Insomma, perche’ non volere vedere che tutto cambia con il tempo, e non necessariamente in peggio?
Anche secondo me il problema di fondo è il divario che si è scavato tra le nostre possibilità potenziali, incredibilmente ampliate dalla tecnologia, e la cultura delle persone. Non riguarda solo la montagna perché non è una dinamica che osservo solamente in montagna. Tutti vogliono fare tutto perché è possibile farlo e anche perché al giorno d’oggi se faccio qualcosa non sono solo io e le persone a me più vicine a saperlo, ma tantissime altre. L’eccesso di tecnologia è direttamente legato all’altro eccesso che sta stravolgendo tutto, quello di socialità, finta e superficiale, ma sicuramente tentacolare e ingorda. C’è stata l’epoca che poneva al centro l’uomo, le sue riflessioni e le sue storie. Adesso viviamo un momento diverso, l’attenzione è tutta rivolta all’esterno, al gesto e all’azione pura, slegata da ogni contesto. Tesi, antitesi, a questo punto spero in un’imminente sintesi. Articoli come questo mi fanno sperare che i semi di questo nuovo cambiamento stiano lentamente attecchendo.
La mia sicurezza dipende solo da me, mai la delegherei a qualcosa o qualcuno di altro.
La responsabilità di ciò che faccio è solo mia, non di altri o altro.
Ascolto le regole che altri dicono di seguire e le seguo solo se diventano mie, però vedo che di solito le regole pubblicizzate sono molto superficiali e elementari.
L’alpinismo, in qualsiasi forma si pratichi, per me è una disciplina, non uno sport e mai un solo divertimento: richiede impegno, cultura e molta dedizione, sono tutte attività molto pericolose.
Andare nella natura è pericoloso e di solito gli uomini molto civilizzati muoiono subito, ma la civiltà ne fa degli eroi e allora gli uomini ci vanno per diletto, per vanità, per invidia, ricolmi di semplice stupidità e ignoranza, senza capire che non sono eroi, ma miseri incapaci che vengono usati per fare pubblicità.
Questo lo si dovrebbe dire spesso, ma si parla solo di montagna sicura e di fare le cose secondo le regole di sicurezza, si decide sempre di illudere la gente.
648 persone quest’anno sulla cima dell’Everest, una grande impresa scalarlo! Salire tutti i 4000 delle Alpi, c’è anche un club! Uno scarpone da sci da 1600 euro, per essere leggeri e andare più veloci!
Sono solo affari, non alpinismo e ci vuole pubblicità, anche col morto! Peccato.
Articolo pienamente condivisibile. Lo sviluppo tecnologico porta a fare cose sempre più difficili e rischiose.
L’aumento di frequentatori della montagna, d’estate e d’inverno, non e’ coinciso con un aumento della “cultura” di come andare in montagna: io ho iniziato da solo con amici ma ben presto ho fatto qualche corso CAI: molta attenzione alla sicurezza, e alla rinuncia dell’obiettivo quando le condizioni non te lo permettono.
Lorenzo, le parole di Alda Merini sono molto belle, ma la propria vita e’ una sola.
Anch’io ho più di 50 stagioni alpine sul gobbo. Che mi hanno insegnato anche ad affinare i sensi in montagna. Bagaglio di esperienze che si sta del tutto perdendo.
Concordo con te Carlo.Piemamente
Una sola considerazione, non certo a favore del consumo di tecnologia.
Affinché dalla dipendenza dalla tecnologia non si passi a quella della sicurezza.
Affinché la sicurezza non sia concepita come realizzabile.
Amare è rischiare di essere rifiutati
Vivere è rischiare di morire
Sperare è rischiare di essere delusi
Provare è rischiare di fallire
Rischiare è una necessità
Solo chi osa rischiare è veramente libero
Alda Merini