K2, magica piramide di luce (GPM 067)
di Gian Piero Motti
(pubblicato sulla rivista Fila, settembre 1979)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Il suo vero nome è Chogorì, semplicemente “grande monte”. Misurando infatti 8611 metri è la seconda montagna del globo. Domina incontrastato il massiccio del Karakorum, dove si riuniscono alcune tra le montagne più grandiose e imponenti del mondo. Il suo nome K2 deriva dalla sigla con cui il topografo Godwin Austen lo indicò sulle mappe quando ne fece la scoperta. Non per nulla molti lo chiamano anche Godwin Austen, oltre che Chogorì.
Parlando anche di Karakorum sovente si dice Himalaya. È vero, il massiccio pakistano fa parte della grande catena asiatica, ma, se si vuole essere precisi il Karakorum è un poderoso massiccio a sé stante, dalle caratteristiche geologiche, geografiche e metereologiche ben evidenziate.
Le montagne, il più delle volte a struttura piramidale regolare, si alzano al termine di grandiosi circhi glaciali, tra i più poderosi del globo, come appunto il famoso Ghiacciaio del Baltoro, lunga e naturale via di accesso alla base del K2. Frequenti i picchi granitici arditissimi, sovente assenti nel settore himalayano nepalese. Altissime le pareti, che a volte sfiorano anche i 4000 metri di altezza. Per i conoscitori, un massiccio del Bianco in dimensioni ciclopiche, ma con le medesime caratteristiche geologiche ed estetiche. Alpinisticamente un territorio fantastico, solo parzialmente esplorato. Le possibilità sono ancora immense e non solo sui grandi colossi, sugli Ottomila che naturalmente hanno attratto le numerose spedizioni internazionali fin dall’inizio. Torri di roccia di eccezionale bellezza e difficoltà attendono ancora di essere salite a quote relativamente più basse, intorno ai 6500 e 7000 metri. Va anche ricordato che il clima qui è più secco e asciutto rispetto alla catena himalayana vera e propria: ciò favorisce naturalmente gli alpinisti che agiscono su queste montagne. Ma va anche ricordato che il governo pakistano è sempre stato assai avaro di permessi di salita per il Karakorum e ciò ha notevolmente rallentato l’esplorazione alpinistica rispetto ad altri settori più facilmente raggiungibili per via diplomatica.
Marcia d’avvicinamento da Concordia al K2, 1979
Il K2 ha forma regolare, piramidale, caratterizzato da creste ben delineate e grandiose, naturali vie di salita verso la vetta. La piramide evoca alla nostra mente ricordi di scienze magiche, di simboli di perfezione, di corpi sospesi nello spazio infinito. Ebbene il K2 ha in sé qualcosa di indefinito, di inafferrabile, ancora più sconcertante data la sua semplicità strutturale. Montagna ostile, difficile, restia a lasciarsi salire dagli uomini.
A titolo storico possiamo ricordare i primi e coraggiosi tentativi della spedizione guidata dal leggendario Duca degli Abruzzi, la quale seppe individuare la linea di salita lungo la quale si innalzerà poi la vittoriosa spedizione italiana.
Poi il tentativo americano, che mancò la vetta di un soffio e altri tragici tentativi in cui persero la vita alpinisti europei e portatori locali, i famosi “hunza” dalla resistenza fisica incredibile.
Si giunse infine nel 1954 alla vittoriosa spedizione italiana, guidata da Ardito Desio quando Compagnoni e Lacedelli raggiunsero la vetta in carenza di ossigeno, dopo uno sforzo sovrumano e dopo che Walter Bonatti, giunto ad altissima quota e con incarico di fornire riserve di ossigeno, per un malinteso, ancora oggi non ben chiarito, dovette rinunciare alla vetta ed affrontare con materiale alpino un bivacco a più di ottomila metri, uscendone del tutto indenne. Ma erano altri tempi, tempi in cui l’alpinismo di punta extraeuropeo si serviva di mezzi massicci ed imponenti per raggiungere il suo scopo, ossia la vetta. Migliaia di portatori, campi installati sui fianchi del monte, installazione di corde fisse per tutta la salita, bombole di ossigeno. Un sistema storicamente accettabile e comprensibile, ma in analisi più critica assai poco elegante. Con ciò non si vuole togliere alcun merito agli uomini che in quelle spedizioni dettero prova di incredibile coraggio e resistenza fisica e morale. Ma oggi in campo alpinistico l’evoluzione riporta al purismo, non ad un purismo rigorista mormone, no di certo.
Non si tratta di inibizione, sia ben chiaro, non si tratta di senso di colpa o di peccato nei riguardi della Montagna, sacra ed inviolabile. Si tratta soltanto di essere mutati, di essere cresciuti e maturati, di aver finalmente compreso che la soluzione sta nell’eleganza, nella semplicità, nel riconoscere alla Natura una superiorità indiscussa che di certo non poteva essere demolita con un sistema aggressivo e violento.
