La danza di Patrick Edlinger

La danza di Patrick Edlinger
di Alessandro Gogna
(già pubblicato su Scandere 1983, pagg. 64-69)

Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(3)

Un fugace incontro casuale nello stand della Grivel al Mias di Milano, un ricordo visivo di alcune sue belle foto d’arrampicata a strapiombo sul mare vicino a Tolone, una spaccata totale in una quinta buia a pochi metri dalle onde, la dichiarazione dell’apertura di un passaggio di 8a e relativa impressionante immagine del tetto in questione, mi avevano incuriosito: biondo, «faccia d’angelo» con labbro duro, occhi castani freddi e incisivi, Patrick Edlinger, 22 anni, ha quella sicurezza e quella presenza che determinano il successo di un fisico e di una mente evolutisi apposta per uno spettacolo continuo di potenza e di grazia. Nato a Dax, nelle Landes il 15 giugno 1960, avvicinate le montagne secondo i tradizionali canoni dell’alpinismo, ben presto giunge ai massimi livelli tecnici e, per dimostrarlo, basta ricordare una sua invernale in una stagione regolarmente nevosa, il 1979-1980. Egli compì assieme a Patrick Berhault la prima invernale della via Marmier-Mercadié, sui 1050 metri della parete nord-ovest dell’Ailefroide Occidentale. Impiegarono undici ore in parete, perché usarono le scarpette lisce, e l’impresa in totale durò solo ventitré ore, da Pré de Madame Carle a Pelvoux. Ma due anni fa si accorge d’essere irresistibilmente attratto dall’arrampicata pura e quindi dal passaggio, dal gesto, dalla difficoltà per la difficoltà, con conseguente separazione di tutto ciò dalle naturali condizioni oggettive in cui l’alpinismo ingloba normalmente la scalata: dislivelli, pericoli oggettivi, condizioni atmosferiche, isolamento della cordata.

Patrick Edlinger si appresta a superare in libera il passo chiave di Totem Bianco, Parete del Disertore, Valle dell’Orco, 10 giugno 1982. Patrick è morto a La-Palud-sur-Verdon il 16 novembre 2012, esattamente sei anni fa.

Grazie a questo taglio chirurgico l’alpinismo diventa sport, trattiene totalmente godimento estetico e fisico, si libera da leggenda e pericolo, acquista contorni più definiti, si individuano i particolari anche minimi di un’azione, si esaspera esteriormente quella competizione che nell’alpinismo è ben celata all’interno.

Purtroppo con la definizione dei particolari, con il restringersi geografico del campo di gioco, con l’interesse e l’attenzione costantemente concentrati su quei pochi passaggi o vie alla moda, l’arrampicata può diventare insignificante: ma il problema dell’aridità di un’azione dev’essere risolto solo dal singolo. Soprattutto non è una preoccupazione di Patrick che, essendo tra i migliori del

mondo, non avverte certo alcuna sensazione di sterilità nel proprio operato: anzi, è il continuo stimolato a fare sempre di più e con stile sempre più «pulito». Sorridendo Edlinger mi dice che «arrampicare» vuol dire salire, possibilmente da capocordata, senza usare alcun mezzo di progressione; le protezioni deve alloggiarle lo stesso capocordata, senza discesa preventiva dall’alto. Questo non vuol dire che Patrick voglia porre dei limiti a qualcuno: egli stesso fece ricorso a vari sistemi di attrezzatura senza pentimenti. Vuol dire solo che considera «vero arrampicare» solo una salita tradizionale e pulita. Il resto si accetta e si fa per conoscere meglio le proprie possibilità, un contorno senza reali prospettive di ulteriore creatività. «Gli uni ricercano un collegamento rapido e continuo dei movimenti per superare i passaggi al primo tentativo; gli altri preferiscono in un primo tempo assicurarsi dall’alto per poter lavorarsi i passaggi e salire in seguito la via realizzando un’esecuzione ripetitiva dei movimenti ed eliminando così tutta la suspense della “prima”. Quale che sia il metodo, nessuno di questi deve togliere niente all’altro. All free, punti in AO, riposi, salire in jumar un tiro o stare alla base solo a pensare che sarà proprio dura, poco importa, perché il fine resta sempre il medesimo, cercare nella scalata il piacere d’un certo sentirsi bene». E ancora «I metodi impiegati e lo spirito dell’arrampicata libera praticata qui (a Tolone) possono averci portato a commettere un errore al riguardo d’una certa etica, ma le generazioni future saranno capaci di fermarsi su un passo di VII o più, partendo dal basso, e sistemare una protezione? Glielo auguriamo!».

