Metadiario – 94 – La fine di un’epoca – (AG 1980-006)
Ogni volta che mi appresto a scartabellare in mezzo ai faldoni di corrispondenza non riesco a non pensare come era la vita quando ci si scrivevano lettere, ma anche cartoline, oggi così lontane come quel mondo che sa di poste italiane con i suoi proverbiali ammassi di missive inevase tra scioperi e inefficienza. Eppure sono piccoli tesori quelli che mi scorrono tra le dita, scritti a mano o battuti a macchina.
Ma di certo, pur essendo ancora assai lontani dal mondo delle e-mail, già ai primi anni Ottanta ci si scriveva meno e ci si telefonava di più, anche se la teleselezione era costosissima. In ogni caso qualcosa mi è andato perso, anche perché se prima un po’ maniacalmente scrivendo una lettera usavo la carta carbone e quindi ne producevo una copia, sempre sfogliando i faldoni mi accorgo che questo cominciavo a non farlo più tanto regolarmente…
Di quel 1980, anno dedicato alla per me ciclopica impresa dei Cento Nuovi Mattini che oggi qualcuno, facendomi sorridere, ha giudicato “ragioneristica”, ho poche lettere, la maggior parte di ordine lavorativo. Ma ho deciso di riportare qui, in queste “memorie”, almeno le tre che in qualche modo oggi mi sembrano degne di nota.
La prima lettera (31 luglio 1980) la inviai all’allora presidente della Sezione di Cagliari, il prof. ing. Angelo Berio. Già, perché già in piena estate, dopo la mia breve escursione in Sardegna, avevo deciso di dare precedenza non all’ipotetico volume 2 dei Cento Nuovi Mattini, bensì a una nuova impresa, di concezione assai diversa, che prendeva in considerazione l’intera Italia Meridionale. Non ebbi il coraggio di parlarne subito all’editore Zanichelli, visto che eravamo in pieno ballo con i Cento Nuovi Mattini. Però avevo ben chiaro che questa volta avevo bisogno di aiuto, non potevo contare solo sul semplice addossarmi di tutte le spese e sul pur essenziale aiuto di pochi amici. Ecco perché scrissi a Berio. Dopo un’introduzione in cui mi presentavo e che ovviamente qui tralascio, gli spiegavo in che modo ero venuto a contatto con il mondo della natura selvaggia sarda, nonché gli esponevo le nuove tendenze dell’alpinismo che avevo preso interesse a zone che tradizionalmente non aveva mai considerato.
«[…] Lei forse avrà capito dove voglio arrivare. La Sardegna è forse il territorio più adatto per l’arrampicata in tutta Italia. La vostra regione presenta strutture rocciose dai 50 ai 400 metri di dislivello, di ottima poccia (granito, calcare stupendi) e le presenta o sul mare o all’interno in una cornice naturale quasi magica. Il vantaggio del pressoché perenne bel tempo è un ulteriore motivo di attrazione. La facilità di abbinare all’arrampicata le vacanze al mare o gli interessi naturalistici, turistici, archeologici è pure un punto positivo.
In un momento in cui in un centro d’arrampicata come quello dell’entroterra di Finale Ligure si contano fino a 250 ragazzi ad ogni fine settimane, tutti con corde e materiale d’arrampicata, piacevolmente impegnati in un ambiente alquanto simile (macchia mediterranea) a quello sardo, in un momento in cui le Calanques di Marsiglia vedono fino a 300-400 presenze giornaliere, è chiaro che se la Sardegna offrisse una pubblicazione su questo argomento sarebbe la benvenuta. Anche le centinaia di arrampicatori francesi, belgi, svizzeri, tedeschi non tarderebbero ad apparire.
La scoperta e la valorizzazione delle strutture rocciose sarde contribuirebbe con le presenze numeriche allo sviluppo turistico e con la frequenza alla manutenzione di certi sentieri ormai da tempo abbandonati dai pastrori. Ritengo quest’ultimo un aspetto particolarmente importante. Lei sa certamente che montagna abbandonata è uguale a rapida decadenza ambientale e inselvatichimento generalizzato. Qualche volta l’uomo, se ben educato, può essere utile con la sua presenza.
