La linea di bellezza

La linea di bellezza
di Chiara Baù
(già pubblicato su www.imperialbulldog.com il 10 ottobre 2017)

Lettura: spessore-weight*, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**

Rimasi colpita quando un giorno, parlando con un comandante durante una traversata in mare, venni a conoscenza di un nuovo termine legato alla barca a vela. Una definizione poco usata, ma che costituiva con la sua eleganza l’elemento distintivo che caratterizza ogni singola barca. Si tratta della cosiddetta linea di bellezza, una banda sottile dipinta sulla parte inferiore dello scafo.

Ogni armatore decide come farla dipingere, è una sorta di firma, come fosse un quadro. Negli antichi velieri come i clipper, tale linea era rappresentata da una duplice riga di foglie dorate, a sottolineare l’elegante curvatura del ponte che terminava con un’attraente polena in legno.

Quale il significato della parola bellezza?

Al giorno d’oggi, bombardati da continui messaggi pubblicitari che mirano all’estetica in modo assillante, si potrebbero associare a tale termine tutta una serie di prodotti di cosmesi capaci di offrire a uomini e donne nuova giovinezza e fascino. Un concetto oggi fortemente estremizzato che spalanca i confini a una moltitudine di rimedi appositamente studiati per apparire più belli. È invece nel periodo classico che ritrovo un valore più autentico e aderente al significato di bellezza. Penso ad esempio alle colonne del Partenone ad Atene, famoso in tutto il mondo per essere il più perfetto tempio dorico mai costruito. I suoi architetti per farlo apparire ancora più bello di quanto già non fosse apportarono miglioramenti architettonici che divennero leggendari; basti ricordare la sottile corrispondenza tra la curvatura dello stilobate, piattaforma sulla quale si reggono le colonne e l’entasis (ἔντασις), un leggero rigonfiamento posto sul fusto a 1/3 della sua altezza. L’effetto di queste leggere curve consentiva una migliore simmetria, annullando la sensazione di pesantezza che lo stile dorico imponeva a quel tempo e trasformando il Partenone in un tempio di inestimabile bellezza.

Sulle barche un segno di ulteriore bellezza compare in quella linea sottile che a seconda della scelta dell’armatore è situata o appena sotto il bordo della barca o delimita l’opera viva dall’opera morta, dove per opera viva s’intende la parte immersa della barca, che assiste alla vera vita del mare, dei pesci, delle tartarughe fluttuanti durante le migrazioni, quella parte affacciata nell’immenso manto blu che ricopre oltre il 70% della superficie terrestre nascondendo il più vasto ecosistema del pianeta.

Benché a una prima impressione sia facile pensare che l’opera viva costituisca la parte emersa soggetta alle variazioni del vento e all’impatto delle onde, niente di più vivo si nasconde nelle profondità del mare dove dominano organismi unicellulari, i procarioti, in grado di adattarsi efficacemente ai cambiamenti del loro habitat. Recenti studi hanno ipotizzato come, a fronte del riscaldamento globale e delle sue nefaste conseguenze, i procarioti saranno vincenti in quanto capaci di sfruttare più efficacemente, rispetto alle specie di superficie, le ridotte risorse alimentari, divenendo quindi più resistenti all’impoverimento di risorse atteso per effetto del surriscaldamento dei mari.

Presa da questi pensieri durante la traversata non mi ero accorta che qualcosa stava per accadere. Fino a quel momento solo una leggera glisse, il morbido fruscio della barca che scivola sul mare. Una piacevole, infinita sensazione di quiete.
Avevamo intanto raggiunto la zona del Canyon di Caprera, un’area situata a 30 miglia dalla costa, non lontana dalle Bocche di Bonifacio. Era l’ora del tramonto e l’acqua immobile, liscia come l’olio, appena accarezzata dalla barca stava attraversando silenziosamente quel tratto di mare. Un’atmosfera surreale, attimi di suspence analoghi ai momenti di silenzio che si creano prima di un’opera teatrale in attesa dell’apertura del sipario.

Johann Joachim Winckelmann, uno dei massimi teorici ed esponenti del neoclassicismo, nel ‘700 scriveva che la quiete è lo stato che più si addice alla bellezza, come al mare e l’esperienza insegna che le più belle creature siano quelle dal carattere quieto e ben educato. E questo non è certo quello che ci trasmettono ultimamente certi discutibili personaggi attuali, quali Kim Jong-Un, presidente della Nord Corea.

Sosteneva inoltre Winckelmann che le principali caratteristiche dei capolavori greci fossero una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare resta sempre immobile, per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, sia pur agitate da intense passioni, rivela sempre un’anima quieta e posata. Una definizione perfettamente aderente alla situazione di quel momento, al tramonto, nel Canyon di Caprera.

Improvvisamente in prossimità della prua, in corrispondenza della linea di bellezza della barca, iniziarono a comparire una, due, tre stenelle striate. Ed ebbe così inizio il via alle danze: uno spettacolo entusiasmante.

La stenella striata (Stenella couruleoalba) è un cetaceo odontoceto appartenente alla famiglia dei delfinidi che vive nelle acque temperate e tropicali di tutti gli oceani del mondo. Si tratta di una specie di delfino caratterizzato da striature, agile, veloce e acrobatico, capace di compiere avvitamenti all’indietro e salti alti sino a sette metri. La particolare colorazione a striature variopinte permette di riconoscere piuttosto facilmente la specie. Sotto la pinna dorsale è sempre presente una fiamma grigio chiara e il ventre appare costantemente di colorazione bianco-rosata.

