Il 18 agosto 2018 (due anni fa esatti) Massimo Giuliberti, “storico” istruttore della Scuola Gervasutti (nonché accademico del CAI), è mancato al seguito di un banale incidente: dopo aver raggiunto la vetta del Kilimanjaro 5895 m, in prossimità del campo base, è caduto da un masso dove era salito sembra per effettuare delle foto.
Conoscevo da tempo immemore il “Giuli” (come lo si chiamava familiarmente nell’ambiente torinese), anche se io non ho mai fatto parte della Scuola Gervasutti: molto forti sono però i legami in seno al CAI Torino e chi lo frequenta abitualmente prima o poi entra in contatto con gli altri personaggi.
Però la mia conoscenza con Massimo (che anagraficamente aveva 3 anni più di me) è davvero di antica data e risale alla seconda metà degli anni ’70, quando eravamo entrambi allievi della Scuola di scialpinismo SUCAI Torino. Ricordo benissimo una giornata in cui eravamo insieme in gruppo, era il febbraio del 1979, perché era una di quelle tipiche volte in cui, causa maltempo imperante, se non si fosse trattato di un’uscita ufficiale, ci saremmo tutti rimessi a dormire appena suonata la sveglia.
Le condizioni meteo (nevicata continua) imposero una contenuta sgambata al Colle della Bicocca, sopra Sampeyre in Val Varaita. Si scherzava maledicendo il tempo che, quella domenica, ci impediva di “timbrare” (cioè di realizzare gite di rilievo), mentre l’unico vero desiderio di tutti era tornarsene a casa il prima possibile.
Nel tratto più ripido della salita, il Giuli sfoggiò dei piccoli cunei in legno (se non ricordo male, addirittura di sua costruzione) da inserire fra gli scarponi e gli attacchi: erano gli antesignani degli alzatacchi! Un innovatore fin dai primi tempi.
La sua evoluzione successiva si è maggiormente incentrata nell’alpinismo, sia come attività personale che nel risvolto didattico, dove il Giuli ha ricoperto un ruolo di rilievo per tutti questi decenni. Ci si incontrava spesso sia per i monti che in happening cittadini (specie ai Cappuccini) e ultimamente i nostri discorsi convergevano spesso su Gervasutti, inteso sia come personaggio storico (di cui anche Massimo era un profondo appassionato) che come Scuola.
Un’analisi più approfondita di Massimo Giuliberti (specie per la sua importanza nella vita della Scuola Gervasutti) è rintracciabile su Monti e Valli a firma di Andrea Giorda: https://www.caitorino.it/montievalli/2018/08/31/ricordo-di-massimo-giuliberti/
Un modo affettuoso per ricordarlo anche in questa sede è quello di riproporre il suo articolo sulla salita del Khan Tengri, un 7000 nella catena del Tien Shang, al confine fra Kazakistan e Kirghizistan (Carlo Crovella).
Khan Tengri, il signore degli spiriti
di Massimo Giuliberti
(pubblicato su Rivista del CAI, maggio-giugno 2008)
Testo e foto di Massimo Giuliberti
Antefatto
Dopo più di trenta stagioni di scorribande alpine, peraltro con ancora qualche sogno nel cassetto, negli ultimi anni il richiamo dell'”aria sottile” si fa sentire sempre più spesso, e quando il lavoro lo permette e ci sono i compagni giusti … non resta che partire.
La spedizione al Kongur del 2004 con la salita della Via del centenario CAAI (vedi Annuario CAAI 2005) ci aveva lasciato un ricordo indelebile, e così per quest’anno 2007 avevamo messo in programma una via nuova su un Settemila del Karakorum, che ci sembrava un ottimo compromesso tra periodo (agosto, quando è più facile prendere le ferie), durata (poco più di un mese), avventura (via nuova su una montagna salita una sola volta) e costo (accettabile). Purtroppo non tutte le ciambelle riescono col buco, e questa volta i buchi li hanno fatti alcuni compagni – tra cui il medico – che si sono “sfilati” due giorni prima della partenza!
Il risultato è presto detto: la gran parte del nostro materiale è in Pakistan; Mauro Penasa, il capo spedizione, si trova con la motivazione sotto i tacchi per tutto il lavoro preparatorio inutilmente sprecato (ricerche, contatti, spedizione materiale, pianificazione) e decide di andare in America ad arrampicare. Con l’amico Ezio Mosca – il Moschezio – io invece non voglio darmi per vinto, e cerco di orientarmi su un obiettivo in quota, realizzabile da una sola cordata in un periodo di circa quattro settimane.
