Le Dolomiti nel primo Novecento – 2

Le Dolomiti nel primo Novecento – 2
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-18)

L’iniziativa dei cittadini sulle Dolomiti
Prima di inquadrare l’evoluzione dell’alpinismo senza guida sulle Dolomiti, strettamente connesso all’introduzione dei mezzi artificiali, sono necessarie alcune precisazioni a conclusione della parte dedicata alle guide che agirono in questo periodo.

Ancora una volta il giudizio di Piero Rossi è assai interessante: «Se l’alpinismo dolomitico non era ancora giunto, almeno in Italia, ad essere valutato nel suo giusto valore, resta il fatto che le maggiori imprese delle Dolomiti erano pari, se non superiori in difficoltà pura, ad ogni scalata delle Alpi. L’alpinismo italiano “accademico”, nonostante alcune nobili eccezioni, era stato spettatore: le maggiori vittorie erano state appannaggio di cordate straniere, tra cui alcuni puri dilettanti, in primis Dülfer e Preuss. Se l’alpinismo italiano non è rimasto estraneo a questa epoca, nel corso della quale sono state compiute tappe fondamentali per l’alpinismo nella sua interezza, ciò è merito precipuo, se non esclusivo, delle grandi guide delle Dolomiti, soprattutto intorno al 1910, di Angelo Dibona, di Francesco Jori, di Tita Piaz. Solo Berto Fanton e qualche trentino, fra i non professionisti, hanno saputo tenere il passo con il limite estremo allora raggiunto dall’alpinismo. Va anche rilevato come, allo scoppio della guerra mondiale, il vivaio di guide al di qua del confine si fosse pressoché estinto. I Dibona e gli Innerkofler militavano in campo avverso. Piaz, il patriota, era in prigione. Anche sul piano militare, l’indifferenza degli italiani per le Dolomiti si rivelò nociva, come fu preziosa all’Austria la profonda conoscenza di questo territorio da parte dei suoi alpinisti e delle sue guide (Piero Rossi, in I cento anni del Club Alpino Italiano)».

Napoleone Cozzi

Nell’analisi di Rossi si fa il nome degli Innerkofler. Dopo il grandissimo Michel, il vincitore della Cima Piccola di Lavaredo, dobbiamo anche ricordare Sepp Innerkofler, sia per i suoi notevoli meriti alpinistici, sia per il suo eroismo durante le operazioni belliche dell’esercito austriaco nella zona dolomitica. Le sue imprese di guerra nelle file dell’esercito austriaco sono quasi leggendarie: Sepp Innerkofler era la più grande guida alpina delle Dolomiti di Sesto ed aveva una conoscenza assolutamente perfetta di queste montagne. La sua collaborazione fu preziosa all’esercito austriaco, ma Innerkofler, durante un combattimento, cadde sulle pendici del Paterno, la “montagna degli alpini”, che sta di fronte alle Tre Cime di Lavaredo.

Abbiamo dunque visto che l’iniziativa cittadina faceva un po’ difetto sui monti dolomitici. Abbiamo anche esaminato i motivi appariscenti e quelli meno appariscenti per le Dolomiti. In quanto ai cittadini veneti, il discorso è un po’ differente. La stessa situazione politica delle Tre Venezia creava una situazione difficile agli italiani, certamente più facile agli austriaci che volessero recarsi sulle Dolomiti, come sarà anche dimostrato dai fatti.

