L’avventura ha bisogno del limite
Dagli albori e fino alla fine dell’Ottocento il senso di conquista, insito nell’uomo, era rivolto verso le altre tribù, poi altri popoli, poi altre civiltà e annesse religioni.
Con il Romanticismo (separazione Io-Natura) la conquista ci ha condotto in ogni angolo della Terra, sulla Luna e, tra qualche anno anche su Marte.
L’idea della conquista è particolarmente radicata nella cultura alpinistica e ne è, in qualche modo, l’anima stessa. La natura, da oggetto di ammirazione estetica dei pre-romantici, è divenuta con l’alpinismo (e anche con la scienza) luogo di conquista e di sottomissione, prima in senso militare, poi sportivo e infine, ora, ludico-turistico e quindi economico.
Un’anima che si è, peraltro, fortemente trasformata negli ultimi anni, con la prevalenza dell’esibizione sociale sulla semplice soddisfazione privata.
E’ il momento del protagonismo, delle performance sportive autocelebrative, praticate da persone indifferenti (in percentuale non trascurabile) al rispetto e alla conoscenza dei luoghi, nonché al relativo impatto della propria invasività dovuta a questa stessa ignoranza.
Con la volontà di mettere in scena il superamento di ogni limite (quello della verticalità, della fatica, delle prestazioni, della velocità, dell’affollamento, del deterioramento degli habitat naturali…).
Nell’alpinismo degli anni Cinquanta si ebbe il massimo di questa sbornia da superamento di ogni limite. Esempi tipici le direttissime in artificiale (alle quali mancava sola l’impalcatura edile per cancellare anche l’ultimo sprazzo di avventura), ma anche i successivi (anni Ottanta) concatenamenti e salite in velocità (in adorazione del dio cronometro). Coronavano l’ebbrezza prima la necessità culturale di avere dei supereroi (Bonatti, Desmaison, Messner), poi la superficiale e modaiola adorazione delle patinate danze sulla roccia di nuovi eroi come Patrick Edlinger nell’arrampicata “a mani nude”.
Con le chiodature plaisir si è avuta la definitiva soppressione del limite e dimostrazione ne è il fatto che all’avventura sia stato definitivamente sostituito il divertimento.
Intendiamoci: nulla contro il divertimento. Ma è oggettivo che ci si diverte spensieratamente perché sull’avventura è calato un definitivo tramonto, dove non solo il limite non c’è più, ma neppure ce lo ricordiamo.
La ri-valutazione del limite
Possiamo individuare la prima volta che si è provato a ri-valutare il limite con l’uscita dell’articolo di Reinhold Messner L’assassinio dell’impossibile e subito dopo con le teorie e pratiche del Nuovo Mattino, dove la vetta non era più necessaria (dunque si toglieva valore all’obbiettivo e si ri-valutavano le modalità della salita); il secondo grande step nel cammino della ri-valutazione del limite si è avuto con l’affermazione dello stile alpino (minore dispiegamento di mezzi, portatori, assenza di ossigeno, ecc.) e infine con l’assunzione etica delle regole per l’arrampicata libera (qui per arrampicata libera non intendo certo arrampicata sportiva).
Dunque abbiamo assistito e assistiamo tuttora a un processo di riduzione dei mezzi, ancora oggi ben lontano dalla conclusione. E’ ormai evidente che ogni evoluzione possibile in alpinismo lo è solamente con una progressiva riduzione dei mezzi e non tramite obbiettivi sempre più difficili da superare con mezzi sempre più invasivi. Dunque è solo auto-limitandosi che l’alpinismo potrà progredire ed esistere anche come espressione culturale e artistica. Togliere, togliere, togliere.
Forse è giunto il momento di porsi dei limiti, superando il concetto novecentesco della conquista “no limits”, come già fecero gli scalatori del Nuovo Mattino negli anni Settanta, che respinsero l’obbligo e il feticcio della vetta, per esempio.
E’ tempo di cambiare. Conquiste non più solo fisiche, ma anche spirituali. Cime come luoghi da lasciare “inviolati” dalle aspirazioni di “possesso” fisico, bensì rispettate fonti di ispirazione, contemplazione e riflessione interiore.
La contraddizione del No limits
No limits è un vecchio motto di un orologio famoso, perché è proprio in quei primi anni Ottanta di ottimismo reaganiano che tutto è incominciato: in questi ultimi decenni c’è stato un forte accostamento tra la pretesa che possiamo chiamare del No limits e la pretesa sicurezza, completa al 100%.
La nostra è una società strana: mi sfugge come faccia a vivere questa schizoide contrapposizione tra il non avere limiti (o comunque predicare di non averli) e contemporaneamente insistere su una sicurezza quasi maniacale in tutto ciò che facciamo.
Il no limits è ciò che gli inglesi chiamano attitudine al risk taking (attitudine ad assumersi rischi).
I limiti ci sono per tutti, ciascuno ha i suoi, ogni gruppo di individui ha i suoi. Questo dev’essere chiaro. Non si può dire il contrario, non si può scherzare (o semplicemente esagerare a uso marketing).
No limits è una vera e propria bestemmia, è un’iperbole pari a quella di chi paragona l’essenza della massima divinità a quella suina. Chi tutti i giorni profferisce questa bestemmia è l’apparato pubblicitario, il marketing in generale.
E credere di essere “sicuri” è over confidence, altra espressione inglese per dire stra-confidenza in noi stessi o, meglio, nei mezzi di cui disponiamo per aumentare la nostra sicurezza.
Quando per esempio si voleva promozionare l’ultima APP per GPS, la frase che io udii al Festival di Trento (quindi in una sede assai competente, per di più) fu, testualmente: “perché così, finalmente, anche il signor Rossi potrà andare ovunque voglia, in piena sicurezza”.
Questo, tradotto, significa che per il signor Rossi non ci saranno più limiti. Vuole dire predicare una gigantesca falsità alle migliaia di signori Rossi, allo scopo che questi comprino questo “dannato” oggetto… che non è importante qui sapere se funziona, o se non funziona.
Ecco l’accostamento “incestuoso” che intendo, tra no limits e sicurezza.
La vera sicurezza
Davvero la sicurezza si può comprare? Non credo proprio. E non te la possono neppure regalare. Qualunque oggetto di cui noi ci dotiamo è in grado di darci un servizio, più o meno utile o più o meno superfluo: ma non ci può garantire la sicurezza. Questa la si ottiene invece (ma sempre solo parzialmente) con la modestia, grande impegno, tanta fatica, talvolta con dolore, in molti anni di esperienze. Questi sono gli elementi catalizzatori del rinforzo di ogni sicurezza individuale. Così è sempre stato e sempre sarà, ce lo dice anche il buon senso.
Sono convinto che tanti più mezzi noi dispieghiamo per aumentare la nostra sicurezza, aggeggi comprati, tecnologie APPlicate, informazioni in tempo reale (nell’illusione di una sicurezza quasi totale), tanta meno importanza noi finiamo per dare a quella sicurezza che io chiamo interiore, quella in tutta evidenza oggi generalmente trascurata.
