La lunga Cresta di Peutérey (GPM 034)
(Arturo e Oreste Squinobal al Monte Bianco per la cresta di Peutérey – Prima ascensione integrale d’inverno insieme alla cordata francese di Yannick Seigneur)
di Gian Piero Motti
(fotografie di Arturo e Oreste Squinobal)
(già pubblicato su Rivista della Montagna n. 12, aprile 1973)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(3)
“La cresta integrale di Peutérey rimarrà sempre una salita che difficilmente verrà ripetuta, infatti le probabilità di compiere l’intera scalata sono molto minori rispetto alla parete nord dell’Eiger o allo sperone della Punta Walker, perché le dimensioni della cresta superano quelle di entrambe le pareti, sia in altezza che in estensione: 8 km d’arrampicata, discese a corda doppia, salite lungo roccia, ghiaccio e misto, contro i due chilometri circa delle grandi pareti nord. Già la prima tappa, la cresta sud dell’Aiguille Noire è di due chilometri di scalata fra il V ed il IV grado; poi la seconda frazione, 500 metri di discesa a corda doppia lungo il verticale spigolo Nord dell’Aiguille Noire, una grande incognita, soprattutto con il maltempo! L’ultimo tratto, infine, la traversata dell’Aiguille Blanche, la discesa alla sella del Col de Peutérey e la salita di 900 metri per raggiungere la vetta del Monte Bianco risulta tecnicamente più facile, ma certo non meno grandiosa e impressionante”. Così scrive il celebre scalatore austriaco Kurt Diemberger riferendosi al percorso integrale della cresta di Peutérey al Monte Bianco. E’ un giudizio autorevole che sintetizza magistralmente le caratteristiche di questa grandiosa impresa che non ha eguali nelle Alpi per lunghezza e complessità. Alla fine del dicembre scorso una cordata italo-francese, composta dai fratelli Arturo e Oreste Squinobal, guide di Gressoney e da Yannick Seigneur, Louis Audoubert, Michel Feuillarade e Marc Galy, è riuscita a percorrere questa estenuante maratona nella stagione invernale, quando i rischi e le difficoltà in alta montagna si moltiplicano enormemente.
E’ un successo di portata più che notevole e ci rammarichiamo che la stampa, così pronta a intervenire nel mondo alpinistico quando l’occasione le venga offerta da una tragedia o da un dramma, abbia appena accennato o addirittura ignorato l’impresa condotta a termine in perfetto accordo e senza nessun incidente, prova tangibile di grandissima esperienza e di preparazione accurata e tenace.
La Sud della Noire: la più bella cresta delle Alpi
Ma prima di entrare nei particolari di questa impresa, vorrei tracciare un po’ la storia di questa splendida cresta. La parete italiana del Monte Bianco è forse l’unica della cerchia alpina che per imponenza e grandiosità possa reggere il confronto con quelle dei colossi himalayani. Per quasi 3000 metri precipita verso i prati e le belle foreste di fondo valle, creando un contrasto unico e inimmaginabile. E’ una parete complessa, tormentata, dove i ghiacciai vengono serrati come in una morsa tra contrafforti rocciosi di immani proporzioni: la massa glaciale si rompe e spezzandosi precipita a valle formando cascate di seracchi impressionanti. A sostegno di questo colossale edificio, si elevano due pilastri turriti, i contrafforti di Brouillard e di Peutérey. Ma è soprattutto la cresta di Peutérey ad attrarre la nostra attenzione, perché è «la grande cresta» per antonomasia. Dai pascoli della Val Veny subito si rizza un castello di rocce brune: il Mont Noire de Peutérey, primo baluardo della cresta. Segue un intaglio marcato, il Col des Chausseurs, da cui la cresta riprende per assumere