Nel periodo che precede il conflitto bellico, generalmente ogni focolaio di alpinismo cittadino che sorge nel Veneto ha carattere patriottico ed irredentista. Soprattutto a Trieste, appunto, si venne a creare un gruppo assai vitale di arrampicatori, tra i quali spiccano le figure di Cozzi e di Zanutti. Forse per la sua particolare situazione politica, Trieste è sempre stata una città assai viva in ogni manifestazione sportiva ed anche il suo alpinismo, che ha dato rappresentanti di grandissimo valore come Comici, Del Vecchio e Cozzolino, ha sempre avuto uno spiccato carattere patriottico. Napoleone Cozzi è forse più famoso per un tentativo di salita al Campanile di Val Montanaia, che per le sue effettive realizzazioni. Il Campanile di Val Montanaia in realtà è una guglia dolomitica di non grandi pretese, come tante ce ne sono sulle Alpi. Però è posto in uno degli angoli più solitari e selvaggi delle Dolomiti (la zona degli Spalti da Toro) e sorge isolata da ogni altra parete, in mezzo ad un circo ghiaioso. È una torre strana, quasi unica nel suo genere, una specie di fungo più stretto alla base e più largo alla vetta, in modo che le sue pareti ed i suoi spigoli ne risultano verticali e strapiombanti. Proprio per queste sue caratteristiche, non era ancora stato scalato. Cozzi e Alberto Zanutti, il 7 settembre del 1902, superano le principali difficoltà, rappresentate soprattutto da una fessura strapiombante che ora è detta «Fessura Cozzi», ma si arrestano poco sotto la vetta e discendono. È la stessa storia del Campanile Basso e del tentativo di Pooli e di Garbari. Solo dieci giorni dopo, gli austriaci  Viktor Wolf  von Glanvell e Günther von Saar, al cui attivo va attribuita una metodica esplorazione di alcuni gruppi dolomitici, riprendono il tentativo di Cozzi e Zanutti, e raggiungono il punto massimo; poi, con un’astuta traversata (proprio come Ampferer al Campanile Basso), riescono a raggiungere rocce più facili che li portano in vetta.

I due triestini si rifecero ampiamente della sconfitta, realizzando le prime ascensioni della Torre Venezia e della Torre Trieste nel Gruppo del Civetta. Queste due realizzazioni sono decisamente importanti, non solo per le difficoltà tecniche superate, ma soprattutto perché aprirono all’alpinismo tutto il settore meridionale del Civetta che in seguito sarà teatro di imprese epiche e leggendarie da parte dei sestogradisti agordini degli anni Trenta. Soprattutto la conquista della fantastica Torre Trieste fu un’impresa di tutto rispetto, dove l’intuito e la bravura di Cozzi ebbero ragione delle notevoli difficoltà che la montagna opponeva ad ogni tentativo.

Purtroppo accanto a Cozzi e Zanutti non sono molti in questo periodo i cittadini che sanno esprimersi in Dolomiti al livello degli austriaci. Comunque, importanti sono le figure di Berto Fanton, appassionato esploratore delle Dolomiti d’Oltre Piave e aviatore caduto nei cieli del Monte Grappa il 17 maggio 1918; di Giovanni Chiggiato, di cui Antonio Berti disse: «Pioniere italiano nell’Agordino ed in Cadore, nell’era dei nuovi ardimenti, quando, domati i colossi, fu dato l’assalto alle cime minori, ma molto più ardue, e sui colossi già vinti vennero aperte più difficili vie», e Luigi Scotoni, alpinista trentino famoso per aver realizzato a soli 17 anni (nel 1908) la salita solitaria del grandioso spigolo nord del Crozzon di Brenta, credendo di farne la prima ascensione, già realizzata invece nel 1905 da Fritz Schneider e Adolf Schulze.

Questi gli uomini di pura azione. Ma accanto ad essi vi furono altri uomini che seppero agire anche con la penna e che seppero dare un contributo fondamentale alla conoscenza della montagna dolomitica negli ambienti alpinistici italiani. Parliamo di Arturo Andreoletti e di Antonio Berti. Il primo effettuò un numero veramente incredibile di prime ascensioni su tutte le Dolomiti ed anche nel Gruppo delle Grigne, dove realizzò la prima ascensione di alcune piccole guglie sulle quali in seguito i sestogradisti lecchesi troveranno un terreno ideale a scopo di palestra. Andreoletti ha al suo attivo imprese di prestigio, come la prima salita della gigantesca parete nord dell’Agner, un’impresa veramente storica realizzata con Zanutti e la guida Francesco Jori, su cui torneremo tra breve introducendo il discorso sul sesto grado; o come la scalata della Gusela del Vescovà (1913), una guglia straordinariamente affilata e sottile che si alza nelle Dolomiti Feltrine (in realtà Bellunesi, NdR). Comunque il suo merito principale è da ricercare nei suoi scritti, attraverso i quali la conoscenza di alcuni gruppi dolomitici (come le Pale di San Martino) si diffuse rapidamente e permise un’opera di collegamento, in seno agli ambienti alpinistici italiani delle Dolomiti, tra il mondo pionieristico dei De Falkner e la generazione di carattere più proletario del dopoguerra.