Patrick Edlinger in libera sul passo chiave di Totem Bianco, Parete del Disertore, Valle dell’Orco, 10 giugno 1982

Molto tempo è passato da quando Domenico Rudatis proclamava «dovunque la montagna più esplicitamente manifesta la sua potenza, dove questa si afferma in termini di assoluta verticalità e grandezza, dove, per così dire, l’architettura della montagna sembra significare una conquista più diretta, più violenta e più imperiosa delle altezze, si entra nel dominio del Sesto Grado». Quest’affermazione è ancora valida, ma solo in campo alpinistico. Per lo sport dell’arrampicata i parametri sono altri, infatti sono stati introdotti il settimo, l’ottavo, il nono grado: questi non misurano più l’impresa, la «performance» alpinistica, ma graduano soltanto la difficoltà di un passaggio o di una serie in cui il rischio sia oggettivamente limitato o con una corda dall’alto o da una fila di ottime protezioni, qualche volta sistemate preventivamente. Chi riesce a superare, dice Edlinger, le stesse difficoltà con assicurazioni poste dal basso, agisce nella tradizione.

Ma il discorso non è ancora chiaro. Ci sono tante parole, come ad esempio «tradizione», che assumono con il tempo diversi significati. Che dire dei chiodi già infissi, che dire delle ricognizioni dall’alto, che dire del «gardening» (giardinaggio, diserbaggio), pulizia preventiva di erba ma anche di fastidiosi detriti, che dire infine della decurtazione di dislivello nei confronti delle «architetture alpine» di cui parla Rudatis? Ogni chiodo già infisso è un appiglio virtuale e, anche se non lo si «tocca» ma ci si limita a passarvi il moschettone e la corda, il capocordata sa che esso è lì vicino a lui. Nel superamento in libera di un tale passaggio ci sarà solo una maggiorazione di difficoltà fisica e di tecnica d’equilibrio: la psiche interviene solo per supportare il fisico nella sofferenza, nel dolore di posizioni assurde e per evitare le tendiniti. La ricognizione dall’alto è il metodo migliore per scoprire le debolezze della parete, per togliere l’ultimo velo di avventura, per impegnarsi quindi di meno rispetto a una normale prestazione alpinistica e di più rispetto agli standard sportivi contenuti in una normale ascensione dal basso. Molta importanza nel «free climbing» è attribuita alla salita assolutamente pura, senza mai riposarsi sui chiodi, senza volare, senza «yoyoing». Le salite più impegnative richiedono, prima che si riesca a praticarle così, una lunga serie di tentativi. Durante i tentativi si scoprono i punti deboli, con l’aiuto della memoria si riduce il tempo di permanenza nella situazione critica, si spezza gradualmente l’insieme dell’impegno psichico. È il metodo himalayano applicato alle rocce di due lunghezze di corda. Finalmente arriva il fortissimo che riesce ad evitare il contatto con l’ultimo chiodo che resisteva e la via si dichiara «liberata». A volte le viene imposto un altro nome. In seguito arriva un altro campione e riesce a fare la stessa cosa senza però mai aver messo le sue mani su quella roccia, «on sight» quindi, a prima vista. La creatività di tipo alpinistico in impresa di questo genere è assai limitata se si pensa che i chiodi sono in posto, che si sa quali nut e di che misura usare, che il protagonista ha comunque sfruttato la documentazione e tutta la tradizione orale relativa a quella via: ci sono persone che, per poco, ti raccontano centimetro per centimetro ogni movimento e si sa già tutto prima di cominciare.

