La Est del Monte Rosa
(relazione di Alessandro Gogna al convegno nazionale del CAAI, Domodossola, 12 ottobre 2019)
Il tema della storia dell’alpinismo, sia quella generale sia quelle più particolari di una regione o di un gruppo montuoso, dovrebbe essere trattato dalla nostra comunità in modo molto più approfondito di quanto facciamo già. Si può trascurare la storia per inerzia o per mancanza di tempo, ma non c’è nessuno che non la riconosca pilastro fondamentale per comprendere l’evoluzione di due secoli e mezzo di alpinismo.
Il tempo è tiranno, non è che in venti minuti si possa andare a fondo della storia di una montagna come il Monte Rosa. Perciò la prima scelta è stata quella di restringere il mio intervento alla parete est. Ma anche così non ci possiamo scordare che la Est del Rosa riempie di se stessa intere biblioteche.
Intanto per le sue dimensioni. La Est del Rosa, con suoi 2500 metri di dislivello e la sua imponente larghezza, è l’unica ad avere, nelle Alpi, quasi una dimensione himalayana. La Brenva ha un’altezza assai inferiore, e altre pareti, come la Nord dell’Eiger, i precipizi settentrionali del Monte Agnèr oppure ancora il Burèl o il Triglav, oltre ad essere molto inferiori di dislivello, sono muraglie rocciose che poco hanno a che fare con l’archetipo della dimensione himalayana.
Avvicinarsi alla storia di questa parete (come però anche a quella delle altre) è importante perché è una prima manifestazione di rispetto per la montagna e per gli uomini che l’hanno affrontata: rispetto che si traduce in umiltà, l’unico atteggiamento che possiamo avere nello svolgimento della nostra attività. Il disinteresse di chi dice “io vado in montagna per divertirmi” è sbagliato intrinsecamente. L’umiltà è importante perché ci dà modo di ascoltare e di imparare anche da persone che hanno agito prima di noi, anche decenni e secoli prima di noi. Questo non vuole dire seguirli, o fare esattamente quello che facevano loro. Le nostre tracce non saranno mai le loro, perché ciascuno di noi fa ciò che sente essere la sua strada, senza necessariamente copiarne qualcuna. Non è che sapere quello che hanno fatto i pionieri o quelli dell’epoca d’oro possa in qualche modo condizionare il nostro agire: è solo un aiuto, è solo un imparare da loro, è l’avere un bagaglio personale di conoscenze superiore a quella che si avrebbe con le sole nostre conoscenze e tecniche o con il solo istinto.
Prima di iniziare a tratteggiare la storia della Est del Rosa, occorre dire che in questi ultimi 30-35 anni le condizioni della parete sono cambiate radicalmente, come è cambiato il ghiacciaio. Una guida come quella di Gino Buscaini, pregevolissima perché fatta da un alpinista che quelle vie aveva percorso, anche se non certo tutte, oggi è purtroppo obsoleta e non descrive con precisione quello che oggi è la montagna. Come lo smagrito ghiacciaio, anche interi pendii si sono striminziti, e rocce che prima erano coperte da neve oggi sono scoperte e non trattengono più l’inevitabile movimento dei detriti. Se prima certi luoghi erano pericolosi oggi lo sono molto di più. In questi primi decenni del secolo XXI, certe linee sono percorribili solo in stagioni che non siano quella estiva, in modo da evitare d’essere sotto le continue traiettorie di quel pietrisco che prima era trattenuto e oggi non più.
Questo voi lo sapete benissimo, ma è importante sottolinearlo a chiunque un domani ci possa chiedere qualche informazione sulla Est del Rosa.
La storia di questa parete ha origine nel 1872, quando il 22 luglio l’inglese Richard Pendlebury (matematico, musicista e bibliofilo) e suo figlio William-Martin, con Charles Taylor risalirono il Canalone Marinelli alla Punta Dufour. Le loro guide erano i grandi Ferdinang Imseng e Gabriel Spechtenhauser, coadiuvati dalla guida locale Giovanni Oberto.