E vengo al mio progetto. Potrei dedicare tre mesi durante il prossimo inverno 1980-81 alla compilazione in luogo di una pubblicazione sull’arrampicata in Sardegna. E’ tutto da decidere riguardo al formato, al costo, al “taglio tecnico”, anche se certamente ho le mie idee in proposito e anche se Zanichelli sarebbe disponibile a stampare il tutto per l’ottobre 1982.
So già che avrò bisogno dell’aiuto delle province (o meglio della Regione Sardegna) e dell’appoggio del CAI e di chiunque creda in questo progetto.
In quei tre mesi percorrerei la Sardegna dormendo nel mio pullmino, o in tenda, o in case private assieme ai miei tre compagni. Naturalmente l’aiuto di alpinisti sardi, esperti dei luoghi, è più che necessaria e di certo farei riferimento anche a ciò che di alpinistico è stato già fatto finora nell’isola.
Spero di averLa interessata con questa mia lunga lettera. Dal 20 al 23 settembre potrei venire a Cagliari […]».
Non ricordo se ricevetti mai risposta, ma se per caso riscontro ci fu di certo non mi piacque. In ogni caso, avrei presto scoperto (e anche in definitiva accettato) che nessun aiuto mi sarebbe stato dato… e che ogni programma sarebbe stato svolto secondo le solite modalità dell’essere completamente bradi, liberi e pezzenti.
Nel gennaio di quell’anno 1980 scrissi a Reinhold per via della prossima uscita del libro K2, del quale sarei stato co-autore. Con mia sorpresa mi rispose la moglie Uschi Demeter (2 febbraio 1980) che, dopo avermi ragguagliato sull’assenza del marito e sul suo essere a Funes per addestrare Veronica, la nuova factotum di Reinhold, passò a esprimermi cose più personali. Fu lì che intesi, con dispiacere per la grande stima che avevo di lei, che le cose in quel matrimonio non funzionavano più bene e che lei si era trasferita a Monaco.
«Quando non sono tra le zingare per il mio libro vivo sempre fuori di Monaco, faccio dei film di letteratura per la TV e provo di superare la mia depressione gigante che ho portato dalla Romania socialista e le mie esperienze con la polizia segreta.
La vita con i zingari e loro philosophia mi piace tanto ma la confrontazione di questa vita con il mio personaggio decadente mi ha messo in una crisi profondissima.
Mi ricordo sempre della nostra discussione almeno quattro anni fa. Se vieni un giorno a Monaco devi telefonarmi. Il mio numero è 08157/2106».
Dopo questa lettera passarono vari mesi, ma alla fine devo averle risposto: e a quel punto probabilmente anch’io mi ero lasciato andare a qualche confidenza. Purtroppo non ho copia.
La sua risposta è datata “Feldafing, 18 novembre 1980”:
«Caro Sandro, mi sembra che l’astrologia è una cosa seria. Tu sei Leone come me e se mi scrivi della tua situazione mentale descrivi la mia. Sono forte commossa.
Solo, per me anche il lavoro da fastidio. Ho molte idee, storie, phantasie – quasi libri – in me, vivaci e non decadenti, ma non posso essere produttiva. La mia libido è in uno stato di regressione assoluta. Nel mondo tedesco una cosa durissima, perché nessuno capisce nulla. Così la tua lettera era come un fiore nella neve. Perché sento che devo solo aspettare tranquillamente fin ché viene il tempo giusto.
Ma come devo vivere, lavoro anche adesso. Sono stata per mesi in Corsica e ho fatto un grande articolo su i problemi autonomisti, separatisti, nazionalisti in confronto del centralismo francese. Ho tentato anche di far capire l’anima corsa, mito, religione, poesia. Su questa isola si svolge una tragedia.
Chiedi perché lavoriamo. La gloria, certo, ma per me molto più importante è di confrontare le persone con la loro (e nostre) rimozioni.
Personalmente sto bene. Tranquilla, equilibrata, sola. Ho trovato la calma e serenità tanto cercata. L’ho ritrovata quando ho capito che non posso vivere determinata solo dall’intelletto. Adesso mi lascio portare di vibrazione ed ho ritrovato la mia intuizione.