Nessuno può fare business sulla sicurezza interiore, ecco uno dei motivi (ma non è il solo) per cui non se ne parla. Però a mio avviso è, e resta, la prima dotazione di sicurezza che abbiamo a disposizione.
Vi faccio un esempio: prendiamo uno di questi matti (vabbè, matto lo sono stato anch’io…) che oggi va a fare il free solo, arrampicare su grandi pareti da soli, slegati, senza corda e senza imbrago. Mi viene in mente Alex Honnold, ma ancor prima tanti altri, tra i quali l’austriaco Hans Jörg Auer che sale il Pesce sulla Sud della Marmolada. Bravura e preparazione infinite, determinazione, ambizione. Il successo planetario. Ciò che colpisce è la concentrazione che gli deve essere stata necessaria, quella condizione (che non si ottiene certo in poco tempo) di spirito che gli intima di andare, nella certezza che, almeno in quell’occasione, non gli potrà succedere nulla.
Prendiamo lo stesso scalatore, dotiamolo di compagno, corda, mezzi e tecniche di sicurezza. Facciamogli fare la stessa salita. Per lui sarà un’autostrada, una danza, un motivetto fischiettato! E quella concentrazione della volta precedente? Non necessaria, quasi inutile, dunque accantonata. Buona per la prossima volta. Ecco ciò che voglio esprimere: più mezzi e tecniche = meno concentrazione (sicurezza interiore).
Dunque sì alle informazioni, alle tecniche e alla strumentazione: ma senza diventarne schiavi o fanatici, senza attribuire loro maggiore importanza di quanta ne riserviamo al nostro istinto.
Ciò di cui prima di tutto dobbiamo dotarci è la modestia di fondo che ti dà il senso del limite, esattamente contro l’imperversare del no limits.
Umiltà=dare fiducia=amore
Avere il senso del limite è una manifestazione di umiltà, di ricettività all’esempio e all’insegnamento degli altri, amici e non amici. E’ manifestazione di “amore” per la montagna perché c’è il rispetto per essa, che ti può dare indifferentemente gioia o dolore. Questo l’umiltà ci fa accettare, al contrario del marketing del no limits che pretende che la montagna sia solo gioia.
Umiltà vuole dire capacità di dare fiducia, dunque dare amore. Se c’è una cosa che quasi tutti noi facciamo malvolentieri è proprio il dare fiducia. E’ raro che lo facciamo. La diamo se siamo innamorati, quindi in una condizione di amore.
E quanto al dare fiducia a noi stessi, alla totalità di noi stessi?
Non credo che un individuo convinto d’essere il “migliore” in qualche cosa sia un qualcuno che si dà molta fiducia. In realtà dà molta fiducia al suo corpo e alla sua volontà cosciente, ma poca all’intero se stesso.
E invece è essenziale dare fiducia alla totalità di noi stessi. Le azioni che noi compiamo nella giornata, le reazioni, le battute, le decisioni sono solo per il 10, massimo il 15%, governate dalla nostra coscienza.
Il resto è determinato da scelte che avvengono nelle nostre profondità, proprio come succede al galleggiamento degli iceberg.
Cercatori di involontario
E’ importante dunque, accettando la molto incompleta conoscenza di noi stessi (e quindi il nostro limite), dare grande fiducia a ciò che ci dirige nel bene e nel male.
E’ l’unico valido sistema per fare in modo che le nostre scelte profonde coincidano con la nostra sicurezza.
Vera sicurezza e le profondità di un individuo sono la stessa cosa, noi dobbiamo essere liberi di poter pescare nel nostro pozzo profondo e individuale. Questa è la vera libertà, quella che a volte fa sfiorare la felicità…
Il limite che ci è fornito dalla contemplazione del nostro inconscio fa in modo che il nostro sapere e la nostra volontà rientrino nelle giuste dimensioni, in modo che tutti diventiamo dei cercatori di involontario (quindi di ciò che non è dipendente dal nostro Io), cioè di sacro (Altro da me).
Pensate solo a questo: l’amore è selettivo. O sì o no. L’amore è l’unico strumento per cui o è sì o è no. Ma allora ne consegue che è proprio l’amore che ci aiuta nei momenti di pericolo, perché ti dice rapidamente o sì o no. Ti scarta come ciarpame le statistiche di cui siamo pervasi, le probabilità numeriche, le possibilità all’80%, al 60%, quando non al drammatico 50%. Ne fa piazza pulita in un microsecondo. O sì o no. Decidere, e in fretta, quello che dobbiamo fare. Non cazzeggiare con le statistiche.
Dotiamoci di amore, perché è selettivo. Facciamoci permeare, senza avere vergogna di essere meno scientifici di altri. Avere dalla parte nostra l’istinto. Vuole dire essere sicuri di noi stessi, proprio perché l’umiltà e l’amore ci hanno fatto riconoscere i nostri limiti.
Il riconoscimento del limite è l’unico passaporto per la vera responsabilità, la sola “carta” che ce la può permettere.
Un individuo responsabile è davvero libero (nel senso dell’essere dotato di libero arbitrio): perché non è libero chi “fa quello che vuole”, ma è libero chi fa dopo aver scelto.
Gli individui sono responsabili perché hanno scelto, per questo sono liberi. Il limite non divide ciò che è possibile da ciò che non lo è: perché è comunque soggettivo. Prima di tutto devi riconoscerlo tu. Sei tu che lo riconosci, dunque sei tu a valutare e a decidere. Ecco la scelta, quella scelta che ti rende responsabile e libero.
Occorre mettersi deliberatamente in modalità di ricerca. Ma occorre anche sapere cosa cercare, come quando vai per funghi in un bosco o in un esame chimico si cercano determinate sostanze con precisi test. E la ricerca è umiltà, perché impone di riconoscere che non si sa mai abbastanza.
C’è anche il caso particolare di chi è dominato dall’adrenalina. Anche costui può fare grandi imprese, che occorre rispettare, ma l’adrenalina è amore corrotto, praticamente droga. C’è troppo risk taking, troppa predisposizione al rischio, con la conseguenza di avere una responsabilità tendente a zero che non ti fa crescere e quindi non ti rende libero.
L’amore per l’imprevisto
Ben più salutare è l’amore per l’imprevisto. Chi ha letto i libri di Bruce Chatwin sa cosa voglio dire. Davvero emozionante è la genialità con la quale Chatwin ci ha raccontato le sue avventure di viaggio. Questo mostro sacro del Novecento mica faceva viaggi con le agenzie che oggi parlano di travel engineering… quello partiva, non sapeva neppure quando tornare o se sarebbe mai tornato. Chatwin ci ha insegnato l’amore per l’imprevisto, cioè dell’involontario, con risultati grandiosi per la letteratura.
Non è che dobbiamo essere tutti dei Chatwin, ma è purtroppo vero che oggi nessuno desidera e ama l’imprevisto. Al contrario, deve andare tutto come previsto.