La prima salita della parete non passa certo inosservata: molti lessero con estrema attenzione la loro relazione sulla parete più alta delle Alpi. Prima di quest’impresa solo la prima salita della Brenva sul Monte Bianco poteva esserle assimilata. La 2a ascensione avviene il 10 agosto 1880, otto anni dopo: Robert von Landenfeld con Joseph Knubel, Clemente Imseng e un portatore. Rimane una curiosità che perfino Buscaini non sia riuscito a trovare il nome di questo portatore, ma quello non fu l’unico episodio. Non escludo di proseguire, magari in futuro, questa ricerca…
L’anno successivo, 8 agosto 1881, è segnato da una grave disgrazia, proprio sul Canalone Marinelli: vi viene travolto da una valanga Damiano Marinelli (ed è in suo onore che in seguito il canalone prese il suo nome) con la guida valtellinese Battista Pedranzini e quello stesso Ferdinand Imseng che ne aveva fatto la prima ascensione. In questa disgrazia terribile, che fece molto rumore, quasi come quello della cordata vincente sul Cervino, si salva solo il portatore Alessandro Corsi. Verrebbe da fare la facile battuta, che, se sei un portatore, per essere ricordato dalla storia devi come minimo sopravvivere a una catastrofe.
La terza salita è di Karl Schulz con Alexander Burgener e Clemens Perren, 14 agosto 1883; la 4a salita è di Ludwig Purtscheller, Emil e Otto Zsigmondy, senza guide, 13-14 agosto 1884. Mi dilungo un po’ in questo elenco perché non si può non notare che “nomi” abbiano qui fatto la storia. Oltre ai già citati Imseng e Knubel, anche Burgener, la grande guida di Albert Frederick Mummery, ma soprattutto i due fratelli Zsigmondy e di Purtscheller, da tutti riconosciuti i grandi iniziatori dell’alpinismo senza guide (direi argomento davvero interessante per questo convegno di accademici…). Che qualcuno abbia avuto l’ardire, nel 1884, di salire senza l’esperienza di una guida, senza cioè nessuno che conoscesse in precedenza la montagna o che fosse in grado fisicamente di scavare mille gradini e anche più nella neve, è di una nobiltà davvero straordinaria. Un coraggio da leoni, se guardiamo a come allora si salivano quelle difficoltà. Oggi, con le quattordici punte dei nostri ramponi e con un allenamento adeguato, ci sembra facile salire da lì. Ci rimane difficile capire come potessero farlo con i mezzi primitivi di cui disponevano.
Nella sesta salita troviamo Julius Kugy con Luigi Bonetti e Josef Marie Lochmatter, 13 agosto 1886. Kugy fu il grande esploratore e cantore delle Alpi Giulie, ma di certo non si limitava a queste. E Josef Marie Lochmatter era il padre di quel Lochmatter che scalerà la Cresta di Santa Caterina, come vedremo tra poco.
Per curiosità vi cito anche la 1a solitaria nel 1924 dell’ingegnere Angelo Taveggia (che cadrà dal Piz Roseg il 17 luglio 1926) e la 1a invernale, di Luciano Bettineschi con gli amici Felice Jacchini, Michele Pala e Lino Pironi, 5-6 febbraio 1965 (quando gli inverni erano veramente “inverni”). Scrive Teresio Valsesia: “Sulla Dufour il quartetto di guide macugnaghesi fu costretto a un durissimo bivacco sulle roccette terminali della cima più alta del Rosa. Vento violentissimo e temperatura a 40 sotto zero. Il dato, stimato da Luciano Bettineschi, ha trovato conferma in un articolo del giornalista svizzero Guido Tonella che aveva riportato la temperatura registrata quella notte al Plateau Rosa, ossia mile metri più in basso: -30 gradi. Michele Pala teneva dei collegamenti con Macugnaga attraverso una delle prime radio ricetrasmittenti, che però nel pomeriggio del 5 febbraio – con lo scatenarsi della bufera – rimase muta. Fortunatamente la paura è svanita il giorno seguente quando lui e i suoi compagni furono avvistati mentre scendevano sul versante di Zermatt dal famoso pilota dei ghiacciai” Hermann Geiger, in ricognizione sul suo minuscolo Piper. Nella cittadina svizzera i festeggiamenti per il centenario del Cervino furono anticipati con quelli per le guide italiane che avevano vinto la Dufour”.
Tocca al macugnaghese Walter Berardi effettuare la prima solitaria invernale, il 3 e 4 febbraio 1991.
Questa via oggi, nella stagione primaverile, è spesso discesa con gli sci. E anche questo contribuisce a offuscare il nostro superficiale giudizio su quanto riuscirono a fare i pionieri su questa parete. Anche qui rimane valida la battuta di Mummery sul Grépon: un picco inaccessibile, poi la salita più difficile delle Alpi, infine una facile ascensione per signore.
Dopo queste note sulla prima ascensione della parete, devo ancora una volta ricordare che le vie aperte su di essa sono davvero tante. Non le ho contate, ma siamo a diverse decine. Ho dovuto fare una selezione, per bellezza, o per importanza. Di certo colpevolmente, oltre alle scartate, avrò sottratto per dimenticanza qualche itinerario.