Patrick Edlinger in apertura della Fissure du Panetton, valle dell’Orco, 11 giugno 1982

Oggi si registra una salita di Heinz Mariacher (da capocordata) sulla via Brandler-Hasse alla Parete Rossa della Roda di Vael in assoluta arrampicata libera, senza voli, senza riposi sui chiodi. Wolfgang Güllich e Kurt Albert che in precedenza si erano riposati per ben due volte su altrettanti chiodi (la loro quindi non è ancora una salita in stile assolutamente puro) ne hanno parlato come di un ottavo grado; però tutti i chiodi erano e sono in posto, non occorre neppure aggiungere un nut. In più essi avevano già percorso più volte quella via, anche Mariacher. Ma allora il sesto grado di epica memoria forse non è mai stato superato! Quest’affermazione può provocare forse un moto di disgusto nei moderni, ma se ci si sofferma a meditare non si può non notare che almeno formalmente l’idea è condivisa anche dalla graduazione americana che con i suoi 5,10 – 5,11 – 5,12 – 5,13 tende al limite 6. Anche la francese fino a poco tempo fa ammetteva solo un 6a, un 6b e un 6c, ma oggi si è saliti all’8b. Se si elimina la confusione con la definizione di prestazione alpinistica e prestazione sportiva, l’equivoco sì chiarisce e si riconosce che il campo di applicazione del sesto grado eroico e classico è ormai traslocato in Himalaya, in Patagonia, in Alaska. Il gusto per il rischio è parte ineliminabile dell’alpinismo. Si potrebbe dire che non ci potrebbe essere storia senza rischio, ma solo cronaca sportiva. Ben sappiamo infatti come anche il free climbing porti alla solitaria integrale, senza corda, sulle pareti più impegnative. Patrick Edlinger ha superato del 7a in solitaria e intende migliorare ancora. Dunque il rischio fa ancora capolino ed è quindi proprio quel rischio in più che Patrick è disposto a correre che ne fa di lui un grande?

– Quello che conta è essere dinamici – mi dice. Ciò che Rudatis non aveva pensato è che il suo concetto mancava di dinamicità. lo sono dell’opinione, come già scrivevo quindici anni fa, che il limite psicofisico di una prestazione alpinistica non vari nel tempo e che la salita di Balmat e Paccard sul Monte Bianco rientra nel sesto grado, come pure la prima ascensione del Cervino, e che la massima categoria dell’umano osabile contiene la salita di Georg Winkler sul Vajolet, quella di Emil Solleder sul Civetta e quella di Pete Boardman e Joe Tasker sul Changabang: con questo dinamico spostamento di «valore» dell’architettura alpina sopravvive l’alpinismo eroico, cioè l’Azione, mentre sui sentieri abbondantemente battuti si affermano lo sport e la sua graduazione sportiva oltre il sesto.

E mentre tanti ragazzi cercano di imitare Edlinger e altri «mostri sacri», purtroppo senza chiedersi cosa c’è dietro al suo carisma ma dando per scontato che solo scrivendo con la stessa stilografica di Eugenio Montale si diventa grandi poeti, mentre altri meno giovani traguardano con rancore gli anni passati, senza più alcuna curiosità per il futuro oppure si rinchiudono in uno splendido isolamento di abissale ignoranza del presente, ci sono ancora migliaia che si alzano di notte e, al respiro di una falce fredda e lunare e al tempo scandito da sinistri scricchiolii di mostri ghiacciati, si liberano dalle «libertà» del «free climbing», saltano lo steccato e gustano il frutto dell’avventura. E tra questi Patrick Berhault, Jim Bridwell e tanti altri, anche lo stesso Edlinger.

Patrick Edlinger assicurato da Gabriele Beuchod su Dur en Dalle, 2aL, Gorges du Verdon, Provenza. 30 maggio 1982

La riprova di tutto ciò è nelle azioni e nel pensiero di molti. Patrick Edlinger non vuole essere un eroe, vuole essere il più bravo o tra i più bravi. Conquista della montagna, sofferenza prolungata, esposizione al rischio oggettivo e altri valori «maschili» non gli interessano più. Ma la libertà ch’egli si prende di infischiarsi dei valori tradizionali della montagna gli è data dall’aver egli già vissuto quell’esperienza, senza la quale non si matura e della quale non si può quindi fare a meno. È il primo a dire che arrampicare a certi livelli si differenzia dall’alpinismo, ma con tutta la sua volontà cerca di affermare e di esprimere altri valori, parimenti importanti: il gesto, la grazia, la scioltezza. E con essi esprime la sua propria creatività. La forza è solo un complemento al suo arrampicare che è fatto soprattutto di equilibri e di sapienti distribuzioni di peso. L’allenamento, e quindi la brutale ripetitività del gesto, già per se stesso concepito per scimmiottare il vero movimento d’arrampicata, non è per nulla esaltante.