le sue forme più eleganti e ardite. Il concetto estetico più puro si materializza in quella che possiamo definire la più bella cresta delle Alpi: la Sud dell’Aiguille Noire de Peutérey. Una cavalcata di cinque torri granitiche conduce alla vetta della Noire a 3773 metri. Il percorso di cresta della Sud della Noire è una salita a se stante, ambita da tutti gli alpinisti: il dislivello è di circa 1000 metri dall’attacco alla vetta, ma lo sviluppo dell’arrampicata è di almeno il doppio, dati i numerosi saliscendi e il numero delle traversate. Le difficoltà sono serie e costanti: IV e V grado con passaggi di V grado superiore. Malgrado tutto ciò in inverno è questo il tratto più facile e sicuro di tutta l’impresa: può sembrare un controsenso, ma non è così. Il grande ostacolo della montagna invernale è la neve, che si posa più facilmente dove le rocce sono facili e inclinate. Dove la parete rocciosa si avvicina alla verticalità la neve non ha modo di posarsi, anche perché il vento si fa sentire maggiormente con la sua azione ripulitrice. L’unica vera difficoltà è data dal freddo, che rende precaria la sensibilità delle dita e dal peso enorme dei sacchi, che rallenta notevolmente l’andatura. Una cordata di alpinisti forti e allenati percorre in estate la cresta sud dell’Aiguille Noire in un sol giorno, impiegandovi una dozzina di ore. Lo stesso percorso in inverno può richiedere anche tre giorni completi d’arrampicata. Dalla vetta della Noire è ora necessario discendere verso la Brêche Sud des Dames Anglaises, uno stretto intaglio compreso tra la Noire ed una serie di guglie scarne e ardite, definite chissà perché, le Dame Inglesi. E’ questo uno degli angoli più tetri e selvaggi del Bianco e dell’intera catena alpina, dominato dalla arcigna parete ovest della Noire che si affaccia sul tormentato e caotico ghiacciaio del Frêney.
Più che le doti d’arrampicatore valgono il fiuto e l’esperienza d’alta montagna
La discesa a corda doppia lungo lo spigolo nord della Noire è il tratto più difficile, rischioso e faticoso di tutta l’impresa. Sono necessarie ben 14 corde doppie di 40 metri l’una, sovente iniziate su chiodi e staffe, sempre su un vuoto impressionante, per raggiungere la base delle rocce delle Dames Anglaises. Segue l’aggiramento delle Dames Anglaises, uno snervante saliscendi su terreno misto, dove più che le doti d’arrampicatore valgono il fiuto e l’esperienza dell’alta montagna per scoprire la via in un dedalo di canalini ghiacciati, crestine, colatoi e paretine di roccia mediocre. Una risalita porta successivamente alla Brêche Nord des Dames Anglaises, dove a 3490 metri è posto il bivacco Craveri, una piccola semibotte metallica, unico vero punto d’appoggio di tutta la cresta. Da questo vecchio e malandato bivacco, che a malapena può ospitare cinque persone, in genere inizia il percorso classico della cresta di Peutérey, intendendo solo il tratto superiore attraverso l’Aiguille Blanche.
Se la metà inferiore del percorso offre difficoltà su terreno roccioso, la metà superiore si svolge su creste ghiacciate e su pendii di neve o ghiaccio, con lunghi tratti a carattere misto. Ben facilmente si può comprendere che una tale conformazione richieda alpinisti completi, ossia assolutamente padroni della tecnica di roccia e di ghiaccio, esperti su ogni terreno. E non si dimentichi il problema dell’attrezzatura, comprendente tutto il materiale occorrente per la scalata sia su roccia che su ghiaccio quindi martello, moschettoni, chiodi da roccia, staffe, cordini per l’una, piccozza, ramponi e chiodi da ghiaccio per l’altro.