Nel luglio 1876 abbiamo la salita della via Brioschi alla Nordend. Questa e la più settentrionale delle quattro punte che costituiscono la sommità della parete est del Monte Rosa: Gnifetti, Zumstein, Dufour e Nordend. Luigi Brioschi salì questo stupendo itinerario con le guide Abraham e Ferdinand Imseng. Ancora lo stesso Imseng, quello che cinque anni dopo sarebbe morto sul Canalone Marinelli. La via è uno sperone roccioso, certo meno pericoloso di altri itinerari: per questo motivo la via ha avuto in seguito una certa fortuna, quindi parecchie ripetizioni: oggi è la più seguita.
La 2a ascensione è dell’inglese John Percy Farrar con le guide di Valtournenche Daniel Maquignaz e Jean-Baptiste Pellissier, 3 settembre 1898. Da notare il lungo intervallo di tempo, 22 anni dopo la prima ascensione. Sono cifre che la dicono lunga sull’impegno che queste salite richiedevano.
La 3a ascensione (14 agosto 1900) è di Antonio Facetti e Giuseppe Ongania con Antoine e Baptiste Maquignaz, Maurizio Zurbriggen e quell’Alessandro Corsi sopravvissuto alla tragedia Marinelli. Certo, il Corsi lo faceva per mestiere… però…
La 1a invernale è del qui presente Tino Micotti, assieme a Gualtiero Rognoni, Pierino Sartor e Piero Signini, 11-13 febbraio 1967.
Come dicevo, la via oggi è assai ripetuta per via della pericolosità assai relativa. Qualcuno le preferiva in passato la via Restelli, una via subito a sinistra della Brioschi e abbastanza similare.
Cosa assai strana, è soltanto del 1887 la salita della Cresta Signal alla Punta Gnifetti, praticamente il lungo e assai estetico crestone che divide il bacino di Macugnaga dal bacino della Valsesia, delimitando così a sinistra la grande parete est. L’evidenza di questa linea è incredibile e non fa neppure così tanta paura, essendo appunto una cresta: eppure è del tardivo 28 luglio 1887 la salita dell’inglese Harold Ward Topham con Aloys Supersaxo e un altro portatore anch’esso ignoto.
La 2a ascensione è nientemeno che di Guido Rey e Luigi Vaccarone con Daniel e Antoine Maquignaz e i soliti due portatori innominati, 27 agosto 1891.
La 1a invernale è di Ottavio Festa e Adolfo Vecchietti, 20 marzo 1948 (al limite dunque della convenzionale stagione invernale).
Passiamo al 1906, a un’altra elegante cresta, la Cresta di Santa Caterina alla Nordend. Partendo da quel bellissimo manto nevoso che costituisce la vetta della Nordend, questo itinerario è stato dapprima percorso in discesa, da Walter Flender con Heinrich Burgener e Ferdinand Furrer, 5 settembre 1899, quasi all’alba del secolo XX.
La prima salita la fa invece l’inglese Valentine John Eustace Ryan con Franz e Joseph Lochmatter, nel 1906. Questa cordata non ha bisogno di presentazione, tante e tali sono state le vie da loro firmate. Ryan non scrisse nulla di questa salita, a tal punto che, pur non avendo nessuno messo in dubbio la cosa, ci fu bisogno di alcune ripetizioni per delineare l’itinerario. E ancora oggi non si sa la data esatta, si sa solo che fu nel 1906. E’ una salita con passaggi di V grado, a quattromila metri e con l’equipaggiamento di allora: non stiamo parlando di difficoltà così classiche…
La 1a invernale è ancora di Luciano Bettineschi, assieme a Carlo e Felice Jacchini, Michele Pala e Lino Pironi, una cordata davvero prolifica, 10-11 febbraio 1967. Cito anche la 1a solitaria (17 agosto 1973) dell’ossolano Renzo Bez, purtroppo scomparso proprio in questo 2019.
Dopo 25 anni dall’apertura della Cresta di Santa Caterina, i francesi Jacques Lagarde e Lucien Devies si sono accorti della logicità e della bellezza di una via diretta sulla Punta Gnifetti. Lagarde era un genio dell’arrampicata su ghiaccio, colui che si spinse per primo oltre i limiti raggiunti dalla Scuola di Monaco (Welzenbach e soci). Questo straordinario ghiacciatore in compagnia di Jacques de Lépiney ed Henry de Ségogne nell’agosto del 1924 aveva forzato per la prima volta il versante nord dell’Aiguille du Plan: e, sempre nelle Aiguilles de Chamonix e con lo stesso de Ségogne, il 24-25 luglio 1926 aveva osato salire il Couloir alla Brèche du Caïman. Questo per dare un’idea del calibro di Lagarde. Si dice sempre Devies-Lagarde, forse per via dell’ordine alfabetico: ma in questo caso non c’è dubbio su chi sia stato il vero conduttore di quella cordata sulla Gnifetti. Devies era comunque anche lui un grande alpinista, che in seguito realizzò con Giusto Gervasutti importanti salite nel Delfinato.