Però l’amore per il non programmato favorisce l’istinto, lo allena, gli dà importanza. La parte nascosta di noi ha bisogno di riconoscimenti, non ne può più d’essere continuamente calpestata da modalità razionali.
Allorché alleniamo l’istinto è perché dimostriamo di dare fiducia all’inconscio, cioè la parte di noi che davvero ci governa e che in definitiva ha potere su di noi di gioie e dolori, di vita e di morte.
Al contrario di altri “governi”, questo è l’unico a essere sempre “forte”. Data l’indiscutibilità dei suoi decreti, meglio far parte del consiglio dei ministri che dell’opposizione…
C’è chi ha paura che nel nostro inconscio ci siano solo mostri e malattie psichiche. Questa visione assai pessimista si può anche accettare, ma ricordiamoci che se davvero il nostro inconscio, per qualche lontano motivo, fosse effettivamente malato in profondità (un malato terminale), allora il modo di farci morire lo troverebbe comunque, a dispetto di qualunque repressione interiore e di qualunque ossessiva forma di sicurezza esteriore.
Il contributo dell’alpinismo
Ma torniamo per un poco ad approfondire quanto già detto prima. Nel 1968 ha luogo un cambiamento epocale nei valori che guidano l’alpinismo su roccia: Reinhold Messner riesce nella sua prima ascensione più difficile, quella al Pilastro di Mezzo sul Sass dla Crusc nelle Dolomiti, il tutto mentre Royal Robbins lancia dalla Yosemite Valley l’appello per il clean climbing.
Dieci anni prima era diventata di moda l’arrampicata artificiale, ma nell’anno della rivoluzione studentesca, Messner con il suo articolo L’assassinio dell’impossibile lancia l’appello per la rinuncia agli aiuti tecnologici nelle scalate. Ha così inizio il movimento per l’arrampicata libera.
Se a distanza di più di cinquant’anni dall’esplosiva uscita de L’assassinio dell’impossibile ci si chiede se nel frattempo le imprese alpinistiche siano finite o abbiano mostrato segni di stanchezza creativa o, ancora, abbiano rivelato minor eroismo e minori capacità tecniche, la risposta è no, su tutta la linea.
Anzi, si è verificato il contrario: moltiplicazione di realizzazioni, progettualità intensa, dal fantasioso-creativo al visionario, grandi eroismi e grandi performance. Nella più piena e odierna oscurità mediatica sono stati raggiunti limiti che Messner, assieme ai suoi contemporanei, non sognava neppure.
Dunque è generalmente riconosciuto che l’impossibile per nostra fortuna è non solo sopravvissuto ma pure gode di ottima salute.
Nel maggio 1968 di quello che succedeva nelle università non mi interessavo, a Genova poi ogni cosa giungeva ovattata, epurata di ogni carica dirompente.
Anche il maggio francese non colpì molto l’ateneo ligure, così seppi qualcosa soltanto leggendo i giornali oppure parlando con gli amici di Milano e Torino. Compagni come Paolo Armando o Ettore Pagani, entrambi studenti di architettura, erano, al contrario di me, ben impegnati in quel movimento che sembrava allora travolgere tutto l’ordine costituito per dare spazio alla libertà.
Una libertà collettiva in contrapposizione a un ordine collettivo… ma in quel momento mi sentivo troppo libero dentro per curarmi della libertà collettiva.
In una mia conferenza, l’anno successivo, rispondendo a una precisa domanda, ricordo che rivolsi al pubblico l’esclamazione «noi il Sessantotto l’abbiamo fatto sulle montagne», provocando un mezzo delirio di applausi frenetici. La frase era un po’ a effetto, ma era indubbiamente vera e liberatoria: volevo solo dire di essere completamente estraneo alle lotte di piazza o di aula.
Nel frattempo, L’assassinio dell’impossibile aveva messo il dito su una piaga che si stava scoprendo. Messner era riuscito a formulare un pensiero con grande chiarezza nel terreno assai fertile di migliaia di alpinisti che gradualmente si stavano accorgendo che c’era qualcosa che non andava (come ne I Falliti di Gian Piero Motti).
Molto dell’alpinismo di punta di allora si basava sui vecchi concetti di conquista che prediligevano appunto la vittoria senza badare ai mezzi utilizzati per conseguirla.
Negli anni Sessanta l’espressione by fair means non si era dimenticata, semplicemente si era alzata, senza più alcun controllo, la soglia del significato di quel fair. Su questo aggettivo, che viaggia tra il significato di “leale” a quello di “giusto”, nei decenni si era sempre più posto l’accento sul “giusto”, trascurando cioè la lealtà dei mezzi in una tenzone equa con la montagna e sottolineando invece con forza quanto i mezzi fossero “giustamente” tanti (ma mai sentiti “eccessivi”) quando la montagna la si affronta nei suoi aspetti più “tanti” (grandiosità, difficoltà).
Al nocciolo, Messner ricordava che a quel ritmo ogni difficoltà sarebbe stata distrutta, uccisa, e non “vinta”. Un richiamo forte dunque alla lealtà, e dunque al rispetto di alcuni limiti.
Limiti che siamo noi a dover individuare, paletti che sono alla fine i pilastri della nostra libertà di scelta. Fondamentalmente cinquant’anni fa Messner ci ha detto: “senza limiti è la fine del nostro gioco e se vogliamo essere liberi di giocare allora dobbiamo, con scelte responsabili, rispettare dei limiti”. Con queste affermazioni è andato ben oltre al Sessantotto!
Da allora è cominciato il processo della riduzione dei mezzi, oggi ben lontano dalla conclusione (è appunto sotto gli occhi di tutti che ormai i Piolet d’Or sono dati solo alle imprese che hanno saputo ben conciliare grandiosità di concezione con limitatezza di mezzi).
La montagna è il nostro pozzo interiore
La montagna è un simbolo perfetto del nostro pozzo interiore, un luogo fisico dove possiamo leggere le nostre profondità a patto di aver accettato che il nostro sapere razionale e la nostra volontà siano nelle giuste dimensioni.
Questo deve coincidere con una rivalutazione della fantasia e della montagna intesa non più solo come sfondo scenico delle nostre imprese. E avendo accantonato la ora purtroppo onnipresente ossessione di sicurezza e la collegata bestemmia del no limits.
La produzione di alpinismo/opera d’arte avverrà in quel silenzio e in quella solitudine che, volendo, possono essere salvate anche in piena era satellitare. Se lo si vuole, si va oltre gli sponsor, si va oltre le esibizioni social, oltre il collettivo.
Un esempio di limite: la Montagna Sacra
La proposta è semplice, priva di costi e di divieti: accettare una Montagna Sacra nel Parco nazionale Gran Paradiso, una montagna consacrata alla natura da cui escludere ogni presenza umana, anche per dare senso e concretezza al centenario del Parco. Un’idea progettuale “rivoluzionaria” – in quanto capovolge dei modelli culturali: da no-limits a off-limits – di grandissimo valore simbolico, più che direttamente finalizzata alla conservazione (come nel caso delle riserve integrali).