Dal bivacco Craveri quindi si sale lungo un pendio di rocce e di neve, più faticoso che difficile, fino alla vetta dell’Aiguille Blanche a 4112 metri. L’Aiguille Blanche è formata da due vette che sono collegate tra di loro da una crestina di ghiaccio aerea e sottile come un rasoio, sospesa tra due abissi di centinaia di metri. Soprattutto in inverno, quando la cresta è spazzata dal vento e ridotta a una lama di ghiaccio verdastro il procedere diviene assai difficile e molto pericoloso. Dalla vetta della Blanche il Monte Bianco con la sua calotta ghiacciata sembra vicino, ma una profonda breccia divide ancora la vetta massima dalla Blanche: è il Col Peutérey, alto 3984 metri, che si raggiunge discendendo per quasi trecento metri dalla vetta della Blanche. Ed ora l’ultimo balzo di 900 metri, prima sulle rocce difficili e ghiacciate del Grand Pilier d’Angle, un gigantesco pilastro che sembra sostenere tutta la massa del versante della Brenva e poi lungo il tratto terminale della cresta di Peutérey, una crestina di ghiaccio inclinatissima che va a perdersi nella parete terminale del Monte Bianco di Courmayeur. In inverno è questo forse il tratto che riserva le maggiori incognite: data l’azione del vento che non permette alla neve di fermarsi e di rassodarsi sui ripidi pendii di ghiaccio, questo tratto può presentare un ghiaccio molto particolare, che solo durante la stagione invernale si incontra. Di colore verdastro, è duro e trasparente come il vetro ed ha la simpatica proprietà di scheggiarsi minutamente sotto i colpi di piccozza vibrati per intagliare gradini. Su di esso le punte dei ramponi non mordono e i chiodi a vite, una sorta di cavaturaccioli usati dagli alpinisti per assicurarsi su ghiaccio, non fanno alcuna presa. E’ il ghiaccio che in gergo alpinistico vien definito come culo di bottiglia. Andiamo ad aggiungere a tutto ciò la stanchezza dopo 5 giorni di scalata, le «gambe molli», la rilassatezza psicologica e ben capiremo come quest’ultimo tratto di scalata abbia messo a dura prova la cordata italo-francese. Vorrei ora trarre qualche considerazione tecnica sull’impresa e sui suoi problemi. Come già ho detto le difficoltà di una scalata invernale sono molteplici, vediamo di elencarle una ad una, riferendoci, se possibile, alla Cresta di Peutérey.
La Cresta di Peutérey al Monte Bianco vista salendo alle Grandes Jorasses. I quadratini e i circoli indicano rispettivamente i bivacchi della cordata italiana e francese. Foto: Ferruccio Joechler.
La difficile scelta degli alimenti e delle bevande
Il freddo è il primo ostacolo, ma non il più importante. Se si è ben attrezzati, è una difficoltà che si supera abbastanza agevolmente, ad esclusione delle dita delle mani, le quali vengono sottoposte a terribili «bollite». Il vento è molto più temibile del freddo; rallenta i movimenti, può addirittura impedire la progressione, penetra fino alle ossa, solleva turbini di neve che accecano e penetrando in bocca e nelle narici danno sensazione di soffocamento, rallenta gli stimoli e i riflessi. La neve può essere una nemica ma anche un’alleata. In merito alla cresta di Peutérey, se sui tratti rocciosi si richiedono condizioni di scarso innevamento, al contrario nei tratti superiori sarebbe utile un buon innevamento che renderebbe il procedere più svelto e sicuro: ma ciò non è purtroppo possibile data l’azione del vento, che trattandosi di una cresta, tutta la spazza senza particolari preferenze. Le poche ore di luce costituiscono in inverno un grosso problema: i bivacchi si protraggono per più di tredici ore e durante il giorno non è possibile avanzare lungo notevoli dislivelli. L’alimentazione è forse però la parte più spinosa e delicata di un’impresa invernale, o almeno quella che richiede più studio ed esperienza. La permanenza in parete della durata di più giorni, l’enorme dispendio di calorie, il problema del peso dei sacchi, richiedono viveri ad altissimo contenuto calorico e proteico. Date però le bassissime temperature, i liquidi o solamente i cibi contenenti acqua gelano irrimediabilmente rendendone la consumazione impossibile. D’altro canto l’assorbimento di grandi quantità di liquidi è essenziale per garantire un ricambio efficiente. Bisogna anche tener conto del funzionamento difficoltoso, in queste condizioni, degli organi preposti alla digestione. In primo luogo devono esser posti gli zuccheri: intendiamo per zuccheri (i medici ci scusino per la nostra imprecisione) quegli alimenti molto calorici che vengono assimilati rapidamente e sono facilmente digeribili, come lo zucchero puro, purché di canna onde evitare fermentazione, i fondants, il torrone, il cioccolato, ecc.
Ma naturalmente lo stomaco dopo due giorni di alimentazione siffatta ne esce nauseato. Subentrano allora le proteine, dove eccelle la carne seccata e salata, sia questa di maiale, di vitello o di camoscio. E’ un alimento ad altissimo potere calorico, ma la sua assimilazione è più lenta e richiede assuefazione per la digestione. Seguono infine i grassi, come la pancetta e il lardo, sicuramente nutrienti e assai calorici, ma di assimilazione ancora più lenta. Vi sono poi alimenti completi come il miele che vanno tenuti in massima considerazione.