La scelta cade sulla catena del Tien Shan, e in particolare sul Khan Tengri che, come mi fa subito notare Ezio, oltre ad essere considerata una delle montagne più belle del mondo (ma quante sono le montagne più belle del mondo?), oltre ad essere l’orgoglio nazionale del Kirghizistan (campeggia sulle banconote da 100 sum), è anche il 7000 più nordico della terra, con annessi e connessi di cui diremo dopo. In realtà l’elevazione geologica di questa montagna è di 6995 m, ma il suo limite glaciale è riconosciuto a 7 010 m. Dovendo descriverlo con paragoni alpini direi che è un Cervino… di 7000 metri.
Un po’ di geografia
La catena del Tien Shan si dirama a nord-ovest dell’altipiano del Pamir, nell’Asia centrale, e si estende sui territori del Kirghizistan, del Kazakistan (le ex repubbliche sovietiche oggi divenute stati indipendenti), e della Cina. Il più grande bacino glaciale di questa catena montuosa è il ghiacciaio Engilcek, lungo 65 km, che nella parte superiore, per circa 40 km, è diviso in due rami, nord e sud, da una catena che culmina nel Khan Tengri 7010 m, “il principe degli spiriti”, ritenuto per molto tempo la cima più alta del Tien Shan. Il primato dell’altezza spetta invece al Pik Pobeda, “il picco della vittoria”, che con i suoi 7439 m, e soprattutto con la sua poderosa cresta che supera i 7000 per svariati chilometri, segna il confine tra il Kirghizistan e la Cina.
Cenni storici
Il Khan Tengri fu salito per la prima volta nel 1931 da una spedizione sovietica guidata dall’ucraino Michail Pograbelski. In vetta, Pogrebeckij, Boris Tjurin e Franc Zauberer. Questi, passando dal ramo sud del ghiacciaio Engilcek, riuscirono, con grandi capacità logistiche, ad approvvigionare la spedizione per un lungo periodo, che consentì loro di superare la non facile cresta ovest della montagna, oggi considerata la “via normale”, anche grazie alla presenza di numerose corde fisse. A partire dagli anni ’60 sono seguite le salite degli altri versanti, tra cui la bellissima cresta sud detta “Cresta di marmo” (1964), la lunghissima cresta est (1973) e la grandiosa parete nord (1974).
Avvicinamento
L’accesso migliore alla montagna parte dalla città di Bishkek, la capitale del Kirghizistan, che raggiungiamo dall’Italia il 31 luglio con un volo della Turkysh Airline dove troviamo gli ultimi due posti liberi. Da Bishkek con 8 ore di viaggio su su un pulmino, in compagnia di una alpinista locale e di due russi che ingannano il tempo con la vodka cercando di coinvolgere anche noi, costeggiamo lungamente il bellissimo grande lago Issyk-kul, ed arriviamo a notte al Campo Base di Karkarà, a circa 2000 metri.
L’indomani ci rendiamo conto di essere in una bellissima vallata circondata da montagne verdeggianti di boschi e praterie, con un paesaggio molto simile alle nostre Alpi.
I Campi Base
Dal Campo base di Karkarà è possibile l’accesso ai veri e propri campi base Engilcek Sud o Engilcek Nord, che avviene normalmente avvalendosi dei poderosi elicotteri militari noleggiati per lo scopo dalle agenzie che gestiscono i campi stessi. L’accesso a piedi è possibile e, in base alle informazioni raccolte da due simpatici e squattrinati ragazzi polacchi (che in un mese e mezzo di permanenza hanno salito il Khan Tengri e il Pobeda!), richiede circa quattro giorni. Bisogna considerare inoltre che in zona non si trovano portatori. I campi base sono degli attendamenti collettivi, con tendina biposto individuale e tenda mensa e servizi collettivi, il clima che ne deriva in questo contesto cosmopolita è simpatico e curioso, favorito dall’abbondante utilizzo di vodka. Inoltre si possono scambiare utili informazioni nonché utilizzare le ricetrasmittenti messe a disposizione per mantenere un collegamento con i responsabili del campo base durante le salite in quota.