Un’idea mai realizzata ex novo nel mondo occidentale. Montagne sacre, nel senso religioso del termine, esistono in altre culture. Sono sacri alle culture locali il Machapuchare 6993 m (Nepal) e il Kailash 6638 m (Cina), preclusi all’accesso umano e, quindi, all’alpinismo, e l’Uluṟu – Ayers Rock, nell’omonimo parco nazionale australiano, vietato all’accesso turistico nel 2019.
In questo ambito culturale, il termine sacro non vuole enfatizzare il significato religioso, bensì quello laico. La sacralità è, in effetti, una costruzione culturale, declinata in molte forme da diverse culture, anche come visione laica. La più antica etimologia del termine, d’altra parte, indica un luogo elevato e inaccessibile, affascinante, a prescindere dal culto religioso.
Montagna Sacra come luogo principalmente “Altro da noi”, da lasciare esclusivamente agli “altri” (animali, vegetali, minerali), come simbolo affettivo ed emotivo della Natura tutta per il suo valore intrinseco, non in funzione umana.
Non tutto quello che siamo in grado di fare deve essere fatto. Non tutte le montagne che siamo in grado di salire, devono essere scalate (conquistate). Per una volta, in un luogo almeno, può prevalere l’idea dell’astensione. Astenersi non significa necessariamente privarsi. In questo caso, l’astensione, più che togliere, regala qualcosa.
Si tratta di un simbolismo profondo, un simbolismo di dialogo con gli elementi naturali senza sopraffazione, che stimoli sentimenti di fascinazione e affiliazione. L’aggancio storico con i due costrutti individuati da Edward O. Wilson nella sua ipotesi della biofilia.
Un luogo che incrementerà il proprio valore simbolico nel tempo: con che occhi sarà guardata quella cima dopo generazioni di assenza umana?
La Montagna Sacra non sarà luogo di divieti, perché un progetto culturale non può basarsi sull’imposizione. Il progetto non prevede alcuna interdizione formale, nessun divieto d’accesso, nessuna sanzione pecuniaria per chi non vorrà “astenersi”. Molto più semplicemente, l’impegno a non salire sulla cima sarà una scelta suggerita e argomentata, al fine che venga rispettata da tutti. Siamo assolutamente rispettosi della libertà altrui, ma faremo ogni sforzo perché la nostra visione venga compresa e condivisa dai più, non come atto di forza, ma come gesto responsabile e di liberazione.
Un progetto che propone una nuova forma di frequentazione della Natura, totalmente diversa dalle attuali. Intorno alla Montagna Sacra si potranno costruire, con la collaborazione degli operatori locali, itinerari e punti di sosta che pongano l’enfasi sull’osservazione e non sulla conquista, sul momento di conoscenza e di contemplazione più che sulla competizione sportiva, senza tralasciare relax e divertimento, così da generare riflessioni sul nostro rapporto con la natura e promuovere una diversa cultura del nostro rapporto con la montagna (il nostro pozzo profondo) e, più in generale, con gli ambienti naturali.
Attenzione al limite imposto
Però, attenzione: questo procedimento interiore non è valido quando il limite è imposto.
L’imposizione di limiti (e non parlo di quelle ordinanze a volte ridicole che vietano qualcosa qui e là per contingenti pericoli straordinari) è del tutto diseducativa e più adatta agli asili infantili che non a cittadini del XXI secolo.
Se domani mi dicessero che qualcuno ha dichiarato non salibile il Monveso per legge, darei le dimissioni immediate da questo progetto, perché non servirebbe più a nulla.
L’assassinio della fantasia e del sacro
Leggi, decreti e sanzioni non rivalutano la fantasia, merce sempre più rara, nel dilagare dell’ossessione di sicurezza e della bestemmia del no limits.
Sicurezza e bestemmia del no limits sono gli ostacoli che ci impediscono di avere fantasia e di vedere il sacro. Ma anche un limite imposto garantisce freni e bavagli alla libera scelta, alla fantasia e, in definitiva, al sacro.
Oggi siamo in un clima di assassinio della Fantasia. E questo è tragicamente ancora più virale di quello tanto paventato dell’impossibile. Ma vi è un’ulteriore persecuzione che l’odierna nostra civiltà si auto-infligge in un ambito in cui non è più neppure valido il motto evangelico “perdona loro che non sanno quello che fanno”: l’esercizio a volte sottinteso dagli individui, più spesso dichiarato, dell’assassinio del Sacro. Questo virus ha la forza di Ebola, non c’è alcun vaccino che possa contenerlo.
Ecco perché oggi ci sentiamo in piena pestilenza.
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Limite nel senso di limitarsi, approcciarsi alla montagna in modo equilibrato e consapevole lasciando a casa la mentalità “consumistica” inculcata dalla ns società che addestra i suoi componenti ad una competizione e crescita continua in ogni campo.
condivido molti dei commenti, specie alcuni passaggi del primo di Cominetti e di quello di Crovella, ma anche le sottolineature della lettera di Pinelli e gli ultimi di Ines e di Pasini
avendo Toni Farina (v. in calce) e Alessandro allertato la mia attenzione, in questi giorni, sulla montagna “sacra”, provo a commentare di mio, questo importante articolo
vado di getto, umilmente, lasciandomi trascinare dal difficile argomento, senza badare a critiche o a lunghezzeanzi, proprio per non tediare chi non ha voglia di leggere e approfondire, ovvero sia occupare spazio nella pagina commenti, riporto il mio qui, su un foglio a parte
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in primis, torna utile, credo, avere bene in mente la differenza tra “confine” e “limite”
aiuta moltissimo, concettualmente
https://casacibernetica.files.wordpress.com/2022/12/commento_montagna_sacra_gogna_farina.pdf
Molto più prosaicamente io penso che ognuno di noi ha un limite. Si può serenamente trascorrere la vita senza cercarlo, oppure cercarlo von perseveranza. Ma si sa di averlo raggiunto solo dopo averlo superato. E se si sopravvive alla scoperta è solo questione di fortuna.
Le parole che si scelgono non sono mai casuali. “Montagna Sacra” è molto diverso da “Riserva Integrale” “Areea protetta” e simili. Petrini ha colto il riemergere di un archetipo, quello della salvezza attraverso il sacrificio e la rinuncia a qualcosa a cui sommamente si tiene. Ti amo così tanto che “rinuncio”, mi fermo prima, per salvarti e salvarmi io stesso. E’ esattamente la base del De Imitazione Christi, un testo che per secoli ogni buon cristiano ha tenuto sul comodino insieme alla Bibbia. In fondo siamo degli epigoni e scavando un po’, oltre le forme e le apparenze, scopriamo che siamo influenzati dagli stessi schemi mentali ed emotivi di chi ci ha preceduto. Qualcuno li ha chiamati “cascami” ma il termine non rende l’idea. Sono ben di più che “cascami”, hanno una notevole potenza psichica ed evocativa e sono radicati nella nostra cultura. Non condivido che il “sacro” sia scomparso nei paesi occidentali nell’epoca moderna: è vivo e vegeto nell’inconscio collettivo. Basta solo andare un po’ oltre la superficie e si vede come le radici di certe parole/idee/simboli/immagini sono profonde, ramificate ed estese, in direzioni che uno non si aspetta, anche quando magari si parla di argomenti apparentemente “laici” come l’andare per monti e la difesa di un ambiente che si vuole preservare e difendere dalla “contaminazione” umana. Ma poi l’andare per monti, l’elevarsi sopra le terre basse, è davvero un attività così “laica” anche se nasce in epoca illuministica? Spesso ciò che metti fuori dalla porta ritorna dalla finestra, in forme inattese e non sempre immediatamente decifrabili.