24 dicembre 1972: Artuto e Oreste Squinobal scorgono la cordata francese impegnata nella scalata della Punta Bich sulla Sud della Noire
E vi sono infine tutte le varie polveri e polverine, gli alimenti energetici, le tavolette di glucosio, i liofilizzati che seppur importanti non sempre riscuotono la simpatia degli alpinisti, in quanto non soddisfano il palato. Per i liquidi abbiamo il tè in prima linea, seguito dal brodo, i passati di verdura, le zuppe di cereali o di fiocchi d’avena, i semolini, la camomilla, i composti a base di malto e vitamine e non ultimo il vino, a patto che non geli. Vedremo come le due cordate hanno risolto il problema.
A proposito di alimentazione, anche il riscaldamento delle vivande e la fusione della neve a queste temperature e a queste quote, costituiscono un problema. In commercio si trovano fornelletti a gas (butano) molto efficienti, ma sovente in inverno il butano gela o risente della pressione atmosferica. Alcuni preferiscono un modello funzionante con benzina raffinata (il famoso Borde) che garantisce continuità di funzionamento e grande potere calorifico. Si tenga anche presente che a queste quote l’acqua in ebollizione non riesce a cuocere alcuni alimenti come ad esempio la pasta.
Dopo le doppie della Noire la ritirata è quasi impossibile
Ma l’incognita più grande della Cresta Integrale è data dal possibile cambiamento del tempo e dall’eventuale ritirata. Già in estate nel gruppo del Bianco i cambiamenti del tempo sono particolarmente temuti, in inverno la situazione può divenire veramente tragica, immobilizzando una cordata per più giorni nel medesimo punto.
Fino alla vetta dell’Aiguille Noire il rischio non è molto grande, anche se una ritirata con cattivo tempo lungo la cresta sud o lungo la via normale, non è uno scherzo. Iniziata la discesa dalla vetta a corde doppie verso le Dames Anglaises, il dado è tratto e ci si chiude veramente in una trappola. Dal bivacco Craveri la ritirata lungo il versante del Frêney è estenuante, insidiosissima, ma è ancora possibile, anche in cattive condizioni. Essere bloccati dal cattivo tempo al Col Peutérey equivale a chiudersi la ritirata: se le precipitazioni nevose sono state abbondanti durante l’attesa del tempo buono, una discesa lungo i versanti del Frêney o della Brenva in inverno, rasenta la pazzia, per il rischio delle valanghe che comporta. Il ritorno per la cresta non è neanche da prendere in discussione, non resta che l’uscita verso l’alto; ma i viveri possono essersi esauriti, il fisico può essere giunto ai limiti dello sfinimento, la grinta non esiste più, la volontà si è ammorbidita… Dubbi, pensieri gravosi, interrogativi, perplessità che inevitabilmente si affollano alla mente di chi si accinge a un’impresa di questo calibro. In tutti è sempre ben presente il ricordo della tragedia del Pilone Centrale nel 1961, quando una cordata italo-francese si ritirò dal Col Peutérey lungo il bacino del Frêney per il perdurare del cattivo tempo.
Ore 14 del 24 dicembre 1972: Oreste Squinobal sulla vetta dell’Aiguille Noire
E sono proprio le perplessità che a volte possono intaccare la grinta. Ci sono mille modi di organizzare e condurre a termine un’impresa e ognuna può avere una sua ragione di esistere, ciò non toglie però che non si possa stabilire mediante un giudizio quale sia quella che più merita la nostra ammirazione. Si potrebbe attrezzare con corde fisse la cresta sud dell’Aiguille Noire, per risalirla poi velocemente nell’assalto finale e abbreviare il tempo totale del percorso; ci si potrebbe assicurare la ritirata attrezzando con corde fisse i versanti del Col Peutérey che si affacciano sulla Brenva e sul Frêney; si potrebbero ancora disporre antecedentemente dei depositi di viveri e di materiali lungo alcuni punti del percorso, come la vetta della Noire e il bivacco Craveri; certo si riuscirebbe lo stesso nell’impresa, ma ci si comporterebbe un po’ come quel tale che volendo entrare a tutti i costi nella gabbia della tigre, e avendone paura, pensò bene di armarsi di pistola e fucile. La cordata italo-francese, dimostrando esperienza, grinta e determinazione, non è ricorsa a questi espedienti e ha agito nel più classico sistema alpino. Niente corde fisse, niente campi intermedi, niente rifornimenti né prestabiliti né dall’alto via elicottero. Semplicemente ha saputo scegliere il momento giusto, le condizioni eccellenti della montagna e con prudente coraggio ha saputo cavarsi d’impaccio anche quando le condizioni del tempo sono peggiorate.