L’approccio dal versante sud è tecnicamente più semplice, in quanto consente di raggiungere il colle Ovest, dove normalmente si piazza il campo III, preferibilmente in una truna, con un percorso glaciale relativamente semplice di 2000 m di dislivello, percorribile in un giorno e mezzo. L’unico problema è il superamento di un tratto pericoloso poco prima del campo II, esposto a seracchi e slavine provocate dalle cornici della incombente parete del Chapaeva, che deve essere affrontato di notte o comunque prima che il sole arrivi sulla parete est del Chapaeva. Risulta pertanto indispensabile partire dal campo I non oltre le 3 di notte.
La salita al colle Ovest da Nord, ove si trova l’altro campo base, non comporta tratti pericolosi ma richiede il superamento del ripido versante settentrionale del Chapaeva, sino a una spalla da cui si scende al colle, con ripidi tratti attrezzati con corde fisse.
La nostra scelta, invero abbastanza casuale, cade sul versante sud, in quanto sappiamo che al campo base di questo versante troveremo alcuni amici italiani, e un po’ di aria di casa non fa mai male. Però non sappiamo che su questo versante i campi base sono ben due, gestiti da due diverse agenzie e distanti una mezz’oretta di cammino: naturalmente Ezio ed io ci siamo trovati in uno e gli altri nell’altro!
La salita
Essere sbarcati da un elicottero a 4000 metri provenendo dalla pianura, anche se dopo un volo indimenticabile sulle montagne del Tien Shan, è abbastanza traumatico per l’acclimatamento, e così il giorno di arrivo, 4 agosto 2007, sistemati i materiali nella tenda, è dedicato al riposo. L’indomani però, complice una giornata da cartolina, decidiamo di affrontare il comodo avvicinamento al campo I lungo il quasi pianeggiante ghiacciaio Engilcek, ancora coperto però da una abbondante nevicata dei giorni scorsi: con tre ore di cammino andiamo a piazzare una delle due tendine di cui disponiamo (entrambe prestateci da amici in quanto le nostre, con molto altro materiale, sono ancora ad Islamabad) a circa 4200 metri, un po’ più avanti del classico campo I (gli italiani devono sempre distinguersi), proprio ai piedi del canale che costituisce la salita al campo II. Ci accompagna Zamir, un simpatico russo che aveva fatto con noi il viaggio di avvicinamento, con cui ci esprimiamo a gesti perché non parla l’inglese, e che dice di voler fare un po’ di acclimatamento.
Alla sera siamo di ritorno al campo base dove riposiamo tutto il giorno successivo incominciando a fare conoscenza con i compagni del campo. Moschezio vorrebbe riposare due giorni ma io quando vedo bel tempo non riesco a star fermo e l’indomani nel pomeriggio raggiungiamo la tendina lasciata al campo I che ritroviamo… in una pozza d’acqua. Capiamo così perché gli altri mettono il campo I più in basso, su una lingua morenica, anziché in mezzo al ghiacciaio come abbiamo fatto noi senza rendercene conto a causa della neve fresca. Asciugata al meglio la tendina e scavato nel ghiaccio un canaletto di scolo ci cuciniamo il primo liofilizzato di una lunga serie e mentre stiamo mangiando vediamo arrivare Luca Vuerich, che con un compagno sloveno ha raggiunto la vetta del Khan Tengri in giornata dal campo base e ritorno in circa 24 ore! Ci corichiamo galvanizzati da questo exploit e un po’ invidiosi.
Alle 3 siamo già di partenza per rispettare le raccomandazioni del carismatico Dima, il responsabile del campo base, salitore del Khan Tengri per molte vie tra cui la parete nord e con all’attivo alcuni Ottomila. Lo scarso acclimatamento, un po’ di neve fresca dei giorni precedenti e una ventina di chili sulle spalle rendono questi mille metri di dislivello piuttosto faticosi, ma rispettiamo la tabella di marcia uscendo all’alba dal tratto pericoloso e arriviamo al campo II nel primo mattino. Il posto è splendido: un balcone sulla vallata a 5200 m di quota dominato dalla parete sud-ovest del Khan Tengri e con panorama spettacolare sul Pobeda. La giornata è dedicata ovviamente al riposo. L’indomani con comoda partenza alle sette del mattino saliamo verso il colle Sud e abbiamo il primo contatto con il freddo della zona. La neve caduta nella notte cancella spesso le tracce e, anche se il dislivello è poco, arriviamo sotto il colle Ovest piuttosto stanchi. Qui, a circa 5900 m, il vento è sempre forte e tutti consigliano di utilizzare una truna, costruendosela o trovandone libera una già fatta. Naturalmente quelle già fatte sono tutte occupate, da alpinisti in riposo o da materiali che aspettano il ritorno (dalla vetta?) dei legittimi proprietari, e quindi dopo una animata discussione con Ezio, un po’ scettico sulla possibilità di preparare qualcosa di decente, ci mettiamo al lavoro. L’esperienza ce la ricorderemo come una delle più gran faticate in quota della nostra vita ma dopo quattro ore abbiamo un bel buco sotto la neve dove dormire e cucinare. Nel pomeriggio arriva al campo III anche Zamir piuttosto stanco perché è salito in giornata dal campo I. Va a dormire in una delle trune già fatte e l’indomani scenderà con noi. La notte si dorme discretamente e la tabella di marcia è pienamente rispettata. Il giorno dopo scendiamo direttamente al campo base, seguiti da Zamir, e non prima di aver spiegato agli altri amici italiani che incrociamo che possono utilizzare la nostra truna magari… allargandola un po’.
