Questa serie di due articoli di Carlo Crovella (scritti il 4 dicembre 2017) affronta la spinosa questione della tecnologia in modo indipendente dal nostro post https://gognablog.sherpa-gate.com/alpinismo-e-tecnologia/ pubblicato per pura combinazione nello stesso giorno. E’ interessante vedere come entrambi gli autori arrivino alle stesse conclusioni.
Ipertecnologismo – 2 (2-2) (nell’insegnamento)
(Un nuovo-vecchio modello didattico)
di Carlo Crovella
(scritto il 4 dicembre 2017)
Lettura: spessore-weight**, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**
Proprio di recente mi è capitato fra le mani uno scritto di Andrea Gobetti (a lungo capo-redattore di Roc, annuario della Rivista della Montagna negli anni ‘90). Scrive Gobetti: “Nel manipolo dei ROC-autori (che dovevano saper scrivere, ma anche cavarsela in montagna), Carlo Crovella si è sempre dimostrato uno spiritoso e attento testimone del mutar dei tempi”. La mia predisposizione a “osservare” i trend di chi va in montagna è quindi di lunga data, almeno 25-30 anni.
Sulla base di queste credenziali, mi permetto di dilungarmi sui concetti che seguono. Da circa 10-15 anni registro un progressivo spostamento dell’intero popolo montanaro verso la trappola che ho definito con il termine di iper-tecnologismo, il che comporta un’attenzione morbosa verso i gadget tecnici e tecnologici. Il fenomeno, seppur diffuso a tutte le attività della montagna, risulta particolarmente esasperato per il mondo dello scialpinismo e quindi della relativa didattica. Osservando molti scialpinisti negli ultimi anni, pare proprio che per loro questi argomenti siano la vera e forse l’unica essenza dello scialpinismo. Si “eccitano” molto di più a dibattere sui risvolti tecnici delle varie “carabattole” piuttosto che parlare di montagne, itinerari, condizioni, traversate, varianti, ecc… Il risvolto più paradossale è che il mondo delle scuole si sta allineando sempre più a queste tendenze, anzi in alcuni casi le cavalca con ebbro entusiasmo.
Negli ultimi tempi ho notato che sempre più di sovente gli aggiornamenti per istruttori vengono organizzati in una sala conferenze. Oh, intendiamoci, onore al merito agli amici che si impegnano in iniziative del genere, sobbarcandosi un massacrante lavoro logistico e “sacrificando” interi week end, sottratti alle loro gite personali.
Ma un aspetto mi ha colpito: il know-how su cui si ritiene necessario, oggi come oggi, che gli istruttori siano perfettamente aggiornati è ormai costituito da nozioni “astratte”, tali che possono essere dibattute in una sala conferenze a colpi di slide. Nessuno guarda se gli istruttori sappiano muoversi adeguatamente sul terreno, come tracciano in salita, se scendono in modo consapevole o scriteriato… Mi si obietterà che tutte queste cose si danno per scontate, ma io guardo le nuove generazioni di scialpinisti (e di istruttori!) e, sinceramente, in loro tanto scontate ‘ste cose non mi sembrano affatto…
In tutto il mondo delle scuole le conversazioni sono ormai dominate da concetti quali se siano più efficaci gli artva a tre o quattro antenne, oppure come individuare i doppi massimi, oppure se (in certe fasi della ricerca) il bastoncino vada appoggiato verticale o orizzontale. Tutte nozioni concettualmente correttissime e che costituiscono giustamente materia di insegnamento agli allievi. Peccato che ci si focalizzi solo più su questi risvolti, spesso tralasciando quell’insieme di nozioni che permettono di muoversi prudentemente in un ambiente che non è quello abituale per la specie umana.
In parole povere, le scuole hanno (inconsapevolmente?) concretizzato una rivoluzione copernicana dei concetti: quello che dovrebbe costituire materia collaterale (tutto il risvolto “tecnologico”) è diventato materia principale se non esclusiva di insegnamento, mentre quell’insieme di nozioni che costituiscono l’andar in montagna è stato messo ai margini dei discorsi e spesso manco se ne parla.