Osservare il muoversi di Patrick è uno spettacolo anche per chi non è interessato a imparare. E chi lo conosce bene può dire quanto in realtà il suo animo sia distaccato dalla competizione “popolare”. Lo sport volgare infatti porta a trinciare giudizi, conduce alla faziosità e al tifo cieco e spesso offre spettacoli assai poco edificanti, come lo scambio di battute pesanti che si fanno prima dell’incontro due pugili, a beneficio di un pubblico abbastanza rozzo per apprezzarle. Ma a parte queste degenerazioni un po’ esagerate, tutto lo sport tende a considerare solo il vincente, il primo a tutti i costi, anche solo per un millesimo di secondo, a spese evidentemente del secondo e degli ultimi.

In alpinismo non c’è mai stato il credo assoluto nel Primo. Anzitutto è il Mito, la manifestazione dell’Avventura. Quando non c’è più Mito, ecco subentrare il feticcio e cioè un pupazzo cui si da tutta l’importanza che si è voluto sottrarre al Mito. Il recinto in cui si è voluto isolare in provetta sterilizzata la libertà non ammette alcuna forma di fantasia creativa. Nella caotica cronaca dello sport dell’arrampicata, tra gradi alti e gradi bassi, tra un Berhault dell’80 e un Manolo dell’82, tra un Finale moderno e un Val di Mello sprotetto, ogni vino nuovo fermenta. A ben vedere ci si focalizza sulle difficoltà limite del momento, in quei pochi centri d’arrampicata alla moda; si spia il chiodo in più, la leggera trazione di corda, in un intrigo coatto di piccole libertà carcerarie che ci si è imposti o si è lasciato che ci fossero imposte. Al di fuori di quelle trenta-quaranta vie, il resto è una «schifezza» oppure una «cazzata». Per certa gente salite come la Philipp al Civetta possono diventare una porcheria, un’ora in più per accedere alla parete può significare un giudizio stroncante sulla via stessa e quindi sull’impresa dei primi salitori che per fortuna se ne può fregare di tali giudizi infantili. È singolare che si tenda a una visione manichea del piccolo mondo cui si vuole dare importanza. Forse dividere serve a non sentirsi troppo piccoli ma non v’è nulla di meglio che negare interesse a una cosa per non liberarsene veramente e sempre più dura sarà la risalita della china per i nani di spirito.

Questi sono i prodotti di una nuova moda cui si stenta a sottrarsi, carica ancora di suggestioni dolciastre. Per fortuna si può ancora vedere, quasi di soppiatto, che ad alcuni capita di sorridere stancamente quando la massa sghignazza e vivere talvolta una gioia inesprimibile per aver condiviso con qualcuno un passaggio. Trovarsi al posto di sosta in una comunione che raramente ci è data, propria solo della danza o, meglio, della danza rituale, lungi da ogni scala di valori e dimentichi del giudizio altrui.

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La danza di Patrick Edlinger ultima modifica: 2018-11-16T05:08:39+01:00 da GognaBlog

4 pensieri su “La danza di Patrick Edlinger”

  1. Che bello!!!!!

    Malinconia quello che dice tanto tempo fa, o quasi preveggenza?

    E ancora «I metodi impiegati e lo spirito dell’arrampicata libera praticata qui (a Tolone) possono averci portato a commettere un errore al riguardo d’una certa etica, ma le generazioni future saranno capaci di fermarsi su un passo di VII o più, partendo dal basso, e sistemare una protezione? Glielo auguriamo!».

  2. Lo vidi per la prima volta al primo concorso di arrampicata a Bardonecchia, dove vinse. Ricordo che appena prima della finale fumo’ una sigaretta “pour decompresser” disse. Lo rividi a Bioux su “Minimum Plus” primo 8b+ dell’epoca. Poi a Chamonix sul Petit Mont Blanc che é un masso erratico della valle. Quando andavo nel Verdon lo vedevo sempre, ebbi l’occasione di ripetere  “Rideau de Guendaline” 7 b+ che lui fece “solo” e senza boudrier. Era un fortissimo, ma mori’ malamente. Non resse alla decadenza della vecchiaia. LUIGI

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