Questo passaggio è cruciale: “Non tutto quello che siamo in grado di fare deve essere fatto. Non tutte le montagne che siamo in grado di salire, devono essere scalate (conquistate). Per una volta, in un luogo almeno, può prevalere l’idea dell’astensione. Astenersi non significa necessariamente privarsi. In questo caso, l’astensione, più che togliere, regala qualcosa”.
Mi ricordo che lessi in un’intervista la dichiarazione del forte alpinista Karl Unterkircher, il quale candidamente disse che il Kailash l’aveva salito fino in cima, forse si era tenuto due passi indietro. L’avventura estrema di Karl e la sua personalità mi risultarono d’improvviso appannate dopo questa rivelazione. Mi chiesi cosa significa il rispetto e la conquista culturale.
In Santa Sede (ieri, evento sulla Giornata Internazionale delle Montagne) Betto Pinelli ha chiesto qualcosa del genere al grande studioso americano di storia di Montagne Sacre (con cui ho avuto il piacere di cenare insieme, una persona molto affabile, garbata e curiosa). Il Prof. Edwin Bernbaum ha risposto che non esiste una sola visione di Montagna Sacra intangibile (ha elencate tre tipologie), c’è quella come il Kailash in Cina che si riconosce sacra non salendola e facendo il giro rituale intorno che dura giorni (e questo lo sapete tutti). Ma c’è anche la montagna sacra in Giappone che si sale fin sulla sommità proprio perché si torna in basso rafforzati. La sacralità riconosciuta si porta giù così tra nell’umanità.
Il limite -limes- è un valore, un confine divisorio, interessante elemento culturale, ma secondo il mio modesto parere è ancor più interessante quando diventa autodeterminazione personale, quindi libertà di scelta, piena, sincera e consapevole, Contribuisce a fare la bellezza e la complessità di una persona. Se questa idea di limite è condivisa da una moltitudine e diventa simbolica (unisco insieme due parti) in una determinata fase storica, vuol dire che funziona e c’è speranza. E forse anche un po’ più di leggera felicità nell’esperienza di vita che ci è data.
La libertà del limite è una idea di cui danno ampia trattatazione Lorusso e Cotugno nel saggio “Faceva il palo nella banda dell’ottica”
Nella scalata i limiti personali sono fatti per essere superati o almeno molti la interpretano in questo modo. Io sono uno di questi. Il che’ significa che a 70 anni salire un 3000 che in infanzia si faceva di corsa può’ essere un’impresa estrema, come diceva lo stesso Messner quando tanti anni fa immaginava la sua vecchiaia.
Per me il concetto di no limits vero e’ questo è non ha nulla a che vedere con il commercio’, il marketing ne’ tanto meno ha impatto sugli altri e sull’ambiente. I limiti devono esistere e quindi essere rispettati quando la tua azione incide sugli altri e sull’ambiente. Il che’ non succede sempre. Andare di corsa cronometro alla mano verso una cima o massacrarsi i tendini su un Boulder di 3 metri non è’ detto che dia un gran fastidio agli altri o rovini l’ambiente. Dopodiché’ non ho molto compreso cosa abbia a che fare con questo il tema del Monveso. Si certo, vuole essere il messaggio di rivalutazione del limite oltre cui non andare, che non è’ una rinuncia ma una crescita interiore. E’ questo il risultato atteso? Mah…
Io sono per spostare avanti i propri limiti individuali, sempre. Lo dico da frequentatore assiduo di sale operatorie e successivi tentativi di rinascita, spesso finiti in sconfitte sonore. In quei periodi il limite pesa come un macigno di granito sulla testa. Eppure anche in quei momenti io non voglio limiti. E’ la parte più’ affascinante della scalata, insieme all’ambiente in cui la si pratica.
Per salvare l’ambiente dobbiamo darci molti limiti, che non hanno nulla a che vedere con i limiti “individuali”. Sono limiti collettivi, di convivenza, inclusa la convivenza con il pianeta! Limiti concreti, che mi sembra poco hanno a che fare con slogan come il progetto del Monveso.
no! non aderirò a questo progetto (iniziativa).
Frequento la montagna da un’eternità e non ho mai cercato di superare nessun limite reale od immaginario che sia.
Al massimo ho provato a cercare un equilibrio con l’ambiente che mi circondava.
Non siamo alieni su questo pianeta, non serve uno spazio da evitare.
Percorro le terre alte con umiltà e rispetto e non lascio tracce del mio passaggio.
Non pubblico resoconti, al massimo mi emoziono assieme agli amici.
Saluti a tutti
D’ accordo con Pinelli.
Leggi bene Matteo. È stata un’ Arista. Quindi l’arte non c’entra.
Sono, o so o stata, un’ ” Arista”
Chiedo scusa per l’ignoranza, ma cos’è un’arista? Io conosco solo il taglio del maiale…
Come molte altre volte, anche se non sempre, sono d’accordo con Betto.
https://www.montagna.tv/210724/pinelli-la-montagna-sacra-del-gran-paradiso-e-solo-un-capro-espiatorio-per-auto-assolversi/
Grazie Alessandro! Hai mosso una discussione finalmente profonda fra i soliti blogghisti. Condivido pienamente il contenuto della tua riflessione, e mi sento partecipe del dialogo che hai movimentato.
I concetti che esprimi sono miei fin dall’ adolescenza e trovarli così ben espresso mi ha quasi commosso. Fanno parte del mio interiore, a pescindere che io sia, o sia stata, un’alpinista. Sono, o so o stata, un’ ” Arista” e questo connubio non è certo irrilevante: entrambi hanno necessità di una, ricerca profonda nell’ interiore.
Grazie ancora e grazie a tutti gli altri che hanno scritto.
L’avventura funzionale al consumo d’esperienze non è avventura, ma noia seriosa. L’avventura si svolge nell’avvenire, nella sua ambiguità, grande e piccola. Non è gioco e non è serietà, sta nell’istante imprevedibile che viene. Si può trovare anche in un semplice bosco dimenticato o su una piccola rupe, si può perdere facimente su vette famose e grandi pareti.
Fatto! Ho dato la mia adesione. Grazie Toni Farina, chi lo sa, magari ci vengo da quelle parti.
Claudio Genoria il tu va benissimo. Aderire? Si compila il modulo on line e poi si conferma con mail.