All’inizio di una stagione di qualche anno fa, mi è capitato di incocciare casualmente nell’uscita di una scuola. Sono salito (silenziosamente) più o meno alla stessa velocità di un gruppetto il cui istruttore ha costantemente intrattenuto, per circa tre orette, i suoi allievi con disquisizioni particolareggiate su ogni meraviglia della tecnologia. Peccato che questi allievi, evidentemente alla loro prima gita in assoluto, fossero caratterizzati da errori marchiani nei cosiddetti fondamentali: avanzavano inciampando nei loro stessi sci, non li poggiavano correttamente per ottenere una presa efficace delle pelli sulla neve (e quindi scivolavano costantemente), non parliamo poi delle inversioni, dove battevano persino Pippo nell’inarticolata sequenza dei movimenti. Non era colpa degli allievi, nessuno nasce imparato! Ma l’istruttore, rapito dall’ebbrezza delle disquisizioni tecnologiche, non si è minimamente accorto di tali errori e non ha neppure accennato a correggerli per impostare come “Dio comanda” quei novelli scialpinisti. Al termine di quell’uscita il messaggio rimasto nella testa degli allievi sarà stato che fare scialpinismo significa “maneggiare” aggeggi tecnici e tecnologici, mentre nessuno di loro avrà minimamente focalizzato come si sale e come si scende. Se poi avranno messo piede sulla neve ma fuori dalla scuola, saranno stati esposti al rischio di scivolare e magari farsi male.
Aggiungo un altro episodio di cui sono stato spettatore e che mi ha fatto riflettere a fondo. Ero in gita privata con alcuni amici ancora molto coinvolti nell’organizzazione didattica (io, invece, sono stato Direttore di una scuola importante negli anni ’80: sul piano organizzativo ho già “dato” a sufficienza…). Il tema del giorno era che, da un post apparso in qualche forum, pare che possano svilupparsi delle interferenze fra gli Iphone accesi e l’efficacia degli artva digitali in fase di ricerca. A parte l’anomalia consumistica del coinvolgimenti dei soli Iphone (gli altri smartphone ne sono immuni? Bah…), l’argomento ha un suo interesse e va giustamente chiarito, per insegnare agli allievi che, in caso di malaugurato incidente in loro gite private, i cellulari vanno tassativamente spenti quando si attua la ricerca sul terreno. Sensato quindi che un gruppetto di istruttori molto “impegnati”, seppur in gita privata, dibattesse su un tema del genere. Ma l’aspetto paradossale di quella giornata è stato che gli amici si sono fatti talmente prendere dal dibattito che alla fine si sono fermati a metà salita per testare sul terreno la vexata quaestio. Li ho aspettati per un quarto d’ora, godendomi il sole di una giornata spettacolare, poi ho detto loro che preferivo riprendere a salire, tanto mi avrebbero facilmente raggiunto. Invece sono arrivato solitario in vetta e ho reincontrato gli amici solo all’auto: avevano trascorso l’intera giornata a testare le interferenze Iphone-artva, insensibili alle condizioni spettacolari della neve e del meteo. In pratica gingillarsi con i gadget tecnologici sta prevalendo sul piacere primario di fare gita, anche nelle vecchie volpi dello scialpinismo.
In sintesi: il mondo delle scuole, specie nello scialpinismo, è diventato la cassa di risonanza dell’iper-tecnologismo. Ovviamente faccio di “tutt’un’erba un fascio”, ben sapendo che ci saranno infinite situazioni differenti e che molti istruttori e molte scuole viaggiano controcorrente. Ma la risultante complessiva, la media aritmetica ponderata del settore, a questo risultato punta.
Accettiamo (per esigenze di sintesi) che sia indiscutibilmente così. La conseguenza è che le scuole stanno addirittura divulgando un approccio “pericoloso”, ovvero quello che, corazzati di ogni gadget tecnologico, si possa andare ovunque e comunque. Quanto meno le scuole non si contrappongono a questa impostazione che è quella dominante per le interconnessioni ideologiche con l’attuale società del “no limits”.
La mia diagnosi è la seguente: “eccesso di attenzione didattica alle questioni tecnologiche = messa in disparte delle regole naturali dell’andar in montagna”.
Negli ultimi tempi mi sono convinto che le scuole dovrebbero, paradossalmente e provocatoriamente, rivoltare completamente il discorso che attualmente le caratterizza: non parlare più di gadget tecnologici (o almeno ridurli ad argomenti di approfondimento) ed essere invece la cassa di risonanza di tutto quell’altro know-how tradizionale, che io sintetizzo ironicamente nella formula “le astuzie del nonno”.
Un know-how fatto di miriadi di segreti del mestiere: cosa mettere nello zaino, cosa e quando mangiare e bere, ogni quanto ci si ferma in salita, come ci si veste, quali altri rischi (es. di bivacco imprevisto…) esistono oltre a quello delle valanghe e come essere pronti (mentalmente e tecnicamente) a fronteggiarli, ecc. Tutte cose che si trasmettono, da istruttore ad allievi, “facendo gite insieme”, e non facendo esercitazioni. Ecco il mio pallino per l’importanza del “fare gita insieme”, piuttosto che investire un’infinità di tempo in noiose esercitazioni, come sta attualmente facendo il mondo delle scuole.