Lo stesso si può dire per Antonio Berti, la cui opera culturale supera di gran lunga i meriti di una pur notevolissima attività alpinistica compiuta sulle Dolomiti. Berti amava le Dolomiti come qualcosa di vivo e viveva l’alpinismo come una manifestazione artistica, dove il raggiungimento della poesia era lo sbocco naturale di una passione altamente sublimata, che seppe dare pagine di letteratura alpinistica di carattere quasi unico. A differenza di un Guido Rey, di cui parleremo tra breve, la cui letteratura, anche se elegantissima e perfetta, a volte pare un po’ eccessiva o per lo meno superata dalla storia, le “poesie” di Berti invece destano ancora una certa tenerezza o per lo meno riescono a ricreare un’immagine del mondo dolomitico che ancora oggi esiste e si riesce a scoprire con una certa sensibilità.

Comunque, il vero capolavoro del Berti resta la Guida delle Dolomiti Orientali, edita nel 1908, un’opera che permetterà ai cittadini e ai senza guida di conoscere più profondamente le Dolomiti e quindi di realizzarvi poi un numero impressionante di salite, portando in primissimo piano l’iniziativa italiana nel periodo compreso tra le due guerre. A proposito Massimo Mila dice: “La perfezionata conoscenza della catena alpina permetteva la compilazione di Guide sempre più esatte e sistematiche, e non soltanto geograficamente descrittive, ma capaci di venire incontro alle necessità degli alpinisti valutando le difficoltà, perfino suggerendo itinerari e problemi da risolvere. Di tali guide stampate, naturalmente s’affermava sempre più il bisogno, man mano che si diffondeva l’uso dell’alpinismo senza guide in carne ed ossa (Massimo Mila, Cento anni di alpinismo italiano)».

Dunque per quanto possa sembrare eccessivo, proprio la diffusione delle Guide alpinistiche e l’introduzione dei mezzi artificiali diedero un colpo mortale all’alpinismo con guida. Ormai il cittadino poteva far conto esclusivamente su se stesso: non per nulla, anche oggi, la diffusione di pubblicazioni e monografie su ogni gruppo della catena alpina incrementa sempre più l’alpinismo cittadino e mette seriamente in crisi il mestiere di guida. Le stesse guide perciò si stanno dando da fare per cercare un nuovo modo di condurre la professione più consono e più adatto alla mentalità e ai caratteri che l’alpinismo va assumendo oggi.

Comunque, anche a quei tempi «… la diffusione dell’alpinismo senza guide, oltre ad essere un naturale portato dell’evoluzione tecnica, per cui l’alpinismo cittadino si emancipa a poco a poco dai suoi naturali maestri, fa anche parte di un generale processo economico e sociale verso l’estensione democratica, che in quegli anni si va facendo strada in seno al piccolo mondo alpinistico conformemente al movimento generale della nazione. Sono gli anni dei ministeri giolittiani e dell’estensione del suffragio (Massimo Mila, op. cit.)».

Naturalmente vi saranno delle vivaci reazioni da parte aristocratica a questa “proletarizzazione” dell’alpinismo, che purtroppo, come si è già detto innanzi, sarà poi strumentalizzata dal fascismo a fini di propaganda nazionalistica e di superiorità della “razza latina”, giungendo a superare abbondantemente il ridicolo in occasione di alcune grandi imprese degli anni Trenta, dove il Duce elargiva medaglie e decorazioni al valore atletico ai campioni del sesto grado di quei tempi, testimoni di una fiera «scuola di ardimento e di italianità».

Gli scrittori alpinisti
Tutti gli alpinisti di ogni epoca hanno sempre cercato di comunicare le loro sensazioni e le loro emozioni attraverso le pagine di libri o di riviste specializzate. La letteratura alpinistica è quindi ricca di testimonianze e di stili assai differenti, che bene rispecchiano epoche e caratteri nazionali. Si va dal puro e semplice racconto di scalata, alla ricerca della descrizione, al tentativo di comunicare emozioni più intime e sopite. Gli inglesi sono sempre stati maestri dell’“understatement», di una prosa semplice e scabra, dove ogni sentimento, ogni caduta nel romantico, ogni concessione all’intimo, è accuratamente evitata e si lascia al lettore l’interpretazione più consona alla sua personalità. Non così i tedeschi e gli italiani. Nei primi l’atmosfera del dramma vive costante, l’uomo è sempre visto in proiezione idealizzata, l’azione è sempre eroica e tende al superiore. Gli italiani sembrano posseduti dall’azione e dalla descrizione della stessa nei minimi particolari, ma si abbandonano anche a lunghi “sfoghi” sentimentali a volte un po’ stucchevoli.