Il termine qualifica è in effetti non il massimo Amante della montagna è perfetto
Circa il fatto che il Monveso è lontano da Belluno? Questione che non si pone, ha aderito l’Alpine Club che sono più lontani ancora. In ogni caso non lontana dal Monveso c’è la Torre di Lavina con una bella via di roccia, mi dicono. E la valle di forzo già da sola vale una visita… con vista sul Monveso.
Avrò il piacere di farti da guida?
Buongiorno Toni Farina, abbiamo una passione in comune, mi permetto pertanto di darti del tu e ti invito a fare altrettanto 🙂
Ma non è solo questione di comunanza di interessi: mi pare che ci si possa anche dire schierati, se possibile, dalla stessa parte, almeno per quanto riguarda la protezione della wilderness montana.
Il motivo della “diserzione” di alcuni, di cui mi parli, è forse dovuto all’incapacità di rinunciare ma soprattutto, secondo me, è un fatto di priorità. Non posso parlare per gli altri ma ti assicuro che, se la lotta rispondesse alle mie istanze e alle mie urgenze, convinzioni, speranze, non avrei dubbi: tra la gita e la lotta sceglierei sicuramente la lotta. Anche per senso di appartenenza a una comunità.
Infine un paio di domande “tecniche”: cosa significa esattamente aderire? Se significa sottoscrivere, firmare, posso qualificarmi semplicemente come “amante della montagna”? E da ultimo, quanto/come può valere secondo te l’adesione a questo progetto se, da residente in provincia di Belluno, la rinuncia a una cima così lontana da me mi costa, in fin dei conti, quasi niente. Grazie
Per Claudio Genoria. Una cosa non eslude certo l’altra. Io stesso in MW sono stato promotore di diverse iniziative sul tema “eliski”, in alta Val Susa e in Val d’Aosta.
L’ultima in ordine di tempo nelle Valli di Lanzo collegata al progetto “Balme primo comune italiano no-eliski”. Quel giorno di aprile c’erano belle condizioni per fare sci alpinismo e dunque gli alpinisti anziché partecipare alla manifestazione andarono a zonzo sulle cime. E così a Balme ci trovammo in 6 o 7. Volevi mica perdere la gita della vita. Cosa vuole, la montagna è libertà… Scusi la sottile polemicuzza. Buone gite e aderisca che si può fare
Benassi. Contemporaneamente ricerca del rischio, dell’andare oltre ogni limite, della velocità, delle droghe che non “rilassano” ma al contrario liberano dal senso del limite e producono falsa onnipotenza, esperienze sessuali estreme….ogni notte un’ecatombe sulle strade….tutto insieme, dentro lo stesso contenitore. Il compirtamento individuale e sociale non è lineare. Bisogna farsene una ragione.
Strade sempre più in quota, attrezzature sempre più invadenti, segnaletica sempre più fitta che ti accompagna per mano, copertura cellulare garantita, guide super dettagliate, rifugi come alberghi, catene a cavi dove c’è un minimo di esposizione, vie super attrezzate con discese in doppia sempre garantite, informazioni giornaliere.
Questo è non accettare il limite, è la società del non limite.
Sulla “auto-limitazione” ci sono sicuramente motivazioni concrete, ragionevoli ed apprezzabili. Però ad un livello più profondo, non escluderei la presenza in aree della nostra società di istanze di espiazione, auto-punitive, riti e simboli di sacrificio depurativo. Non è comunque la prima volta nel corso ad esempio del secolo scorso. Un po’ come dopo una gran mangiata o una gran bevuta: brodino e pollo lesso. Temo però che a livello di massa sia il classico fenomeno dello yo yo, caratteristico delle diete post vacanze e pranzi di Natale. Però forse sono un po’ pessimista, almeno con la ragione.
Lo slogan “no limits” era usato per associare a un prodotto lo stile di vita di alcuni esemplari testimonial. Un po’ quello che, in più grande scala, sta facendo Red Bull. Simile concetto comunicava, anni fa, la pubblicità di un’automobile, che più o meno diceva: “la vita è un film, il protagonista sei tu”. L’arrivo dei social media ha fatto il resto.
Dal mio punto di vista, il problema non sta nel limite – o, per meglio dire, nella spinta al superamento dello stesso – quanto piuttosto nello sfruttamento commerciale che se ne sta facendo. La montagna, in questo modo, viene ridotta a palcoscenico o – come dicono molti, forse senza capire quanto è brutta l’espressione – a “terreno di gioco”.
La rinuncia volontaria a una cima è un atto d’amore “estremo”, questo mi pare di capire: nelle parole di Toni Farina, qui sotto, trovo soprattutto amore, ed anche un senso molto bello di compassione nei confronti di un ambiente naturale sottoposto a sovrasfruttamento. L’ambiente amato. Ti amo così tanto che rinuncio a te pur di vederti liberato. Una cosa così.
Però se questa volontaria rinuncia – che, insieme, è atto d’amore – vuole anche essere un simbolo, ispiratore di una politica – e lo deve essere, altrimenti che senso avrebbe parlarne, farne promozione – allora si deve accompagnare ad azioni di lotta concreta: contro le nuove speculazioni, contro le nuove valorizzazioni e contro i nuovi divieti che – non è una contraddizione – scattano proprio quando della montagna si vuole fare uso “sicuro”, terreno di gioco, palcoscenico dove indurre la gente a mettersi in scena.
La vera sicurezza si raggiunge solo attraverso un percorso personale, passandoci tanto tempo, in montagna, lasciando che sia la montagna a dettare i tempi e i modi. È la strada che ho percorso per fare sì che la montagna diventasse una parte di me, non già un ambiente funzionale alle mie ambizioni, ma un ambiente a cui voglio bene.
Non credo che il progetto della “montagna sacra” sia un simbolo dell’autolimitarsi o del “contenersi”, che sono invece derivati rancidi di cattolicesimo o senilità. Se questo progetto, come mi pare i capire, è un simbolo di amore, e se sarà accompagnato da azioni di lotta, nel suo nome, allora io sono pronto ad aderire con tutto me stesso.
Per Guido Riva #8. Se c’è un’azione che non sopporto è quella di “vietare”. Come “l’occasione fa l’uomo ladro” così potresti pensare che anche io, avendone il potere, potrei vietare qualcosa… Ma non c’è questo pericolo: non ho alcuna posizione di potere, né ci terrei ad averla.
Accettare al posto di istituire è fondamentale, anche se il concetto si è chiarito in corso d’opera.
Leggendo i commenti un po’ di fretta, la confesso (oggi giornata pienamente lavorativa, il fine anno è stritolante… come tutti gli anni!), mi par di cogliere che ci sia un po’ di confusione (e di malintesi) sul concetto di “limite”. O meglio sulla sua rivisitazione ai giorni nostri e le implicazioni che ciò comporta nel contesto di ambiente degradato.
No Limits era la filosofia godereccia e distruttiva degli anni ’80-90. Quella la aborriamo tutti, almeno in questo Blog (in realtà è ancora molto diffusa fuori di qui, purtroppo). Ma porsi un limite non è porsi un livello che si cerca di spostare ogni volta un po’ più in là, come fosse l’asticella del saltatore in alto. Questa seconda versione, per quanto molto diversa dal No Limits puro, ne rappresenta un’attenuazione, ma sempre inserita nello stesso filone: spostando il limite, non ti fermeresti mai.