Qualcuno che evidentemente ha l’abitudine di osservare le montagne con il cannocchiale da fondovalle, ha pensato bene di dire che condizioni migliori di quelle non si sarebbero potute incontrare lungo la cresta. A parte il fatto che io non vedo perché uno dovrebbe affrontare un’impresa alpinistica quando le condizioni della montagna non sono buone, penso che una tale salita, compiuta in inverno, per quanto in condizioni ideali, rimanga pur sempre un’impresa riservata a una ristretta élite di alpinisti.
Parlo di alpinisti e non di arrampicatori: una volta di più si è dimostrato come in imprese di tal genere siano necessari uomini maturi e provati, sia nel fisico che nella psiche, uomini intorno alla trentina, che siano più resistenti e dotati di ragazzi sui venti, venticinque anni, magari arrampicatori brillantissimi ed eccezionali, ma dotati di scarsa esperienza e di resistenza fisica minore. Dei sei alpinisti, al termine della salita, sarà proprio il più giovane dei francesi a dare i primi segni di sfinimento.
Le corde doppie lungo la cresta nord della Noire
Dalla prima ascensione estiva al tentativo invernale del reverendo di Tolosa
Al termine di queste considerazioni, vorrei ricordare in breve la storia alpinistica di questa splendida cresta. Nel 1934 Adolf Goettner, Ferdinand Krobath e Ludwig Schmaderer compiono il primo percorso integrale della cresta di Peutérey, superando all’inizio anche il Mont Noire de Peutérey e salendo alla vetta della Noire lungo la cresta est o via normale. E’ la vera soluzione integrale ma è un percorso meno elegante e difficile di quello che Richard Hechtel e Günther Kittelmann seguono dal 24 al 26 luglio 1953, lasciando da parte il Mont Noire, ma salendo all’Aiguille lungo la bella cresta sud. Vi era già stato un simile tentativo da parte delle due guide cormaiorine Marcel Bareaux e Sergio Viotto, dal 28 al 31 luglio 1949, interrotto sfortunatamente dal maltempo al Col Peutérey. Da allora a oggi in tutta sincerità i percorsi integrali della cresta sono stati pochini: vorrei segnalare quello di Kurt Diemberger (con Franz Lindner, 1961, NdR), durante il quale fu realizzato il film La grande cresta di Peutérey e quello di Angelo Manolino con le guide italiane Alessio e Attilio Ollier, nel tempo strabiliante di soli due giorni di scalata. Giungiamo così all’inverno 1971. Le grandi pareti nord ormai sono state salite in inverno e gli alpinisti di fama internazionale vanno alla ricerca di qualche problema che veramente esprima il massimo dell’impegno e della difficoltà superabile dall’uomo durante la stagione invernale. Naturalmente l’integrale della Peutérey fa testo.
Vi era stato precedentemente un tentativo francese arrestatosi sulla cresta sud della Noire. Alessandro Gogna, Guido Machetto, Gianni Calcagno e Bruno Allemand riescono a fare molto di più e avanzano fino alle rocce (alla vetta, NdR) del Grand Pilier d’Angle, a soli 400 metri dalla vetta del Bianco, ma sono costretti a ritornare al Col Peutérey e vi restano bloccati dal cattivo tempo, dopo molti giorni di scalata. I viveri ormai sono esauriti, gli alpinisti sono particolarmente provati: in queste condizioni una ritirata appare impossibile e a fondo valle si comincia seriamente a temere. Infine un elicottero della Gendarmerie Française riesce ad approfittare di una schiarita e porta in salvo i quattro alpinisti, ponendo fine a questo sfortunato tentativo.