Inoltre, mentre le istruzioni su come utilizzare i vari gadget si trovano agevolmente su internet, il “know-how del nonno”, importantissimo ma impalpabile, fa parte di un bagaglio esperienziale, accumulato magari in decenni e decenni… Quando i “vecchi” come me smetteranno di fare gite (chi prima, chi poi), tutto questo bagaglio si perderà…
Per cui lancio una sfida ideologica e programmatica: torniamo a insegnare un approccio “nudo e crudo” alla montagna, lasciamo da parte i gadget (tranne l’artva, ovviamente!), facciamo provare agli allievi le sensazioni naturali dell’andar in montagna, come la bollita alle mani (e come la si affronta), il vento sul viso, aver fame e sete, i rumori del manto nevoso, saper individuare l’orario guardando il sole…
Meglio una gitina modesta, ma intessuta di questi messaggi didattici, che spararsi in canali a 45°-50° gradi sull’onda della (falsa) sicurezza connessa ai gadget tecnologici.
Mi aspetto che si alzeranno strali di commenti scandalizzati a questa mia proposta, ma… che volete che vi dica?… nei miei 50 anni di frequentazione della montagna (con o senza sci) ne ho viste così tante che, una più una meno, non mi intimorisco più di nulla…
Nel frattempo io continuo a insegnare che, anche in una semplice gita invernale, occorre avere sempre nello zaino la frontale, il telo termico, abbigliamento e cibo di riserva… e che, in montagna, il gadget di sicurezza è il proprio cervello…
Un ultimo risvolto, molto rilevante in questa fase dell’evoluzione umana. In montagna occorre entrare in punta di piedi, come ospiti silenziosi, sapendo leggere i segnali che ci suggeriscono dove e come passare. Se invece, noi istruttori, insegniamo a “violentare” la montagna, diffondendo un approccio in cui s’impongono le decisioni umane grazie alla corazza tecnologica, non formeremo scialpinisti maturi, responsabili e consapevoli, ma consumistici fruitori “mordi e fuggi”, potenzialmente esposti al coinvolgimento in incidenti anche fatali.
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Bravo Lorenzo, il rapporto docente discente è uno dei punti (dei cerchi) su cui bisognerebbe focalizzare le capacità degli istruttori, oltre a una bella iniezione di psicologia sociale per fare in modo che siano in grado di non scomporsi di fronte alla sicumera di discenti e di altri istruttori.
Le tesi di Carlo, portate avanti sulla base dell’esperienza andrebbero viste alla prova dei fatti e dei dati. Ad esempio la discussione sulle antenne e sulle interferenze si sta spostando sullo scavo e sull’organizzazione dello stesso: ben venga. Se avessimo tanti che hanno dovuto spalare il vialetto di casa o il terrazzo, come dice Marcello, avremmo sci alpinisti meglio preparati nel momento del soccorso.
Da istruttore in una grande città mi trovo sempre più spesso di fronte ad allievi in cui è carente la curiosità di cercare un itinerario per il week end: troppa fatica, meglio trovare chi lo ha già fatto, pubblicato, fotografato e commentato (e magari si scaricano pure la traccia sul “tecnologico” GPS).
Il problema nel creare consapevolezza, curiosità e capacità di andar per monti è sempre più indivisibile dalla carenza di tempo. Ovvero i ritmi convulsi della società contemporanea mal si sposano con i tempi e le cadenze dello sci alpinismo. La gita in giornata è la norma, il “mettere le gambe sotto al tavolo” già all’ora di pranzo è un valore.
Non so cosa possa fare una scuola per cambiare questo approccio, certo più gite e meno aula, pur consapevoli che i tempo è poco e lo sci alpinismo non è più totalizzante come un tempo
Ipertecnologia? Basta essere poveri per esserne immuni… si impara a fare delle toppe e dei rammendi preziose medaglie. Come diceva qualcuno “…finchè non hai davvero provato il freddo ai piedi non te li sei meritati gli scarponi nuovi” 😉 Bell’articolo!
Secondo me, da quello che vedo, leggo e sento, quelli bravi sono pochi, molto pochi. Poi dal 1986, gli sloveni, il livello mentale è sceso, forse tranne rarissime eccezioni di solitari, ma ho ancora dei dubbi perchè non riesco a paragonare un Barbier e uno Honnod. Per l’inverno l’espressione al top è ancora riconosciuta da tutti quella di Renato…. e son passati tanti anni.