Oggi occorre porsi un limite molto diverso, cioè un limite “contenitivo”, non un livello da “spostare” se migliori in termini di allenamento o di capacità tecniche. Ce lo chiede la Montagna: deve essere una scelta da alpinisti maturi e consapevoli. Il succo è: potrei fare 100, ma mi autolimito e faccio solo 75. Oppure potrei arrivare fino a “là”, ma mi fermo prima o addirittura non parto neppure. Il limite individuale, scelto e non imposto, è tutto ciò che consente di alleggerire/ridurre la pressione antropica sull’ambiente (per noi alpinisti sulla Montagna).
Questo è il concetto di limite adeguato ai tempi nostri. Deve essere una scelta, ci mancherebbe, ma se non scegliamo, ci penserà qualcun altro a scegliere per noi: o sarà la Natura (vedi Marmolada o Ischia, fenomeni apparentemente diversi ma con il medesima matrice) o, nell’ottica della società sicuritaria che deve “evitare ex ante” le tragedie, ci penserà qualche autorità competente con divieti ecc.
Chi è davvero affezionato alla Montagna, oggi, scegli di auto-limitarsi.
Pensiero dominato dal razionalismo.
https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-zelensky_e_la_bufera_su_balenciaga/45289_48155/
La convivenza di pulsioni contradditorie nella nostra società non dovrebbe meravigliare. Era già il tema di Eros e Civiltà del vecchio freudiano Marcuse. La polarità: bene=rinuncia, ascesi, autolimitazione, accettazione del limite oppure bene=libertà di realizzarsi e di andare oltre ogni limite è una polarità profondamente radicata nella dinamica psicologica individuale e collettiva. Gli individui, i gruppi, le famiglie, le culture, le visioni si posizionano di qui o di là, a volte oscillando periodicamente nel corso del tempo. Se un polo è la “virtù” , l’altro è ovviamente il “peccato”Ecco dunque le reprimende ricorrenti verso gli eccessi del contenimento o verso gli eccessi della liberta’. Reprimende che di solito sono più violente proprio nei “convertiti”da un campo all’altro. Secondo qualcuno una polarità confusa, irrisolta, non compensata sarebbe poi all’origine di alcune patologie individuali e collettive (di tipo ossessivo/compulsivo). Ma questo sarebbe un discorso diverso e ci porterebbe fuori via.
“La nostra è una società strana: mi sfugge come faccia a vivere questa schizoide contrapposizione tra il non avere limiti (o comunque predicare di non averli) e contemporaneamente insistere su una sicurezza quasi maniacale in tutto ciò che facciamo”.Ogni opera e intento umano concepita come opera nostra, è pregna di vanità. Non è che un tentativo di erigere un’altra babelica torre personale o sociale. Lo schizoide che rilevi è a mio parere una conseguenza dovuta, implicata e necessaria in quella concezione che i cattolici potrebbero definire “slegata dalla Trinità”, dall’eterno, dallo spirito a cui tutto fa capo. Per via di quella schizofrenia possiamo leggere l’incremento di malessere umano.Schizofrenia ben alimentata dal dominio del razionalismo sui nostri pensieri ed immaginazione. L’uomo è oltre quanto racconta la scienza. Quel dominio è la sua mortificazione, che lo obbliga a seguire strade esiziali di sviluppo, deriva dall’aver eletto a verità e conoscenza solo quanto evince dai dati cognitivi. Altroché schizoide. L’uomo è ridotto alla conoscenza cognitiva, ovvero a niente. Anche qui asino e carota, funzionano.
Parlare del potere dell’amore è bello: fa sorridere gli scientisti. Quando la parola amore sarà presente nei nostri discorsi avremo compiuto un passo evolutivo. Con una precisazione. Non si tratta dell’amore per interesse personale. Piuttosto di quello che deriva dall’aver riconosciuto che siamo tutti mossi dalle stesse forze e che, quindi, siamo identici. Quando potremo ricreare che siamo gli altri in altro tempo e spazio. Quando non potremo escludere da quel sentimento animali e cose. Quando sarà presente in noi un senso della vita che sia solo un casuale incontro di molecole.
“Vera sicurezza e le profondità di un individuo sono la stessa cosa”.Profondità penso sia qui sinonimo di sé. Avere riconosciuto il proprio sé è avere il timone della vita in mano. Diversamente il rischio di finire preda di incantesimi e luoghi comuni, ideologie e idolatrie si alza. Alzando contemporaneamente il rischio di trauma e malattie. Ecco in che termini trovando il proprio sé, emancipandosi cioè dal dominio dell’io, il rischio di muoversi a nostra misura si alza, portando con sé le scelte opportune alla realizzazione dello scopo, ovvero della sicurezza necessaria.
Si può anche andare oltre la propria misura. Nel caso lo si farà consapevolmente. Ciò comporta la piena assunzione di responsabilità su quanto accadrà. Senza la consapevolezza della propria misura, il rischio di valicarla, come succede se prede della psicologia del branco – e tutte le equipollenti – non solo alzerà il rischio d’incolumità ma indurrà all’attribuire responsabilità del proprio operato ad altri. Nonché, porterà pena e sofferenza. Uno stato che a sua volta peggiora la vita e genera malattie.
“Più adatta agli asili infantili che non a cittadini del XXI secolo”.Non è la conoscenza cognitiva che ci fa evolvere, tantomeno quella tecnologica. Per questo possiamo dire che il cosiddetto progresso è fasullo. I passi evolutivi hanno a che fare con le consapevolezze. Queste a loro volta hanno poco peso e rimangono un fatto d’interesse personale finché non vediamo nel nostro esistere l’esistere del cosmo. Allora, dedicarsi ai valori effimeri della storia, al sapere cognitivo ci dice che non abbiamo inteso che il viver come bruti non è una preghiera al quel sapere ma a quello spirituale.
L’assassinio della fantasia, condivido, è meno pregante di quello del sacro. La fantasia è dominata da valori effimeri finché questi non vengono riconosciuti come tali, cioè finché non corrispondono al proprio sé. Allora il sacro emerge in tutta la vita perché di essa siamo espressione. Non siamo il nostro nome, la nostra professione, il nostro ruolo, tanto da ritenere sacro tutto ciò che quella concezione comporta. Brutalmente, per il commerciante il cliente è sacro. Andando carnalmente – non concettualmente – oltre il nome, la professione e il ruolo, avremo a che fare con il sacro del mondo.Dunque, il sacro, come qualcuno ha già detto, non può essere imposto. Sarebbe in quel modo reificato in merce, in moda, in effimero. Una specie di panchinona.
Penserei che il sacro potrebbe essere termine presente – come amore – nei testi e nei discorsi di chi sta prendendo coscienza della direzione di questa cultura e sente tremare le fondamenta di tutti, nei termini accennati, senza intenti proselitici.