Non si riconoscono solo le persone creative, si riconoscono anche le persone affini. Tu mi sei molto vicino da un pomeriggio a Funes, e lo rimani anche se non ti rivedrò mai, ed anche se non posso esprimermi con il mio italiano povero.
Mi piacerebbe tanto di leggere che hai scritto nell’ultimo tempo. Se lavori, cosa lavori?
Anch’io ti auguro qualche cosa: di non vivere contro te stesso. Trasformati, trasformati, solo nella trasformazione si vive.
Ho capito perché scrivo sui zingari. Loro dicono: la vita è un viaggio. Ciao, caro, Uschi. Eh, sì, gioco con me stessa…».
Per le feste dell’Immacolata invitai un po’ di amici alle Fate Nere, che si trasformò in un bivacco assurdo di un campionario di umanità ai limiti della depravazione… Se il 6 dicembre scalai con il Gigante (Andrea Savonitto) sulla vicina e comoda Cascata di Mascognaz, l’8 aprimmo un nuovo ma abbastanza facile colatoio, Capitan Uncino, che sale nei boschi ripidi di fianco e al nord degli impianti per il Crest. Su quel facile itinerario di sei lunghezze eravamo in sette, perché oltre al Gigante c’erano anche Guido Azzalea, Monica Mazzucchi, Roberto Bonelli e Umberto Villotta, più un altro che non ricordo.
Ero impegnato a preparare il prossimo viaggio in Sardegna, così mi vedevo con coloro che pensavo potessero venire con me. Tra questi c’era anche Manolo. Per approfondire la conoscenza con lui lo invitai a venire a Milano e poi andare qualche giorno a Finale Ligure. Scalammo per due giorni a Monte Cucco con un tempo freddiccio perché dicembrino. L’11 sulla via del Tetto, sulla via Satori e sulla via dell’Ottico; il 12 sulla via Machetto, sulla via della Torre, sul Diedro Rosso e sulla via degli Allievi.
Dormivamo in pullmino e intanto parlavamo, parlavamo. Lui non era noto per essere molto loquace, né in pubblico né in privato… ma in quei giorni rivelò la sua vera natura, mettendo da parte, almeno con un amico, la sua timidezza.
Ero ben al corrente delle sue capacità arrampicatorie: Manolo era già allora un mito. Ma vederlo danzare con una facilità impressionante su quelli che allora erano tra gli itinerari più duri del Finalese mi fece davvero impressione.
Anche il 13 producemmo vie: la via Brüsabaracche e la via del Vecchio a Rocca di Perti furono solo l’introibo alla via INPS del Bric Pianarella. Il giorno dopo dovevamo ripartire, pertanto ci limitammo alla via Miranda sulla Rocca degli Uccelli: lui la salì tutta in libera con una facilità invidiabile, io mi attaccai a ben sei chiodi.
Il soggiorno a Finale con Manolo mise fine a un’epoca che solo la lavorazione dei Cento Nuovi Mattini era riuscita a interrompere: il vivere Finale molto goliardicamente, tra grandi bevute e bravate senza senso, seguite da notti senza limiti. Dopo quel 1980 avevo capito che anche nella ribellione doveva comunque esserci un ordine. Ci era andata bene. Ricordo una serata assai alcolica passata a danneggiare, nella stupidità più becera, i rami delle palme del lungomare di Finale, nell’assurda sfida di chi saliva più in alto e riusciva a strapparne più d’uno; la stessa serata era continuata trascinando fin sotto al sagrato della chiesa parrocchiale un cassonetto metallico della spazzatura, di quelli grossi con le rotelle, dando fuoco al contenuto e, allorché le fiamme erano alte, ribaltando lo stesso sui gradini, in modo che i rifiuti che stavano bruciando si spargessero tra le nostre ebeti risate. A malapena riuscimmo a fuggire prima che qualcuno chiamasse pompieri e carabinieri.