Osservandole in testa alla prua, il più vicino possibile, avevo l’impressione che le stenelle mi guardassero con curiosità. La barca non era più in balia della leggera brezza che sfiorava le vele, ma delle stenelle che si erano improvvisate come divertenti timonieri di quel tratto di mare. Il loro continuo comparire e scomparire in acqua trasmetteva a tutto l’equipaggio della barca una totale allegria e non si poteva fare a meno di continuare a sorridere, presi da quel giocoso turbinio di evoluzioni. La loro striatura, una nuova linea di bellezza.

Più tardi scoprii che la zona del Canyon di Caprera era soprannominata il Triangolo dei Cetacei, una vasta area in cui sono possibili incontri sensazionali grazie alle particolari condizioni oceanografiche che, abbinate alle forti correnti che battono l’area delle Bocche di Bonifacio, creano un’importante catena alimentare. Qui i cetacei vengono ad alimentarsi, data la vastissima quantità di specie planctoniche affioranti sull’acqua. L’eccezionalità dell’evento fu data anche dal fattore tempo. Altre volte avevo avvistato i delfini, ma si trattava sempre di brevi attimi. L’incontro con le stenelle durò parecchi minuti.

Non un attimo rubato al tempo, ma il tempo stesso si era dilatato in un’epoca, quella odierna, in cui la dimensione temporale è ormai diventata fugace e fuggitiva. Non in quel momento. Ebbi così tutto il tempo di assaporare quello spettacolo di salti e acrobazie, che sembrava interminabile. Se all’inizio poteva sembrare una sorta di benvenuto, durante la navigazione sopra il canyon sottomarino si aveva l’impressione che quegli agili cetacei volessero invitarci e guidarci in quello che era il loro regno, noi gli ospiti, loro i padroni di casa.
Mi chiesi allora se la linea di bellezza non fosse stata inventata da qualche saggio e fantasioso navigatore, dopo aver notato come delfini e stenelle comparissero proprio all’altezza di tale linea, al confine tra mare e cielo. E anche questa era una linea di bellezza.

Rimanemmo in loro compagnia almeno venti minuti, fin quando il branco si rituffò nelle profondità del canyon. La navigazione riprese e la barca proseguì la sua rotta, lasciandoci nell’animo uno stato di quiete apparente che in realtà nascondeva un’emozione di piena felicità. Al calar del sole approdammo su un’isola dell’Arcipelago della Maddalena disponendoci in rada per trascorrere la notte.

Una breve camminata sulle sponde dell’isola mi diede la possibilità di scoprire la presenza di fiori alquanto curiosi che alla luce del tramonto sembravano essersi accesi come piccole luminose lampadine.

Si trattava dell’Urginea maritima (Scilla marittima), un fiore il cui scapo floreale è emesso dal bulbo nella tarda estate quando non vi è più traccia di foglie verdi, tutte ormai secche. L’infiorescenza è fitta, a forma di fuso con base ristretta e conica verso la punta. La forma elegante e il portamento visibili in agosto nascondono la forza risoluta di questo fiore, concentrata proprio nel bulbo. Infatti in estate capita spesso che le zone in cui abbonda la Scilla marittima siano percorse dal fuoco che brucia la parte più esterna delle squame dei bulbi senza intaccarne la vitalità. Così su terreni completamente bruciati emergono in tutta la loro eleganza questi fiori dediti alla resilienza.
In presenza di tanto vigore e forza di vita mi sembrò che la linea di bellezza della barca si prolungasse sull’isola, una nuova linea in corrispondenza della quale nella penombra risaltava la lucentezza di questo fiore, un po’ come le stenelle apparse sulla linea del mare con la loro presenza gioiosa.

L’indomani volli esplorare la spiaggia dietro la baia dove avevamo gettato l’ancora… un paesaggio  paradisiaco si offrì ai miei occhi. Sembrava che nessun essere umano avesse mai messo piede in quel luogo… non una traccia, non un rifiuto sulla spiaggia. L’unico segno tangibile di presenza umana una piccola porzione di tetto che spuntava dai cespugli. Chi mai viveva solitario nella macchia mediterranea?

Scoprii a breve la presenza di un custode, che preferirei definire angelo protettore della spiaggia più bella che avessi mai visto… la cosiddetta spiaggia rosa dell’Arcipelago della Maddalena. Ma questa è un’altra storia ancora.

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La linea di bellezza ultima modifica: 2018-01-05T04:34:09+01:00 da GognaBlog

1 commento su “La linea di bellezza”

  1. 1
    lorenzo merlo says:

    A mia volta mi sono chiesto in cosa consistesse la bellezza.

    Nella ricerca scartai molte risposte.

    Un giorno ne travai una che al momento ebbi l’impressione funzionasse.

    Non aveva niente a che vedere con tutta la retorica estetica della forma.

    Aveva invece a che vedere con un fatto intimo.

    Si trattava dell’emozione che mi sorgeva al cospetto di qualcuno o qualcosa fisica o concettuale.

    Ma se, come sappiamo, la bellezza non è cosa oggettiva, la questione stava altrove.

    Stava nella relazione che ognuno è con ciò che ritiene esterno a sé.

    Era la consonanza a fare testo, la fratellanza, l’appartenenza, il riflesso di noi stessi.

    Una proiezione che ritornava indietro liberando in noi un senso di soddisfazione.

    Nel tempo non trovai alternative a quella risposta, sembrava la più capace di sostenere la verità.

    Era l’equilibrio.

    O come dice Johann Joachim Winckelmann – lo apprendo ora –  «… la quiete è lo stato che più si addice alla bellezza».

    Da allora penso che la bellezza corrisponda ad un senso di compiutezza, momentanea levitazione dello spirito, ove tutto scompare fino a offrirci il senso della vita, perché la bellezza da sola ne riempie ogni spazio.

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