Tutto per ora procede molto bene: abbiamo piazzato le due tendine e il materiale ai campi alti, ci siamo acclimatati e ci stiamo riposando piuttosto bene al campo base, almeno finché non mangiamo qualcosa di troppo che ci fa prolungare il riposo di un paio di giorni, con frequenti puntate alla latrina.
Finalmente il 13 agosto partiamo per il tentativo decisivo e alla sera siamo al campo I, che nella discesa precedente avevamo anche saggiamente riposizionato più in basso sulla morena. Il mattino successivo arriviamo di buon ora alla nostra tendina del campo II, dove ci riposiamo con un tè per poi salire direttamente al campo III, facilitati da un carico assai più leggero e da un acclimatamento molto migliore. Qui troviamo libera una truna molto più confortevole della nostra e senza esitazioni ci installiamo nel nuovo albergo a 4 stelle. Anche se ci corichiamo con uno splendido tramonto e con l’ultimo sole che illumina proprio la cresta ovest del Khan Tengri, da cui dovremo salire, il giorno dopo nevica. Una giornata di attesa è d’obbligo, e tutto sommato va abbastanza bene anche per migliorare l’acclimatamento. Il giorno dopo alle 5 il tempo è bello, fa molto freddo e tira un gran vento, e anche se ci sono almeno 30 centimetri di neve fresca alle 6 siamo di partenza insieme a quattro spagnoli arrivati al colle dal versante nord e a due bulgari saliti dal nostro stesso campo base. Per raggiungere il colle si deve superare un pendio ghiacciato di una cinquantina di metri, dove normalmente c’è una corda fissa, che però ora è sepolta dalla neve: in breve mi trovo dentro la terminale, fortunatamente piena di neve, e così inizia la giornata. La prima parte della cresta è piuttosto abbattuta e bella carica di neve fresca, e mi alterno a battere con uno degli spagnoli. Moschezio segue con gli altri spagnoli e i due bulgari. In un’ora circa arriviamo dove la cresta si raddrizza e iniziano le corde fisse. Il vento è forte e la mascherina da sci risulta molto utile. Mi sento gelare le mani e mi fermo spesso per riscaldarmele, ma nonostante questo mi sento bene e lentamente vedo distanziarsi Moschezio e anche lo spagnolo, la qual cosa mi dispiace ma le corde fisse consentono di procedere autonomamente, e così abbiamo deciso di fare. Dopo un terrazzino posto proprio sul filo, dove taluni che non temono il vento pongono il campo IV, la cresta presenta un paio di salti piuttosto ripidi, che senza le fisse sarebbero piuttosto ostici. L’itinerario poi traversa decisamente a destra per prendere un couloir che va a morire sotto a un tratto strapiombante. Qui si traversa ancora a destra per una cinquantina di metri e si raggiunge una spalla dove la parete incomincia ad abbattersi fino in vetta.
In punta arrivo da solo, dopo quasi 9 ore dal campo III, perché purtroppo nel frattempo Moschezio ha rinunciato, ritenendosi troppo lento, e come lui anche due spagnoli e i due bulgari. Dopo un quarto d’ora arriva Pedro, uno degli spagnoli, ed è bello essere insieme in cima. Anche se siamo molto stanchi per questo balzo di oltre mille metri la discesa è relativamente veloce sfruttando le fisse per calate in doppia. Risulta prezioso un “otto” prestatomi dai bulgari. In discesa il tempo si guasta e si mette a nevicare, e quando arriviamo alla base della cresta rocciosa siamo contenti di trovare qualche traccia dei compagni scesi prima, non senza qualche difficoltà. Quando arriva il buio siamo al pendio ghiacciato, ma fortunatamente gli altri hanno ritrovato la fissa e ci possiamo calare velocemente fino alle trune. Ezio sta già preparando il tè e mi racconta della discesa nella nebbia dicendomi di avere dei segni di congelamento alle dita che però non sembrano seri. Finalmente nel sacco a pelo assaporo la contentezza della vetta.
