La libertà dal limite, sulla Montagna Sacra
riflessioni a margine di La libertà del limite di Alessandro Gogna dell’8 dicembre 2022
di Alberto Peruffo
(Montecchio Maggiore, 15 dicembre 2022)
Condivido molti dei commenti al post di Alessandro Gogna, specie alcuni passaggi del primo di Marcello Cominetti e di quello di Carlo Crovella, ma anche le sottolineature della lettera di Carlo Alberto Pinelli e gli ultimi di Ines Millesimi e di Roberto Pasini.
Avendo Toni Farina (v. in calce) e Alessandro allertato la mia attenzione, in questi giorni, sulla montagna “sacra”, provo a commentare di mio, questo importante articolo.
Vado di getto, umilmente, lasciandomi trascinare dal difficile argomento, senza badare a critiche o a lunghezze. [piccole aggiunte in questa revisione/redazione, tra parentesi quadre]
In primis, torna utile, credo, avere bene in mente la differenza tra “confine” e “limite” aiuta moltissimo, concettualmente.
Il primo è transitabile, attraversabile, il secondo no.
Il limite al massimo lo si sposta, ma non lo si supera, se è veramente tale.
Entrando nel cuore dell’articolo di Alessandro, non credo che l’anima dell’alpinismo sia la conquista, forse solo quella parte di anima venduta al diavolo. L’anima “radicata”, o radicale, dell’alpinismo, è “l’andare oltre”, rispettando il limite.
Quell’oltre è lo sguardo, la visione, l’orizzonte non-pre-visto.
Quel limite è il corpo, i corpi, montagna compresa.
È, in breve, la relazione tra il nostro corpo psico-fisico e quello della montagna, che non deve essere alterato da noi, pena una libertà artificiosa, artificiale, fatta a nostra somiglianza, a nostro uso e consumo. L’errore della conquista.
In secondo luogo, sarei più cauto nel separare in modo dicotomico avventura/divertimento. Il divertimento, il divergere, autentico, è il campo inesplorato della “vera” avventura, dell’alpinismo, quando non diventa sofferenza tout court.
Si può anche soffrire, come nelle invernali o in quota, ma divertendosi; a meno che non si sia schiavi del risultato, della performance da mostrare.
Leggo togliere-togliere-togliere, davvero un bel ricordo, con qualche sbavatura di lessico, a suo tempo, ma sicuramente sincera e aperta a nuovi sviluppi. Presto faremo una nuova reunion culturale a Vicenza con questo titolo! Riconfigurandola. Vi farò sapere
Altro punto importante: credo che non tutto ciò che è “altro” sia “sacro”, neppure se lo indichiamo con la lettera maiuscola.
La Natura non è che sia così buona, bella, sacra. È pure fuoco, fiamme, violenza per sé, minerale, vegetale, animale. Certo, amplificata per mezzo degli uomini [la vera violenza], natura pure noi.
C’è qualcosa di oscuro nella materia oscura.
C’è qualcosa di mondano, diabolico, pure nel sacro. Anche nelle budella del Monveso qualche turbamento geofisico esiste.
Non trovate? Magari un giorno esplode mentre gli alpinisti lo stanno contemplando, sommergendo tutto e tutti.
Altro che Natura…
Sacro invece è, o potrebbe essere, per noi umani, secondo la mia interpretazione, il limite tra noi e l’altro, la stessa nostra finitudine, dissolvenza, nel partecipare a tutto ciò. Il limite della nostra esistenza e delle altre esistenze. La percezione del limite.
Neppure l’amore lo ritengo salvifico o determinante per le nostre scelte, inconsapevoli, involontarie.
Non basta amare, a volte è necessario odiare, in modo costruttivo, soprattutto chi prevarica i limiti, contro cui combattiamo.
Un sano odio e un sano conflitto, senza distruggere, spesso fa più bene di un mistico amore.
«Disimparare la guerra, imparare a confliggere», insegna la mia vecchia maestra, la grande femminista Luisa Muraro.
Fondamentale infatti è non distruggere l’altro, neppure il tuo nemico (esistono anche questi, i nemici, soprattutto se distruggono la vita).
C’è un limite a tutto, anche nel piegare le gambe al tuo avversario, nemico, se passa certi limiti. Per non diventare un senza limiti come lui.
Non è neppure necessario sapere cosa ricercare in questa vita, quando siamo fuori dalla sfera dell’utile.
Sufficiente è stare in ascolto, di fronte all’imprevisto, all’ignoto, al nuovo orizzonte che si aprirà, all’inutile.
Quando salgo una montagna non cerco niente, se non l’inaspettato, sia esso un appiglio, un amico, una visione.