Quindi, per favore, non si parli più di vittoria sulla montagna, non si parli più di lotta, di sfida, di nemica da vincere. Si parli di uomini che salgono fin qui per vivere un’esperienza completa e totale, si parli finalmente di uomini con la U maiuscola, di uomini che desiderano giungere in armonia con un mondo tradizionalmente ostile e nemico, che fino ad oggi pareva averli respinti. Di uomini che, approfondendo la conoscenza di se stessi attraverso un’azione in montagna sempre più elegante ed umile (anche se umile può apparire un controsenso ma non lo è affatto), sono giunti a capire che il sistema aggressivo non può avere alla fine alcun successo.
Fedeli all’esempio di Mummery, essi vogliono salire con mezzi leali by fair means; essi non vogliono umiliare la montagna servendosi di assalti massicci. L’induismo narra che la grande catena himalayana è il regno incontrastato di Shiva, il potentissimo dio dall’aspetto terrifico, signore della morte e signore dei monti. Colui che con il terzo occhio frontale vede ogni cosa al di là dell’aspetto ingannevole e formale, al di là della suggestione creata dalla Maya. Ma Shiva è anche il dio che protegge lo Yogin, colui che con l’ascesi e la rinunzia vuole salire sino a lui. Shiva regna sulla grande catena con la sua Shakti, la perfida Kali. Ma anche Kali può rivelarsi, a coloro che lo meritano, più benevola, sotto forma di Parvati o addirittura generosa come Annapurna, la prolifica dea delle messi.
La via per salire alla catena sia quindi finalmente un’ascesi purificata da ogni aspetto imperialistico. Sia un cammino lungo la piramide lucente, un cammino lungo una linea ideale, lungo una “linea magica” rivelatrice di verità e di orizzonti di inusitata grandezza. Quasi per ironia della sorte, durante l’estate 1979, lungo la stessa cresta del K2 vedremo agire due gruppi alpinistici differenti, due diversi mondi messi a confronto. Da un lato la spedizione leggera guidata da Reinhold Messner, dall’altro, una spedizione nazionale a carattere pesante.
I primi vogliono salire con tecnica alpina: senza portatori d’alta quota, senza bombole d’ossigeno, senza installazioni di grandi campi intermedi, senza assalti successivi facilitati da corde fisse. Gli altri invece saliranno con i sistemi tradizionali che i primi, per precisa scelta, hanno rifiutato.
Per chi conosce le difficoltà oggettive che il crestone scelto da Messner come linea di salita potrà offrire, il suo proposito può sembrare una follia. Ma Messner non e certo un temerario sconsiderato: ciò che ad altri può sembrare follia, per lui è realizzabile. Non è un giocatore di roulette russa. È soltanto un uomo intelligente e coraggioso che dà un valore enorme all’esperienza, che sa spingersi lucidamente oltre quei confini definiti, forse con un po’ troppa comodità, come limiti invalicabili. Eppure, lo ripeto ancora, Messner è umile. Messner sa bene qual è l’ordine di grandezze in cui egli va ad agire. Non va certo per stravincere, per umiliare, per dimostrare un’inesistente superiorità umana nei confronti della Natura. Messner va per conoscere se stesso, per aver visione di queste grandezze, per essere accettato nel giardino dei cristalli. Ed ha ben capito che nel giardino dei cristalli vi si entra per una porta sola e nudi, in modo straordinariamente elegante, senza trucchi di sorta. Shiva con il suo terzo occhio vede tutto, anche l’invisibile.
Messner va per ritrovare l’Uomo. Quando ritornò dal Nanga Parbat dopo la terribile odissea sulla parete Diamir, distrutto dalla fatica, distrutto dal dolore per la perdita del fratello scomparso sotto una valanga, semiassiderato, con gli arti congelati, esaurito dalla fame e dalla sete; ebbene molti saccenti che hanno pessima abitudine di guardare la montagna solo dal fondovalle con potenti cannocchiali, allora dissero che la sua salvezza era un vero e proprio miracolo. Ma Messner, quasi parlando a coloro che potevano e volevano intendere, replicò dicendo che egli non credeva ai miracoli.
Campo Base del K2, 1979: da sinistra, Friedl Mutschlechner, Renato Casarotto, Michael Dacher, Mohammed Terry Tahir (ufficiale di collegamento), Alessandro Gogna. Robert Schauer e Reinhold Messner
Dietro quell’apparente miracolo vi era tutta una preparazione severa e metodica, un lavoro fantastico di amplificazione delle proprie capacità fisiche e mentali. Invisibile, certamente, ma esistente.