Comunque sia, nel giudicare gli scritti degli alpinisti, è bene sempre tenere molto presente la loro nazionalità, l’epoca in cui vissero e l’ambiente culturale da cui furono influenzati. Una critica distruttiva che non tenesse presenti questi fattori sarebbe troppo facile ed inutile.

Julius Kugy

Julius Kugy (II Romanticismo nell’alpinismo)
II dottor Julius Kugy era nato a Trieste, quando la città era ancora austriaca e quindi unanimemente viene considerato austriaco. Era un uomo di raffinata cultura, di carattere estremamente sensibile, una delle espressioni più tipiche che il Romanticismo abbia prodotto. Di fronte alla natura ed alle sue manifestazioni, si sentiva come smarrito e sperduto, provava una meraviglia arcana e lontana che subito lo trasferiva in un mondo ideale e non esistente nel reale, dove tutto brillava di una luce assolutamente più pura. D’altronde molti alpinisti provano questi sentimenti, ma pochi riescono a tradurli efficacemente nei loro scritti. La vita di Kugy (1858-1944) è la storia di un amore sconfinato per delle montagne scarne, silenziose, selvagge e un po’ tristi, che si adattavano a meraviglia al suo temperamento melanconico: le Alpi Giulie.

E pensare che fu la ricerca minuziosa di una pianticella, la Scabiosa trenta, a portarlo alle montagne. Kugy era scienziato e studioso, ma da allora divenne non solo alpinista di classe più che notevole, ma anche studioso appassionato di ogni aspetto della montagna e dei suoi monti: le Giulie e le Carniche. Il suo alpinismo, viste le premesse, non poteva essere che di stampo classico, anche se Kugy seguirà sempre con profonda passione e con grandissimo interesse l’evoluzione dell’alpinismo moderno: lo capirà anche, ma non ne sarà mai convinto fino in fondo. Tuttavia le imprese di Emilio Comici, compiute proprio sulle Alpi Giulie, lo lasceranno quasi stupefatto e ammirato ed egli esalterà l’audacia ed il coraggio del piccolo triestino, che d’altronde incarnava alla perfezione quel modello di eroismo romantico e idealista che Kugy aveva sempre perseguito e idealizzato.

L’attività alpinistica di Kugy è imponente: pochi come lui, in quell’epoca, realizzarono un così gran numero di ascensioni su tutto l’arco alpino. Ma il suo grande amore erano le Giulie, che aveva salito in ogni stagione e che conosceva in ogni dettaglio. Se vogliamo parlare dello scrittore, non dobbiamo dimenticare le premesse fatte: Kugy era un esponente tipico del Romanticismo. Ma come si è detto, al di là di una critica fin troppo facile, in Kugy ancora oggi troviamo, soprattutto quando ci parla delle sue Giulie, un non so che di magico e fanciullesco, quasi un senso di eterna giovinezza (che anche in Lammer sarà presente), non disgiunto da un vivo senso dell’umorismo, purtroppo mancante a volte in Guido Rey. Vi è dunque un messaggio tipicamente umano ed universale, che esce dagli schemi del tempo e della storia e che rende piacevole la sua lettura anche ai giorni nostri.

Guido Rey

Guido Rey (la retorica nell’alpinismo)
Se c’è stato un personaggio dell’alpinismo idealizzato e discusso, esaltato e criticato, questo è Guido Rey, cui toccò pure di essere definito “maestro e poeta dell’alpinismo italiano”, come si legge sulle tessere del Club Alpino Italiano, dove è riportata una sua frase celebre: “Io credo e credetti la lotta con l’Alpe utile come un lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede”.

Guido Rey ha molti meriti, indubbiamente, sia come alpinista che come scrittore. Torinese, colto, d’animo nobile e raffinato, Rey rappresenta alla perfezione quella figura di alpinista tipica in una certa letteratura dell’epoca. Il suo alpinismo, viste le premesse, fu dunque “classico” come quello di Kugy e come Kugy anche Rey forse idealizzò un po’ troppo le guide che agivano accanto a lui. Ma «… ciò posto, resta il fatto che se si va a vedere lo sconfinato elenco delle ascensioni di Guido Rey, ci si trova in presenza di un autentico conoscitore della montagna e buongustaio dell’alpinismo. Che ampiezza di interessi, che ricchezza di salite, e che qualità di tono!… Chi crede che in Rey ci fosse solo il pacifico poeta della montagna e non il combattente animoso si disinganni di fronte a questa battaglia ostinata, tenace, testarda fino a barare, contro quell’ultima cresta del monte a cui aveva consacrato se stesso, il proprio ingegno, quasi la propria esistenza… (Massimo Mila, Cento anni di alpinismo italiano)».