Vedo poi ancora un grande, notevole gap, nella “riduzione” dei mezzi, tra i pochi eletti e individualisti (anche se in cordata) dei Piolets d’Or e la massa degli alpinisti che abusano dei mezzi, tra la libertà di pochi e la libertà collettiva che quei pochi riversano sulla massa (grazie alla forza del premio).
Non vedo quella grande libertà osannata da un premio, soprattutto se quei pochi premiati viaggiano così tanto sul filo del “loro” limite e di quello imposto dall’attenzione della collettività, tanto che la stessa massa ne è spaventata e non certo ispirata.
Molte di queste star dorate, illuminate dal premio, muoiono soggiogate da questa continua esposizione, estrema, sul limite, soggiogate dal riconoscimento di un premio, o dall’attenzione cercata attraverso una progressiva esposizione estrema; quanti alpinisti del Piolet d’Or – o aspiranti tali – sono morti? Molti, troppi. Per l’evoluzione di cosa? Della semplicistica interpretazione di un pensiero di Messner, by fair means, per la libertà del limite [accennata da Alessandro]? Non mi sono mai sembrati così liberi, sinceramente, ma prigionieri di un sogno che si è trasformato in un incubo… Prigionieri del Nanga. Avrei voluto scappare quest’estate sul Nanga Parbat. Ma sono rimasto ad osservare e in parte, a rinunciare… a certi metodi e a una montagna… così violata… anche sulla sua stessa impressionante storia… che quasi nessuno conosceva, dei presenti.
C’è – infatti, a mio modo di vedere – qualcosa che non va anche nell’«alpinismo di punta con pochi mezzi», non solo nel turismo d’alta quota: la performance, con “tanti o pochi mezzi”, spesso supera il rispetto della stessa vita di chi si espone troppo, supera il limite… non perché non sia preparato (sappiamo che spesso sono incidenti), ma perché ci passa troppo tempo, su quel limite.
Non solo, anche il pozzo interiore mi spaventa [sempre citato da Alessandro], se non riconosciamo che quel pozzo è in connessione con i pozzi esteriori del nostro vivere quotidiano, spesso inquinati e sottovalutati dagli alpinisti interiori: giusto che ci sia il tuffo nel pozzo interiore, silenzioso e creativo, della montagna, ma non è sufficiente per vivere bene, in piena libertà, se la libertà è solo intesa come libera ricerca, creatività individuale, quella vissuta da pochi eletti che si ritirano nelle proprie ascensioni [mi viene in mente Renato Casarotto].
Se il pozzo interiore lo si dissocia dagli altri pozzi, dai pozzi della quotidianità (parla un esperto dei pozzi fisici del più grande inquinamento chimico d’occidente, da anni sul fronte “disurbano”, pur amando l’alpinismo interiore), non vedo grandi prospettive di felicità, di vita in armonia con l’alterità, anche se essa è una bellissima “alterità confinata” come la montagna: certo, la possiamo fare esistere nel mondo interiore della nostra sfera d’azione, quest’alterità, nell’alpinismo, ma poi? Usciti dal pozzo? Ci tuffiamo nel vuoto, come fece Gian Piero Motti?
In altre parole: la montagna, per gli alpinisti, rischia di diventare terreno di gioco e di espiazione personale, di una libertà quasi ascetica… ma lo siamo davvero asceti? O ritorniamo poi pure giù dai monti? O facciamo anche solo uso – nelle nostre pratiche o ritiri spirituali – di ciò che accade laggiù in basso? Dei materiali e dei comfort? Siamo asceti completamente autonomi? Non mi sembra. Ricordate Guido Rossa? Laggiù tra gli uomini? Che libertà è allora quella vissuta in montagna? Una fuga, di un momento, una vacanza?
La condizione di essere libero non è una condizione fugace.
La libertà del limite deve essere contemporaneamente libertà dal limite, credo.
C’è, infine, il pericolo del sacro, maiuscolo.
“Altro da noi”, “Natura”, con le lettere maiuscole, citate per la Montagna Sacra, ci avvicina a una fede confessionale, al pari di quelle che volevano dominare gli Altri e la Natura (anche in lettera minuscola).
Il cattolicesimo insegna, per restare alla nostra tradizione più vicina, maestra del dominio.
Permettetemi questa piccola sottolineatura sulla confessionalità, ma è il punto di vista di chi come me prova a interpretare pensieri profondamente laici, aconfessionali, ad esempio, quelli di certi pensatori anarchici, come Peter Kropotkin o Murray Bookchin, che conosco molto bene: si rischia la mitizzazione, la sacralizzazione dell’altro, che diventa Altro, proprio in funzione del laico a cui spesso si accenna per difendersi dalla confessione.