Come sempre in queste situazioni la stampa saprà impadronirsi della notizia, creando un mare di polemiche e facendo dire a qualcuno parole mai pronunciate. E’ uno strascico penoso che tuttavia porta a conoscenza del grosso pubblico l’entità del problema, di questa cresta integrale del Peutérey che ormai è divenuta l’obiettivo principale dell’élite mondiale dell’alpinismo.
Ma l’inverno 1972 sarà particolarmente inclemente e, malgrado alcuni tentativi di Gogna, non se ne farà nulla. Da segnalare un tentativo di un certo Audoubert, sacerdote alpinista di Tolosa, poco conosciuto negli ambienti alpinistici, che con due compagni riuscirà in ben cinque giorni di scalata a raggiungere la vetta dell’Aiguille Noire lungo la cresta sud. Poi il cattivo tempo lo costringerà alla ritirata. Ci si stupì molto allora della incredibile lentezza della cordata: pare invece che il reverendo, fedele a una tradizione secolare, non disdegnasse affatto la buona cucina e tanto meno il buon vino, onde per cui pensò bene di ricolmare smisuratamente i sacchi con ogni ben di Dio, cosce di tacchino, petti di oca e bottiglie di buon Bourgogne!
L’inizio dell’inverno 1973 (dicembre 1972) si presenta particolarmente favorevole: tempo ottimo e sicuro, montagna secca e in buone condizioni. Gogna, indomito, ritorna ancora all’assalto, forse imprudentemente e un po’ a carte scoperte: una settimana prima dell’inizio dell’inverno sale alla capanna della Noire per portarvi viveri e attrezza il primo tratto della cresta, fin sotto lo spigolo della Punta Bifida, con corde fisse. Ma vi è chi da tempo si prepara in silenzio ed è pronto ad intervenire.
Siamo andati a Champsil, una borgata della valle di Gressoney a trovare i due fratelli Squinobal, guide, Arturo di 28 anni e Oreste di 30. Abbiamo voluto che ci raccontassero un po’ come si è svolta l’impresa. Non è stato facile: gli Squinobal sono montanari e del montanaro hanno la tipica riservatezza e la parchezza di parole.
Proprio per questo vorremmo un po’ sapere chi sono gli Squinobal e quello che hanno fatto. Sono giunti alla ribalta delle cronache alpinistiche nell’inverno 1972, quando realizzarono la prima ascensione invernale della parete sud del Cervino, dove senza l’intervento della loro volontà, furono coinvolti in una gara assurda e meschina con alcune guide di Cervinia partite al loro inseguimento. E’ una pagina amara che Arturo e Oreste vogliono dimenticare. Ho chiesto a Oreste un piccolo curriculum alpinistico, in modo da informare il pubblico sulla loro attività precedente. La sua risposta è stata molto esauriente: – Con tutta la gente che va in giro a raccontare le proprie salite, non vedo proprio perché anche noi dovremmo raccontare le nostre.
26 dicembre 1972. La cordata francese (si scorgono Seigneur, Audoubert e Galy) sta salendo al Grand Pilier d’Angle. In basso si scorge il Col Peutérey. Ci scusiamo per la pessima unione delle due immagini
Il racconto dei fratelli Squinobal. L’amichevole intesa con la cordata di Seigneur
Ma tra una bottiglia di Donnaz e l’altra il dialogo si è fatto più sciolto.
– Pensavamo all’integrale del Peutérey – dice Arturo – già dopo la salita della sud del Cervino.
Chi li conosce sa che si sono sempre allenati duramente e costantemente, arrampicando e con la pratica del fondo.
– Il giorno 20 dicembre – è sempre Arturo che racconta – siamo partiti direttamente da Courmayeur, abbiamo raggiunto la capanna della Noire e abbiamo subito proseguito fino all’attacco della cresta. Vi erano già delle tracce nella neve e la marcia è stata veloce. Qui abbiamo trovato le corde fisse lasciate da Gogna e siamo saliti fino in vetta alla Bifida dove abbiamo bivaccato. Nella notte il tempo è cambiato, è cominciato a nevicare e la mattina siamo ridiscesi alla base, con il proposito però di ritornare.