Il 17 luglio 1931 nasce così, in giornata, la via dei Francesi alla Punta Gnifetti. La 2a ascensione è di Remo Minazzi, Dario Palazzolo e Arturo Peirano, dal 20 al 22 agosto 1933: di certo, visto il tempo impiegato, questa cordata ebbe molti problemi. Difficoltà ben maggiori le ebbero poi i primi salitori d’inverno, Armando Chiò e Dino Vanini, dal 25 al 27 febbraio 1965, che riuscirono nel loro epico intento a prezzo di gravi congelamenti. Scrive Teresio Valsesia: “Anche Chiò e Vanini subirono la stessa sorte fra i 25 e il 26 febbraio mentre erano impegnati sulla via più lunga delle Alpi: 2300 metri di dislivello, sempre sulla Est del Rosa, per raggiungere la capanna Margherita […]. Nonostante il turbine, il giorno seguente sono riusciti a raggiungere il rifugio e il 27 scendevano ad Alagna. “Armando Chiò riportò un gravissimo congelamento – scrisse l’accademico Mario Bisaccia – ma con una volontà e una preparazione morale eccezionale continuò alla testa della cordata sotto l’imperversare del vento”. Dovettero amputargli le dita dei piedi”.
Poi devo autocitarmi, per via della mia prima solitaria, il 17 giugno 1969.
Dieci anni dopo, un’impresa eccezionale ha registrato la grande evoluzione che in quel periodo si era verificato nella scalata su ghiaccio e nella discesa di pendii estremi con gli sci: la 1a discesa in sci (del 24 giugno 1979) è del fuoriclasse genovese Stefano De Benedetti. Non è da solo: è accompagnato dall’amico Gianni Comino che però disarrampica sui suoi ramponi.
Nel 1957, quindi dopo ben un quarto di secolo in cui la Est fu teatro delle imprese di Ettore Zapparoli, di cui dirò dopo, ecco la risoluzione di un problema roccioso, la via diretta alla parete sud-est del Gran Fillar. Questa montagna è un po’ defilata sulla destra ma, essendo situata prima della Cima di Jazzi, è parte integrante del versante orientale del Rosa, in pieno bacino di Macugnaga. Mario Bisaccia e Gino Buscaini, 24-25 luglio 1957, salgono i 600 m della parete, su difficoltà assai sostenute e con passaggi di V e V+. Dopo pochissimi giorni, la 2a salita è di Tino Micotti, Piero Signini, Piero Sartor e Livio Spedalieri, il 30 luglio 1967.
Con l’impresa del Gran Fillar si è passati ad affrontare le parti più rocciose della parete. Si continua per questa strada con l’evidente e cosiddetto Triangolo della parete est della Cima di Jazzi. A salirlo sono Mario Bisaccia, Nino Bertolini, Pierino Jacchini, Luigi Bodio e Aldo Fontana, 28-29 giugno 1959; cinque anni dopo, ecco la 2a ascensione, di Edoardo Morandi e Lino Pironi, il 19 agosto 1964. La 1a invernale è appannaggio di Mauro Ferrari e Walter Romen, 11-12 gennaio 1976; la 1a solitaria è della guida di Macugnaga Fabio Jacchini, 30 agosto 1985: che, non contento, ci ritorna anche per la 1a solitaria invernale, il 20 gennaio 1990.
Il Triangolo è stato poi in seguito ripreso da altri itinerari e varianti difficili, ma questo rimane quello base e più significativo.
Il 5-6 agosto 1972 viene aperta la via del Centenario alla Punta Gnifetti: è considerata la via diretta, sostanzialmente accanto alla via dei Francesi, di questa senz’altro più rocciosa e difficile. Gli autori sono Paolo Borghi e Ambrogio Cremonesi. Quest’ascensione è classificata ED, quindi VI grado. Gino Buscaini, nella sua guida, la giudica la “più sicura” di tutta la parete est. Non possiamo che concordare. La 2a ascensione e prima invernale è di Nino Cavallotti con la grande guida di Gressoney Arturo Squinobal, 18-20 gennaio 1976.