Ossia si diventa laico per moda, uno che se la tira, per essere alternativo, aconfessionale, per utilità di carteggio, dimenticando la religiosità o il mistero a cui tutti siamo legati, anche nei confronti della natura, [dimenticando] pure i laici radicali come quelli citati sopra.
Da qui le considerazioni di Betto Pinelli [sulla Montagna Sacra solo come capro espiatorio per auto-assolversi]. Dice cose importanti.
Il rischio di sacralizzare una sola montagna, sconosciuta e poco sotto la “vista”, forse non porterebbe grande efficacia all’idea del progetto, ovvero sia di mettere in discussione la filosofia devastante e mercificatoria del no-limits.
In altre parole, l’espiazione/autoprivazione su una sola montagna, non potrebbe esser sufficiente per veicolare il messaggio. Bisognerebbe che essa infondesse la sua forza simbolica su tutte le montagne “violate” dall’abuso dell’uomo.
Come fare? Un bel dilemma.
Bisognerebbe forse che l’espiazione su una… diventasse, dopo il simbolo, azione concreta su tutte le altre.

Lo stesso [rischio] vale per la sacralità della vetta.
Bisogna uscire dalla logica della conquista, “che avviene in vetta”, ma anche sottolineare che la cima, il punto apicale – se esiste nelle nostre “escursioni” – è il punto più alto “della” e “per” la visione (come sottolinea Ines per i giapponesi).
Un alpinismo senza vetta, senza visione, sia esso un punto apicale, un colle, o un altipiano, senza l’orizzonte dopo la verticalità, non ha senso.
Dunque, per non correre nel rischio di una montagna sacra “unica” e “senza visione”, senza vetta, si potrebbe allargare la proposta a una montagna conosciuta e fortemente simbolica, come il Cervino, o il Monte Bianco, o il Monte Rosa, divenute mete turistiche.
Rinunciamo a queste (so che è difficile) o saliamole in modo “sacro”… da renderle sacre.
Prenderei una di queste come “sorella” del Monveso e inviterei a farla diventare “sacra” nel senso da voi voluto – proprio per combattere concretamente l’abuso e il consumo – invitando tutti a salirla in “modo leggero”, sacrificale [sacrificandosi], solo con le proprie forze, senza l’abuso di mezzi o di uomini.
E poi le altre, abusate.
Il Monveso [diventerebbe] la sorella maggiore, le altre, troppo belle, per non essere viste, [diventerebbero] le minori.
Ecco che allora il concetto di sacro applicato a una montagna diverrebbe fortemente provocatorio, provocherebbe lotta e clamore, e manterrebbe alto il valore originario dell’alpinismo, quello di raggiungere il posto più alto per avere una visione, e andare oltre.
Le stesse guide alpine, già di per sé sensibili (almeno quelle autenticamente cresciute sotto l’impulso originario dell’alpinismo, come Marcello Cominetti), potrebbero essere promotrici di queste scelte, radicali, visto che molto del turismo passa per le loro mani.
Tuttavia, partire da una montagna, come il Monveso, la sorella maggiore, per dare inizio alla discussione, non è per nulla una brutta idea.
Bisogna sempre partire da qualcosa, soprattutto se non si sa cosa si cerca, ovverosia se si va incontro alla libertà, concreta, quella accennata prima, che l’alpinismo nella sua spinta primitiva ci dona.
Si parte senza sapere se si torna e cosa si vedrà.
Il Monveso potrebbe essere l’incipit, il simbolo, di un modus operandi da applicare alle montagne violate.
Rendiamone sacra una non per sottrarci a tutte le altre, ma per cambiare radicalmente il rapporto con tutte le altre.
Come a dire? Lassù in Piemonte esiste una montagna che serve da esempio a come approcciarsi a tutte le altre.
In punta di piedi (la radice etimologica di “acrobatico”, un alpinismo davvero acrobatico, ribaltando quello di Rey, provocatorio, che alza nuove voci).
Essa solo come esempio. Un esempio senza pratica diffusa non porta a nulla.
Sarà come andare a un altare. E fare un voto, di lotta. Civile.
Risposta (mail) a Toni Farina, 8 dicembre 2022
Gentile Toni, avevo letto e seguito il vostro progetto.
Lo trovo encomiabile per i contenuti e le intenzioni, ma soprattutto per il metodo e le scelte proposte, e non imposte.
Certo, la parola “sacro” mi spaventa sempre un po’, per la manipolazione che i poteri spesso ne fanno, attraverso le confessioni, le dottrine. Mi riferisco ai “poteri” forti, arroganti, pre-potenti, magari proprio perché legittimati da presunte “sacralità”.
Tuttavia un uso aconfessionale, come da voi proposto, che non significa irreligioso, mi sembra la strada giusta, soprattutto se a sacro diamo la sua accezione più radicale, quello di “inviolabile”, come dovrebbero essere i diritti primari di ogni creatura e del relativo ecosistema che permette a quelli stessi diritti di compiersi.