Guido Rey e il Cervino furono una cosa sola. A questa montagna dedicò un libro intero, che, malgrado la prosa un po’ ridondante e compiaciuta, resta pur sempre un capolavoro della letteratura alpinistica e testimonia quale turbine di sentimenti si agitasse in quell’uomo posto di fronte ai monti. Alcune descrizioni, ricche di aggettivi insoliti, preziose nel loro linguaggio, iperboliche, sono tra le pagine più interessanti dell’alpinismo. Cos’è piuttosto che oggi ci fa un po’ sorridere è la «troppa» serietà di Rey, quella sua assoluta mancanza di «humour», quel suo costante impegno ad essere costretto in quegli abiti aristocratici e serissimi, quella totale mancanza di concessioni verso il semplice, il terreno, il quotidiano. Abbiamo visto l’alpinista, che è fuori discussione in ogni caso: è inutile elencare tutte le prime ascensioni, le realizzazioni, le imprese di valore internazionale. È un curriculum impressionante, che spazia su tutta la catena alpina, dalle Alpi Marittime alle Dolomiti.

Parliamo piuttosto dello scrittore e dell’uomo. Se si può rimproverare qualcosa a Rey, questo è la troppa retorica dei suoi scritti ed una certa mistificazione che vien fatta dell’alpinista e del suo agire.

Non sappiamo oggi con esattezza come si svolsero le salite di Rey e quindi possiamo anche pensare che esse fossero accompagnate da sinfonie celestiali e che i componenti della cordata fossero costantemente squisiti e raffinati nel loro modo di fare. Ma chi l’alpinismo ha praticato, sa che vi è una contraddizione estrema in quest’attività ed in coloro che la praticano. Certo, vi troviamo sempre tutti i sentimenti così magnificamente espressi da Rey, ma vi troviamo anche quell’altro aspetto contraddittorio di cui Rey mai ha scritto e parlato. Una salita è fatta sì di piacere, ma anche di sofferenza, di atteggiamenti brutali e, anche se l’aggettivo oggi fa un po’ ridere, “volgari”, di situazioni di tensione estrema che si liberano in raffiche di imprecazioni non certo edificanti. Accanto al nobile, nell’uomo vi è sempre il meno nobile, che non va occultato, ma che va accettato e capito, proprio per mettere a fuoco la parte più nobile. Se invece a tutti costi si tende all’ancora più nobile, il quadro ne risulta falso ed artificioso. Ma l’epoca in cui Rey visse tendeva all’alto e al sublime, non si degnava di guardare verso le miserie umane, che non accettava nemmeno in se stesse e che disprezzava con commiserazione. Innanzi tutto Rey va capito, prima che criticato. È vero, l’eredità retorica che lascia all’alpinismo italiano è pesante, ma bisogna anche ammettere che attraverso i suoi scritti (soprattutto Alpinismo acrobatico dal titolo “proibito”, per l’epoca, ma dal contenuto molto innocente) furono moltissimi coloro che conobbero e si avvicinarono alla montagna e all’alpinismo. In ogni caso, dal punto di vista storico, i suoi scritti sono la diretta testimonianza di un’epoca precisa della storia dell’alpinismo, descritta con estrema bravura.

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Le Dolomiti nel primo Novecento – 2 ultima modifica: 2023-08-13T05:29:00+02:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Le Dolomiti nel primo Novecento – 2”

  1. Les Dolomites sont si belles, qu’elles ont attiré et attireront encore les amoureux et les “fous” du rocher.

  2. Guido Rey, a circa cinquant’anni (!), si inventò arrampicatore delle Dolomiti, sia pure con le guide alpine; si cimentò persino sulla parete sud della Marmolada. 
    Cosí facendo, dimostrò di possedere una mente aperta e curiosa, oltre che un fisico invidiabile a quell’età e a quei tempi. 
    Chissà se coloro che tanto lo criticarono o lo criticano tuttora per la sua presunta retorica avrebbero saputo fare di meglio, come fisico e soprattutto come mentalità, se fossero stati al suo posto negli anni Dieci del Novecento. 

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