Ora sul K2 accanto a lui troviamo uomini d’indiscusso valore alpinistico, uomini che ne condividono la stessa filosofia. Non sono tutti italiani e questo ancor più ci piace, in quanto spezza una tradizione alpinistica che vuol fare di ogni spedizione himalayana un vanto nazionale ed una vittoria di patria. Onestamente ci pare che questo tempo sia un po’ finito.
Renato Casarotto è certamente un alpinista che non teme il confronto con Messner. Trentaduenne, vicentino, Casarotto più volte ha dato dimostrazione di una determinazione, di una volontà e di una resistenza fisica e morale che lasciano ammirati se non sconcertati. Basti pensare alla solitaria compiuta sul l’Huascaran o all’altra più recente sul fantastico Fitz Roy, un’impresa definita come al limite del credibile da tutti gli ambienti alpinistici internazionali. Alessandro Gogna, trentatreenne genovese, è alpinista di indiscussa bravura, protagonista degli anni fine Sessanta-inizio Settanta. Recentemente si era ritirato dalla scena alpinistica, un ritiro motivato da un preciso desiderio di veder chiaro in se stesso, per realizzare un distacco definitivo da un alpinismo aggressivo e violento, alla ricerca di un nuovo rapporto, non più di stampo sado-masochistico nei confronti della Natura. Ora ritorna all’azione con le idee chiare, distillate dal lungo periodo di assenza.
Friedl Mutschlechner, ventinovenne sudtirolese, è uno dei migliori alpinisti altoatesini, guida alpina e istruttore presso la Scuola d’alpinismo sudtirolese diretta dallo stesso Messner, di cui gode la massima fiducia.
Robert Schauer, venticinquenne austriaco, studente in medicina, malgrado la giovanissima età, può vantare un’attività himalayana stupefacente: Hidden Peak nel ’75, Nanga Parbat nel ’76 ed Everest nel ’78, tre Ottomila in soli tre anni.
Michael Dacher, quarantacinquenne tedesco, guida alpina è l’uomo più anziano del gruppo e vanta un’esperienza alpinistica eccezionale, anche sotto il profilo vero e proprio dell’avventura. Basti ricordare la traversata in sci dell’intera Groenlandia e la salita nel 1977 del Lothse in Himalaya senza ossigeno. L’augurio che facciamo ai sei alpinisti è quello di raggiungere il vertice della piramide lucente nello stile che hanno prescelto, in un lungo cammino che li porterà prima lungo la valle del sacro fiume, l’Indo, poi sulle sconfinate distese di ghiaccio del Baltoro e infine seguendo il filo della “linea magica” vista da Messner sulla montagna. Chissà che al vertice della piramide non li attenda finalmente uno Shiva amico, sorridente e radioso.
Post scriptum (della redazione di Fila)
La notizia è giunta all’ultima ora, mentre la nostra rivista andava in macchina. Reinhold Messner ha conquistato la vetta del K2, senza bombole ad ossigeno, assieme a Michael Dacher, 45 anni, originario di Priting (Garmisch), il più anziano degli alpinisti tedeschi in attività.
Partiti da Roma alla fine di giugno, Messner, Dacher e gli altri quattro scalatori avevano raggiunto l’Himalaya ai primi di luglio, fissando il campo base a quota 5400 metri. La vetta è stata raggiunta in cinque giorni dopo aver piazzato altri tre campi ad alta quota e un bivacco finale a 7900 metri (la spedizione ha rinunciato quasi subito a perseguire l’obiettivo iniziale, quello di salire la Magic Line, NdR).
Meno fortunati gli altri quattro componenti della spedizione. Mentre Renato Casarotto doveva rinunciare all’impresa perché colpito da bronchite, Gogna, Schauer e Mutschlechner venivano fermati dal brutto tempo.
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Buongiorno Alessandro, conservo ancora gelosamente lo splendido libro “K2” scritto da lei e Reinhold. Lo acquistai nel 1984 ed è ancora come nuovo, pur avendolo letto e riletto innumerevoli volte. Ancora oggi, a 55 anni, quando mi sento un po’ giù di corda, lo riprendo in mano e mi sento subito meglio: è la descrizione bellissima di una delle più affascinanti imprese alpinistiche che abbia mai letto. Di nuovo i miei più sentiti complimenti per ciò che avete realizzato nel 1979, straordinario, epico. Sono felice di aver scoperto questo blog in rete. Congratulazioni.
Massimo.
Girovagando per il blog, trovo continuamente piccoli gioielli di testimonianza… Non mi aspettavo questo scritto di Motti sull’impresa K2 del 79.
Alessandro Gogna era sado-masochista nei confronti della natura? 😅😅😅