Siamo al giorno 21, l’inizio ufficiale dell’inverno. Discendendo dalla Capanna della Noire vedono quattro alpinisti che salgono lentamente sotto il peso di enormi sacchi. Non è difficile intuire le loro intenzioni. Tra i quattro scorgono un barbuto e subito pensano che sia Gogna, ma quando sono a tu per tu e avvengono le presentazioni, si trovano di fronte Yannick Seigneur, il vincitore del Pilastro Ovest del Makalu, uno dei migliori alpinisti mondiali del momento. Con lui sono quel certo sacerdote alpinista di Tolosa, Louis Audoubert e due alpinisti francesi della nuova generazione, Feuillarade e Galy. Anche i francesi avevano pensato che uno dei due fosse Gogna, ma quest’ultimo lupus in fabula, era in Africa ad accompagnare un gruppo di alpinisti sul Monte Kenya.
– I francesi hanno proseguito – dice ancora Arturo – invece noi siamo ritornati a casa, anche perché il tempo continuava a essere brutto. Seigneur però era convinto che si trattasse di cosa passeggera e continuava a dirci «ça passe».
Giunti a casa, dopo poche ore il tempo divenne bello da far schifo. Si doveva dunque prendere una decisione e si sa com’è difficile, quando si è casa, con la famiglia, con tutti gli agi e le comodità, ritrovare la carica per partire. Se uno dei due avesse detto: «restiamo a casa » probabilmente non saremmo ripartiti. Ma poi pensammo: se i francesi sono andati su, perché noi dovremmo restare a casa? Loro hanno un giorno di vantaggio su di noi, ma non importa, se non sarà una «prima» sarà sempre una grande salita, ci siamo preparati troppo per rinunciare. E così decidemmo di partire.
– E come materiale come avete risolto il problema?
– Avevamo con noi due corde da 80 metri, una di 9 millimetri di diametro, messa doppia ed usata per legarci e l’altra di 7 millimetri di diametro, da utilizzare come assicurazione nelle calate a corda doppia. Avevamo poi il solito materiale di arrampicata, piccozza, ramponi, molti chiodi, cordini e una radio ricetrasmittente a tre canali. Per ciò che riguarda l’equipaggiamento, l’unico capo particolare era rappresentato da una tuta per la pelle in lana d’angora che ci giunse in regalo dalla Germania.
– E la questione dei viveri?
– Il nostro fisico – risponde Arturo – è molto abituato a digerire qualsiasi cibo solido anche in alta quota soprattutto perché esercitiamo la professione di guide. Abbiamo portato con noi: pancetta, lardo, carne secca, prosciutto crudo, miele, zucchero di canna e sale. I liofilizzati erano previsti come riserva in caso di sosta forzata per più giorni per il maltempo. I viveri li avevamo divisi un po’ per ciascuno, mentre per l’attrezzatura uno di noi aveva il materiale da roccia e l’altro quello da ghiaccio. Questo per evitare inutili perdite di tempo negli scambi del materiale.
– E per bere?
– Per bere abbiamo pensato bene di portarci due litri di vino, cui non sapevamo rinunciare… Poi tè che ottenevamo facendo sciogliere la neve.
– Avete visto come si erano attrezzati i francesi?
– Avevano suddiviso ogni razione giornaliera in sacchettini di cellophane e ogni pasto era stato calcolato secondo il fabbisogno calorico individuale.
25 dicembre 1972. Yannick Seigneur sta salendo sui ripidi pendii ghiacciati verso l’Aiguille Blanche
Vorrei sottolineare come l’esperienza della spedizione al Makalu sia servita nell’organizzazione di quest’impresa, ma vorrei anche sottolineare la differenza che va delineandosi tra due stili diversi: uno più scientifico, metodico, l’altro diciamo più montanaro, non certo improvvisato.
I francesi avevano attaccato il giorno 21, avevano bivaccato alla Punta Bifida, la seconda torre delle cinque che si innalzano sulla cresta sud dell’Aiguille Noire, avevano proseguito tutto il giorno 22 fino alla vetta della Punta Welzembach e poi ancora il giorno 23, giungendo la sera a bivaccare sulla Punta Ottoz o penultima torre.