Nei miei studi e percorsi ho sempre considerato il sacro come la rappresentazione più spirituale/sentimentale del “limite”.
Il presentimento del sacro, che non è un sentimento, ma una particolare, connaturata, percezione del limite, che spesso accompagna gli alpinisti rispettosi dei propri limiti e delle montagne, mi ha sempre affascinato e spinto a fare il mio personale alpinismo. Un esercizio di libertà, sul limite.
Dunque la mia più profonda stima per la vostra idea, che spero possa trasmettere nella sua migliore simbologia i valori racchiusi nella parola sacro, valori purtroppo spesso infranti dalla nostra società. Diventata serva del no-limits. Il modo più veloce per fare profitti e crepare con la pancia piena. Non proprio una bella fine.
Lottiamo perché cambi.
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Alperto P.
Guarda che ci penso , eccome se ci penso. Ma i limiti me li voglio imporre da solo. Sono per le cose naturali.
@Grazia
(che bel nome il tuo… se avessi una figlia, lo sceglierei)
molto interessanti le tue sottolineature…
sul sacro, come dici, più che un oggetto, dovrebbe essere un sentimento
dunque mi piace cosa scrivi sul Patrimonio
a volte, mi domando, perché non si parli di Matrimoni
la radice patriarcale sulle proprietà è un limite della nostra cultura
sul conflitto, sì, intendo che un odio “salutare”, ben gestito e indirizzato, a volte fa più bene che un amore cieco
non vorrei che pensassismo che solo l’amore e la bellezza salveranno il mondo, è necessario cogliere pure le contraddizioni di quelle apparenze
come non soffermarsi su una sola montagna o su una sola panchina
@ad Alberto B dico, pensiamoci, a questo meccanismo che tu giustamente citi: metterci uno zoccolo ogni tanto – un sabot, o uno scarpone – al posto di oliarlo con scarpette troppo fini o saliscendi artificiosi, potrebbe giovare a tutti
buone montagne a tutti
Se n’è già discusso tanto.
Per quanto mi riguarda ho già espresso il mio pensiero contrario.
Il “no limits” è un fatto personale e non ha nulla a che vedere con una eventuale “montagna sacra” da non salire, da eleggere a simbolo del “no – al no limits” .
La montagna per me resta un luogo di libertà e di espressione personale. Non mi va bene che qualcuno m’imponga il suo LIMITE, le sue regole. Mi sono imposto dei limiti , ma l’ho fatto per mia libera scelta, perchè ci credevo e ci credo, per rispetto verso i luoghi e verso le persone che hanno fatto prima di me o che potranno fare dopo di me.
Noi facciamo parte di un meccanismo, siamo un ingranaggio di questo meccanismo. Non siamo più importanti, ma di sicuro abbiamo la possibilità di incidere sul meccanismo con maggior meso rispetto agli altri ingranaggi. Ma proprio per questo dovremmo avere rispetto. Anche perchè non siamo esenti dall’influenza esterna a noi, molto ci si può ritorcere contro.
Tutti silenti? Strano.
Caro Alberto, grazie per le tue riflessioni. Qui di seguito riporto quelle che sono scaturite dalla lettura del tuo articolo.
L’accezione di buona o cattiva relazionata alla natura è puramente umana. Il fuoco non è cattivo solo perché può nuocere a qualcuno, né lo è una porzione di ghiacciaio se va in frantumi, spegnendo vite animali (non solo prettamente umane).
Sacra, a mio vedere, è ogni forma di vita ed etichettare un luogo come tale non fa che togliere valore a tutto ciò che non lo è. Ne sono un esempio le realtà che costituiscono il Patrimonio dell’Umanità: non è forse qualunque cosa o entità patrimonio di chiunque? Perché un luogo o un bene immateriale dovrebbe esserlo e qualcos’altro no? E perché, di grazia, ogni cosa dovrebbe essere relazionata agli umani?
Penso che un conflitto non sia mai sano in sé, se mai può portare a benefici in seguito, e che l’odio non sia mai portatore di speranza e giustizia, fa altrettanto male a chi lo provo che a chi lo subisce. Niente di buono, mi pare.
Eleggere una sola montagna sacra mi fa venire in mente le panchine rosse per la violenza sulle donne o i giorni di festa comandati (della mamma, del papà, della Terra, dell’acqua, del fuoco, dell’escursionismo, e via di seguito). Siamo chiamati a provare certe emozioni e a svolgere certi gesti solo in determinati momenti o luoghi. Può forse portare a sviluppare creatività e spirito critico una vita racchiusa in tali limiti?