Un’altra volta ci fu una riunione di ubriaconi sul piazzale della Rocca degli Uccelli. Ricordo che tra i presenti, un ferroviere, amico di Massimo Demichela, tal Picone, si sentì male e fummo a un pelo dalla decisione di portarlo in ospedale.
Anche Nella ovviamente era parte della futura spedizione in Sardegna: approfittai di quel progetto per coinvolgerla maggiormente nell’arrampicata. Visto che le era particolarmente piaciuto lo Zucco dell’Angelone, la portai (il 21 dicembre) sulla via Cavallo bolso alle Placche di Pietracalma e su Coma etilico.
Dopo di che ci trasferimmo alle Fate Nere: il bel tempo di quell’inverno freddo ma praticamente privo di neve (il primo di una lunghissima serie che dura a tutt’oggi) ci fece scalare quasi tutti i giorni. Il 27 portai Nella su un altro colatoio, che avevo osservato salendo su Capitan Uncino. Questo era ancora più facile, ma bellissimo e anche lui di sei lunghezze. Lo chiamammo Micio nero, per via di una gattino di quel colore che ogni tanto veniva a casa nostra a prendere un po’ di caldo.
Michela Palestro era la fidanzata di Mario Pelizzaro: non ricordo più per quale meccanismo, però Michela stette con noi la sera e il giorno dopo (29 dicembre): la portai su un colatoio rivolto a sud che si sviluppa a est del Crest, in mezzo ai pendii erbosi. Anche quella era una salita facile, ma anche a dire di Oliviero Frachey, nessuno l’aveva mai fatta. Nella inizialmente non si volle legare con noi, di certo ossessionata dal confronto con un’altra. Però era lì presente, pertanto quando scendemmo la costrinsi a legarsi con me: così risalii il colatoio di sei lunghezze per la seconda volta. Lo chiamammo Cascata delle Bilance, per via del loro segno zodiacale. Forti di questo risultato, questa volta tutti e tre assieme, salimmo il quasi contiguo colatoio della Cascata del Sole calante, più breve, ma non abbastanza per minacciare un ritorno al buio.
Il 30 tornai alla Cascata delle Bilance con Lisin Cornale, mentre il giorno di Capodanno andai con Nella ed Ettore Pagani a ripetere Capitan Uncino.
Le giornate erano brevi e fredde ma, ben coperti, ci divertivamo parecchio su questi facili itinerari. Tanto che il 2 gennaio portai Ettore a fare Micio Nero. Ettore ci aveva preso gusto, così decisi che era il momento di andare a fare qualcosa di un po’ più impegnativo. Nei pressi dell’Alpe Cortoz, avevo notato due cascate imponenti, verticali, sotto al Monte Croce 2894 m. Scelsi quella di sinistra, che sembrava meno impegnativa, e la salimmo la mattina del 3 gennaio. Con gli attrezzi di allora, anche se innovativi per quel tempo, quella cascata non fu uno scherzo. Lunga cinque tiri di corda, si svolge in un ambiente alquanto severo. Siccome con la piccozza mi ero inavvertitamente danneggiato i sovrapantaloni, chiamammo quella cascata Sbregoretex: oggi è una salita che vanta parecchie ripetizioni. Chiudemmo le vacanze con Ettore con un’ulteriore salita della Cascata di Mascognaz (4 gennaio).
E arriviamo alla terza lettera, promessa all’inizio.
Questa era di Marco Marantonio, senza data ma sicuramente spedita ai primi di dicembre. Avevo invitato Marco al giro in Sardegna, previsto per gennaio: la sua era una lettera di risposta, sistema di comunicazione che aveva scelto soprattutto a causa dei costi di teleselezione che evidentemente a casa sua qualcuno gli aveva contestato con violenza.