L’indomani le dita di Ezio non sono belle e quelle di Pedro ancora meno, così i due spagnoli che sono arrivati in cima scendono con noi dal versante sud per non dover affrontare le corde fisse del Chapaeva. Ezio ed io ci fermiamo qualche ora al campo II per smontare la tendina (nel frattempo gli altri italiani hanno piazzato la loro), e soprattutto per aspettare che il girare del sole renda meno pericoloso il tratto esposto. Al campo I riposiamo un po’ ma lasciamo lì la tendina che verremo a recuperare nei prossimi giorni. Quando fa buio siamo al campo base stanchi, felici ma preoccupati per le dita di Ezio.
Il ritorno
La sera del giorno dopo al campo base c’è la consegna del “certificat”, un diploma attestante l’avvenuta salita del Khan Tengri sottoscritto da Dima che, ci tiene a sottolinearlo, è una Guida certificata della ex Unione Sovietica. Una consuetudine del campo assai curiosa per noi italiani.
I pochi giorni che restano sono dedicati al riposo, a recuperare la tendina e il materiale del campo I con l’aiuto di Massimo Piras, uno dei tre amici italiani che purtroppo non sono riusciti a raggiungere la vetta, e a sommarie cure ai congelamenti del Moschezio. Questi ultimi secondo il parere del medico del campo base, peraltro assai più dedito alla vodka che a prodigare cure utili, non paiono gravi, ma Ezio non è troppo convinto e infatti se la caverà poi in Italia con un piccolo intervento e diversi mesi di riposo arrampicatorio. Ben diversa risulta invece la situazione delle dita dello spagnolo che viene imbarcato sul primo elicottero e rimpatriato subito. Anche lui fortunatamente se la caverà senza gravi amputazioni ma con una convalescenza più lunga. Un ultimo viaggio in elicottero, un faticoso spostamento in pullman, un po’ di turismo a Bishkek e il volo per l’Italia concludono la piccola spedizione, che lascia un bel ricordo fatto di una splendida vetta, di un clima “comunitario” al campo base, di un breve soggiorno in un paese fino a poco prima praticamente a noi sconosciuto, e infine di un compagno valido e soprattutto tollerante del carattere non proprio facile del sottoscritto.
Notizie utili
Per la salita con un minimo di margine, utile a far fronte a eventuali contrattempi, è bene disporre di 4 settimane, anche se una ventina di giorni Bishkek-Bishkek sono sufficienti, ovviamente a condizione di utilizzare l’elicottero per raggiungere il campo base. Anche se noi ci siamo appoggiati all’agenzia Focus di Renato Moro che ci avrebbe dovuto supportare nella spedizione in Pakistan, e con cui come sempre ci siamo trovati bene, è possibile appoggiarsi direttamente all’agenzia locale “ak-sai” di Bishkek (info@ak-sai.com. www.ak-sai.com) che provvede a tutto: soggiorno a Bishkek all’arrivo e alla partenza, trasferimenti , soggiorno al campo base. Della scelta tra campo base Sud o Nord abbiamo già detto prima. Al Campo base si dispone di una comoda tenda biposto con materassini e il vitto è abbondantemente fornito (colazione, pranzo e cena). Si possono anche acquistare birra e acqua minerale. Il materiale alpinistico è bene portarlo dall’Italia anche se a Bishek esistono negozi di articoli per alpinismo, dove si può anche acquistare il gas per i fornellini da quota. Il costo nel 2007 è risultato inferiore ai 1000 euro per l’agenzia “tutto compreso” dall’arrivo a Bishkek alla partenza, più altrettanti per il viaggio aereo Malpensa-lstanbul-Bishkek con la Turkish Airlines, questi ultimi probabilmente riducibili con una prenotazione anticipata. Nel 2007 il visto di ingresso in Kyrghyzstan si faceva anche all’aeroporto di Bishkek al momento dell’arrivo, ed era quindi sufficiente il passaporto valido ed un “invito” cui provvede l’agenzia cui ci si appoggia. Comunque è sempre bene informarsi prima della partenza.
Mitico Giuli!