E’ vero ( anche se dovrebbe essere scontato ) che nell’insegnare l’enfasi più’ importante dovrebbe essere sulle basi del salire, dello scendere e del relazionarsi con l’ambiente. Nessun dubbio.
Qui pero’ si ritorna alla tesi che l’invasione della tecnica distoglie l’attenzione. Gli aggeggi: arva e cellulari ( null’altro nominato). Non precisamente degli ultimi ritrovati della tecnica ( il cellulare e’ oramai come la lavatrice ). Non credo che prendendo un paio di episodi limite ( captati con le antenne drizzate nella direzione giusta ), se ne possa dedurre un trend generale. Le media aritmetica dell’articolo non credo arrivi dalla matematica ma dal sentimento: repulsione mista a paura, nel vedere fuori di noi usi e costumi che cambiano, e non ci piacciono.
“Meglio una gitina modesta, ma intessuta di questi messaggi didattici, che spararsi in canali a 45-50 gradi sull’onda della ( falsa ) sicurezza connessa ai gadget tecnologici”
Quale falsa sicurezza, di quali gadget? Davvero chi si avventura su un canale a 50 gradi si fa abbindolare da un gadget? Bisogna accettare che il livello e’ salito ( rispetto ai “nostri tempi” ), e che i giovani che cercano i canali a 50 gradi ( o i muri improteggibili in arrampicata ) sono spesso molto bravi e preparati.
Se ai principianti non si insegna a fare lo zaino, e’ per i cattivi maestri, non per la cattiva tecnica.
Marcello for ever!
Dico sul serio.
Certo che no.
Con che diritto potrei?
Parole sante!
E comunque io di quello che scrive Merlo (non me ne voglia), non capisco una parola.
Spalare un terrazzo dalla neve insegna molte più cose sulla neve stessa di un corso Aineva, provare per credere. Ma la neve la spala chi ce l’ha davanti a casa. Mica puoi dire di farlo al cittadino con poco tempo libero, ansioso di conquistare la vetta. Ecco, i gingilli tecnologici servono a ridurre la distanza tra città e valli, ma non sempre a fare una bella gita consapevole.
Per vendere sempre più automobili non si insegna più alla gente a guidarle, così non si aumentano le quantità, nemmeno dando la patente a “cani e porci” si riesce. La gente pensa solo a divertirsi senza impegno e allora si inventano auto sempre più automatiche: le auto-automobili. Così nessuno deve pensare a quello che sta facendo….. E pensare che l’auto è anche un mezzo di trasporto……. Forse dappertutto si sta perdendo la coscienza di se stessi e si partecipa condividendo senza conoscere, si vive solo superficialmente. Magari questo è più bello!
Nota didattica.
Anche la parola del docente, può essere vissuta dal discente alla pari di quella emessa da un dispositivo tecnologico.
Se entrmabi — docente e dispositivo — sono da noi accreditati, saranno ascoltati e rispettati.
Alla forma di insegnamento rappresentabile con una freccia che va da chi sa, il docente, verso chi non sa il discente — salvo essere di fronte a 10.000 reclute che devono imparare il presentat’arm — si dimostra facilmente preferibile quella rappresentabile da una freccia circolare.
In questa modalità maieutica, il docente non è più in affermazione del sapere ma in ascolto del discente. L’ascolto permette di raccogliere molto della concezione, psicologia e condizioni del momento del discente.
È quindi sempre una didattica personalizzata.
Il docente pone al centro del processo di apprendimento la persona non il sapere da trasferire; sa che l’esperienza non è trasmissibile e lavora affinché questa sia ricreata nel rispetto della biografia del discente; la sua azione è quindi più provocatoria che direttiva.
L’errore, la valutazione non esistono più nella comune concezione, ovvero lo sbaglio non è più relativo a quanto l’azione del discente sia distante o vicina al modello ideale presente nella mente del docente. L’errore non esiste più in quanto si trasforma in informazione utile al docente per stimolare — non, correggere — la creatività psicomotoria del discente. Più l’azione del docente diviene impalpabile, più il sentimento del discente lo fa sentire scopritore, più la circolarità della freccia si compie.
Il discente a sua volta, già divenuto indipendente nelle fasi precedenti, non interpreta l’inefficacia del gesto secondo l’ordinario canone culturale, ovvero non si mortifica, ne si considera impedito o imbranato se il suo gesto si dimostra inefficace allo scopo.
Di conseguenza il docente non valuta il gesto ma, se necessario, la consapevolzza psicomotoria raggiunta: più o meno imitazione/ricrazione; più o meno autonomia/dipendenza.
Ed è esattamente l’aspetto che tarda ad emergere tanto più si è dentro un contesto di didattica diretta, quella con la freccia dritta.