Siamo quasi alla fine. Abbiamo ancora da citare la grande salita del 18-19 giugno 1984, la Direttissima del Lenzuolo alla Nordend. La via è firmata niente meno che da Patrick Gabarrou, con il compagno Christophe Viard. Siamo in piena epoca piolet-traction, perciò possiamo aspettarci tratti di ghiaccio davvero ripidi, anche verticali e in qualche punto strapiombanti. L’esperienza di Gabarrou, che ha aperto vie su quasi tutte le più grandi montagne dell’arco alpino, è garanzia della bellezza e della difficoltà di questo itinerario.
Come vi dicevo, ci sono ancora tante vie finora non citate: il computo di vie e varianti è davvero lungo. Alcune vie non le ho prese in considerazione a causa della loro eccessiva pericolosità, anche in epoca precedente ai cambiamenti climatici, figuriamoci ora. Alcune altre vie sono praticamente sciistiche, come per esempio la parete est della Zumstein, che tra parentesi è anche il luogo dove scomparve Ettore Zapparoli, il 18 agosto 1951. Zapparoli aveva aperto in solitaria gli itinerari più pericolosi, una specie di roulette russa, come l’irripetuto Canalone della Solitudine alla Punta Nordend (17-18 settembre 1948). L’unica eccezione alla regola dell’azzardo seguita dal sempre solitario Zapparoli è la sua Cresta del Poeta (20-21 agosto 1937), parallela e a destra della via Brioschi, tra questa e il Canalone della Solitudine.
Sulla Est della Zumstein la via più significativa è quella di Claudio Schranz e Marco Roncaglioni, 24-25 giugno 1976.
Chiudo questa mia breve panoramica dicendo che di certo la storia non è finita. Anche perché questa eccellenza di misto e di ghiaccio è uno dei luoghi dove il recente cambiamento climatico ha più costretto gli alpinisti a mutare le proprie abitudini e i proprio obiettivi. E si sa che i cambiamenti sono anche delle nuove opportunità.
E non posso non osservare, come curiosità, che la guida di Macugnaga più famosa e importante di tutte, il leggendario Matthias Zurbriggen, colui che il 14 marzo 1895 salì per una via nuova e in prima solitaria il Mount Cook in Nuova Zelanda, e ancora per primo e da solo il tetto del Sud America, l’Aconcagua (14 gennaio 1897), non abbia autorevolmente firmato alcuna delle grandi prime ascensioni sulla Est del Rosa, pur avendola salita e scesa tante volte nel corso della sua carriera professionale.
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Sono cresciuto alpinisticamente sotto la Est del Rosa ho conosciuto il fich il Bettineschi e lo Schranz eravamo di casa allo Zamboni della Flora e Fausto Betta .un caro pensiero corre al Gian Paolo Bogo gestore del E. Sella.con lui rifornimenti e salite poi prematuramente scomparso.mi ricordo del Morandi e del grande Vannini un ultimo ricordo del Luciano Bettineschi mentre metteva la malta per la posa del bivacco Luino.Complimenti al Gogna bel articolo certo la Est è la più Himalayana delle pareti delle alpi..allora negli anni 70-80 -85 era di una maestosità unica come gli uomini della sottostante Macugnaga che della stessa e con la stessa ci vivevano.
Caro Alessandro, la tua relazione sulla est del Rosa è di grande interesse. Come giustamente citi la sciagura Marinelli, ricordo che un’altra sciagura colpì sulla est la cordata milanese Castelnuovo – Sommaruga -Bompadre il 15 agosto 1909. L’evento ebbe una grande risonanza, le ricerche proseguirono per tre anni, ci furono polemiche fra CAI Milano e guide locali (nel mio ultimo libro ho riportato in proposito documenti inediti dell’archivio storico del CAI Milano). A Castelnuovo è intitolata una delle Dames Anglaises, di cui fece la prima salita.
Un ricordo.
Degli amici salirono la via dei Francesi il giorno di capodanno del 1980 e bivaccarono in tenda in cima.
Durante la notte il vento li strappò via e si ritrovò qualcosa giù in fondo, anche dopo anni.
Avevo scalato tanto con Giampi (Gianpiero Volpi).
Molto interessante…tra passato e prese nte, ancora impossibile il futuro
Esprimere complimenti ed ammirazione ad Alessandro è quasi superfluo, conoscendo i suoi scritti da tempo immemore.
Tuttavia questo articolo mi ha particolarmente affascinato per il giusto equilibrio fra citazioni storiche e descrizioni tecniche. davvero un bel pezzo.
Tino Micotti: è stato mio istruttore al corso per titolati. Abbiamo trascorso delle belle giornate insieme, il cui ricordo è ancora netto nella mia memoria, nonostante si stia parlando di circa 35 anni fa…
Ciao!