Appunto! Deve essere una libertà di scelta. Un fatto personale che cambia, varia a seconda della sensibilità che ognuno di noi ha in relazione ai luogo e alla motivazione.
Dimenticavo. A Cominetti: quando mi è capitato (troppo spesso ormai) di scrivere di questa idea ho da un certo punto in poi evitato il verbo “istituire”, equivoco e fuorviante.
Trovo il termine “accettare” sicuramente più consono, ma a mio parere, il concetto avrebbe dovuto essere già chiaro leggendo il paragrafo “Attenzione al limite imposto”.
Vorrei inoltre sottolineare la differenza fra limite (intrinseco) collegato alle proprie capacità personali (tecniche, fisiche) e limite (estrinseco) esterno a noi stessi e ben più attinente (a mio parere) a quella libertà di scelta di NON fare (per motivi diversi dal non esserne in grado).
Un esempio attuale sono i Mondiali in Quatar. Siamo certamente in grado di costruire per l’occasione stadi con l’aria condizionata nel deserto, ma non dovremmo farlo.
In estrema sintesi: la differenza fra “voglio ma non posso” e “posso ma non voglio”.
Non sono un Alpinista. Per raggiungere le cime scelgo la via pià agevole (mi capita però talvolta di usare le mani, dunque sono un alpinista?), ragion per cui ho vissuto l’evoluzione alpinistica così ben descritta da Gogna un po’ di lato., come lettore di testi. E ricordo un articolo scritto da inglesi (Tasker? Boardman? altri?). Giunti sulla cima del Kangchenjunga (mi pare) uno di loro disse: “cima solitaria, che tu possa rimanere così per sempre”. In quel “per sempre” sta il messaggio, e la frase mi colpì. Si dirà: intanto ci sono saliti, certo ma non è questo il punto, e chi vuol capire ha capito.
Mi è capitato spesso arrivando su un colle, un crinale, insomma su un punto panoramico, nel tardo autunno, in quelle giornate di anticiclone autunnale, limpide senza vento, senza alcun suono perché sulla Montagna è ormai silenzio.
E guardare sull’orizzonte le montagne con la prima neve. Riconoscere le cime e pensare: da ora in poi per diversi mesi riposi, per un periodo nessun piede d’uomo ti “calpesterà”.
Fantasie insane? Certamente. Ma l’idea della montagna sacra è nata un po’ lì, legata a quel “per sempre”. Banalmente filosofico (aspproccio infantile alla filosofia) , ma anche politico. perché come ha giustamente rilevato Lorenzo Giacomino, giovane sindaco di Ronco (Val Soana, uno dei due comuni del Monveso): il progetto (il progetto!) della montagna sacra è politico. Nel senso vero del termine. Perché se il Limite all’umano agire non si fa sclta politica, non lo scopro certo io, per Homo sapiens non c’è futuro .
Mntagna sacra è dunque un simbolo, culturale e politico. Inutile? Futile? Ridicolo? C’è ben altro? Tutte osservazioni legittime. Legittima è anche una osservazione di un commento su FB: “avete chiesto ai proprietari?”
La proprietà privata è sacra anche nella nostra “cultura” occidentale. Ma la domanda è: chi sono i proprietari del Monveso?
Mi scuso per lungaggini e confusione e parole in lòibertà. Come detto scopo, del progetto è far discutere, e questo è un obiettivo raggiunto.
Buona montagna a tutti.
@ Alessandro al 7. E se non riesci a vietare l’uso di istituire, cosa fai?
#3 Caro Marcello, hai ragione. Nel testo mi è sfuggita la parola “istituire”, che ho provveduto or ora a modificare con la parola “accettare”. Quell'”istituire” deriva da un testo ufficiale del “comitato promotore”. Però il mio post è del tutto personale, ci possono essere sfumature non proprio coincidenti con le visioni degli altri.
Posso garantirti che aborro la parola “istituire”, e che farò di tutto perché non venga mai usata a proposito della Montagna Sacra.
Che differenza c’è?
Se c’è, è molto sottile e l’una potrebbe nasconde l’altra. Il passo da accettazione a istituzione, quindi pericolo di obbligo imposto! è molto labile.
Il limite è personale ed è fatto per essere spostato in avanti.
Questo spostamento in avanti, verso l’alto, dovrebbe avvenire attraverso il rispetto di regole non scritte! Per non essere drogato da facilitazioni. Altrimenti è un falso, è raccontar(e)si bugie.
Si potrà spostarlo, ma senza mai superarlo perchè, come dice Cominetti, ti si ripresenta li davanti a te come una nuova sfida.
Piu che il limite sono le “nuove sfide” il vero stimolo.
L’asino non supererà mai la carota, al limite la raggiunge e se la magna, ma poi prende una fila di legnate dal padrone, che deve rimettere un altra carota in maniera più irraggiungibile.
Forse è così pure per noi, quando raggiungiamo il nostro limite prendiamo una fila di legnate e il limite ci viene posto più irraggiungibile
…Un esempio di limite: la Montagna SacraLa proposta è semplice, priva di costi e di divieti: istituire una Montagna Sacra nel Parco nazionale Gran Paradiso, una montagna consacrata alla natura da cui escludere ogni presenza umana, anche per dare senso e concretezza al centenario del Parco…
Caro Alessandro, io nell’articolo, e pure nei precedenti a proposito del progetto di Toni Farina, leggo “istituire”, come ho copiato qui sopra.
Accettare che venga istituita una cosa simile è azione semmai conseguente.
Che personalmente non accetto perché non sento come utile. Però ho visto che è stata accettata da molti. Ognuno ha le sue idee sul rispetto della montagna e come praticarlo.
L’articolo mi è piaciuto molto ma ho trovato l’argomento della montagna sacra una forzatura nel contesto.
#1 Caro Marcello: mi spieghi dove evinci che si tratti di una “istituzione”? In tutto il post questa parola non figura come anche neppure altre similari.
Perché si confonde “istituzione” con “accettazione”?
Concetti che personalmente condivido pienamente e che in larga parte avevo anch’io espresso sul blog in un paio di articoli, ma sinceramente non vedo il nesso con l’istituzione della montagna sacra nel massiccio del Gran Paradiso.
A parte questo (ognuno ha il suo percepire) vorrei rimarcare il significato del no limits, tirando fuori l’ormai consunta espressione del “superare i propri limiti”.
Nel sito di una nota azienda calzaturiera avevo già espresso che:
Non cerco di “superare i miei limiti” perché se così fosse non sarebbero tali e combatto da sempre contro i luoghi comuni, vere tombe della fantasia e dei sogni.
(qui per esteso: https://it.scarpa.com/athlet/marcello-cominetti.html )
Il limite è quella soglia, secondo me, oltre la quale è bene -quando non impossibile- non andare. Semmai il proprio limite si può spostare se si migliora mentalmente e fisicamente ma, anche quando l’hai spostato verso l’alto, il limite, là davanti resta e non si fa mai superare.
Come se l’asino volesse superare la carota.