«Ciao Alessandro, ciao Nella. Ecco le ultime di quella che è, per così dire, la mia situazione (schematicamente):
1) A causa di un movimento non identificato (nel tempo, s’intende) ho un’infiammazione al menisco mediale del ginocchio destro (diagnosi del dr. Chiappuzzo, luminare italiano dei menischi… un meniscalco, insomma…);
2) La cura, a base di Marconiterapia e pillolame, ho dovuto interromperla a metà a causa di una malefica influenza… Tutto daccapo, tutto da rifare (e intanto la gamba diventa sempre più piccola, atrofia muscolare);
3) Ammesso e non concesso (col culo che mi ritrovo!) che a) la cura termini entro Natale e b) che il menisco per quel santo giorno sia a posto, tra rieducazione dell’arto e il riprendere ad arrampicare (a Natale saranno due mesi di assoluta inattività) in modo decente passerà un bel mesetto, forse due (sempre a detta del meniscalco);
4) Da questo brillante quadro, sul quale, molto pietosamente, ti risparmio le mie considerazioni (leggi lamentele, pianti, bestemmie) avrai certamente arguito che AL SUD NON POSSO VENIRE E NEMMENO AL NORD.
Questa lettera ti può sembrare poco seria: ma sotto l’effetto di 2 grammi di eritromicina, sai… la testa è un po’ quello che è.
Ah, il mio futuro accademico è la GEOLOGIA.
Donne? Da me non c’è un cazzo.
Futuro? Fu duro.
Due righe di mugugno solamente ma, belin, l’inchiostro “u custa” (anche la carta da lettere!?).
Saluti e auguroni a te e, se ti ricordi, a Ivan, Massimo e Carmelina, […] e a Nella un bacione.
PS.
1) Mettimi le 10.000 lire in banca, anzi comprami un BOT, altrimenti si svalutano;
2) Se non mi rispondi (anche telefonicamente) non importa. So che “time is money” e tu soldi ne hai già pochi (dico sul serio) e tempo ancor meno».
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“[…] ciclopica impresa dei Cento Nuovi Mattini che oggi qualcuno, facendomi sorridere, ha giudicato ‘ragioneristica‘ […].”
È l’ennesima conferma: i barbari (= gli arroganti, gli imbecilli, gli ignoranti) si stanno impadronendo del mondo, purtroppo non soltanto quello dell’alpinismo.
Oggigiorno vince chi urla, a prescindere da ciò che dice.
In un blog come questo, se voi due non ci foste, bisognerebbe inventarvi.
Si può fare montagna, da Finale al Monte Bianco, pur essendo bravi ragazzi con un fare “di buona famiglia”. Dico questo proprio al seguito di questo bell’articolo, dove ho scoperto che, nel mio periodo finalese (88-92 quello con mia frequentazione più intensa e sistematica) noi bravi ragazzi, con i capelli all’umbertina e una sola fidanzata, facevamo proprio le vie citate nel testo. È vero che erano trascorsi circa 10 anni fra i fatti raccontati qui e le mie ripetizioni, ma scoprire che pezzi da novanta dell’arrampicata come Gogna e Manolo si divertivano sulla via del vecchio o sul diedro rosso (appunto.le vie del mio Finale)… mi fa sentire un po’ meno arrampicatore “medio”…
A cavallo del 90 quelle erano gia’ diventate vie da arrampicatori “collaterali”. Per carità io mi sono divertito un sacco e non rimpiango il mio approccio, anche se gli Estremi del mio momento mi guardavano dall’alto in basso. In particolare ci deridevano perché noi, da bravi caiani, usavamo il casco, che loro chiamavano “elmo” con evidente finalità di sfottò.
Strano destino quello del casco. Proprio in questo periodo sto verificando che, fra gli scialpinisti alla moda, il caschetto da gara fa molto figo. Si collega alla tutina e agli sci da gara, leggeri, costosissimi e iperperformanti. Parlo di gente che poi fa gite domenicali di stampo classico. Ho collegato il diverso valore attribuito al casco. A Finale trenta anni fa, portare il casco era da sfigato caiano pauroso di tutto. Oggi sulle nevi sono i superfighi ipertecnologici che indossano il casco anche in scialpinistiche dall’impegno classico. Come cambiano i tempi!
Io sono sempre fuori dal gregge. A Finale nel 90 portavo il casco. Nelle gite scislpinistiche “normali” (cioè no sci ripido), non l’ho mai indossato e continuo a non indossarlo, suscitando la disapprovazione dei miei colleghi ipertitolati….
Bradi, liberi e pezzenti è quello che da il senso a tutto.