– La mattina del 22 siamo partiti dalla Val Veny e senza fermarci alla capanna della Noire abbiamo attaccato la cresta. Dopo aver bivaccato la sera del 22 e la sera del 23 sulla cresta sud, il giorno 24, verso mezzogiorno abbiamo scorto i francesi che stavano per raggiungere la vetta. Verso le due anche noi eravamo in vetta alla Noire, i francesi avevano già iniziato la discesa, ma noi, un po’ preoccupati dalle condizioni del tempo, prima di discendere e di tagliarci la ritirata, abbiamo chiesto con la radiolina portatile ai nostri amici a fondo valle le previsioni del tempo. Ci garantirono ancora due giorni di bel tempo, non ci pensammo più su e cominciammo la discesa.
– E’ veramente impressionante la discesa dello spigolo nord?
– E’ bestiale – dice Oreste – 14 corde doppie da iniziare sui chiodi, con il sacco pesantissimo che ti sbilancia. Avevamo con noi il freno Sticht (N.d.r. Il freno Sticht è una placchetta rettangolare d’alluminio in cui sono ricavati due fori attraverso i quali scorre la corda, creando un frenaggio artificiale. Serve appunto per calate in corda doppia e manovre di assicurazione) e mediante questo sistema e l’assicurazione con la corda sottile, siamo riusciti a scendere più tranquilli dei francesi.
– Avete raggiunto i francesi?
– Sì, li abbiamo raggiunti alla fine delle doppie, al buio. L’incontro è stato cordialissimo e subito abbiamo capito che non ci sarebbe stata nessuna rivalità. Devo anche aggiungere – racconta Arturo – che i francesi non mi sono sembrati per nulla montati. Abbiamo continuato insieme lungo il canale di rocce marce da risalire per raggiungere la Brêche Sud des Dames Anglaises. Ogni tanto i francesi smuovevano dei sassi che rotolavano giù per il canale e al buio, non era tanto piacevole vedere le fiammate e le scintille scoppiare intorno a noi.
– Dove avete bivaccato?
– Su di un comodo terrazzo alla Brêche Sud. Era la sera di Natale – continua Arturo – e io pensavo: si aspetta tutto l’anno il Natale e poi guarda un po’ se uno deve venirlo a passare proprio qui!
– Vi siete messi d’accordo per collaborare? C’è stato qualche contrasto tra di voi?
– Non c’è stata una sola discussione tra di noi – risponde Oreste – il bello di questa salita è stato l’accordo perfetto e istantaneo che abbiamo avuto tra di noi, senza una parola, senza una discussione. Abbiamo collaborato in amicizia. Anzi, la mattina del 25 Seigneur ci ha chiesto di passare in testa, perché eravamo più veloci di loro. E’ un gesto che ho particolarmente apprezzato. Del resto non era nostra intenzione passare avanti, la cosa più bella era quella di arrivare in vetta insieme.
Il giorno 25 dunque risalgono i fianchi ghiacciati della Blanche, mentre il tempo si sta definitivamente guastando ed un vento violentissimo si è levato, poi nevica. Il buio li ha raggiunti prima della Blanche e si vedono costretti a forzarne la vetta con le pile frontali. Dovranno poi intagliare una piazzola nella cresta di ghiaccio vivo che collega le due punte della Blanche. Sarà un bivacco molto duro.
26 dicembre 1972. Nel tardo pomeriggio i sei hanno raggiunto la vetta del Monte Bianco. Da sinistra, in piedi: Audoubert, Gally, Oreste Squinobal, Feuillarade; in basso, Seigneur
– Fortunatamente quando abbiamo tagliato la piazzola da bivacco – dice Arturo – era buio e non abbiamo potuto vedere i due versanti che precipitavano dalle due parti della cresta. Quando la mattina siamo usciti dalle tendine, per poco non ci vien male!
La mattina del 26 ripartono, ancora gli Squinobal in testa. Raggiunto il Col Peutérey, il tempo peggiora decisamente e si vedono costretti a forzare l’andatura per uscire a ogni costo in serata. Sono ormai un po’ stanchi e provati, i viveri scarseggiano e la minaccia del cattivo tempo li impaurisce.
– A un certo punto – dice Arturo – superate le rocce del Grand Pilier d’Angle, ci siamo trovati davanti al pendio terminale tutto di ghiaccio vivo. Senza dirci una parola abbiamo pensato di formare una cordata unica di sei persone, perché in mezzo alla bufera ci sentivamo più uniti e sicuri. Tra l’altro Audoubert aveva perso i ramponi durante la discesa dalla vetta della Noire, eppure è riuscito a cavarsela lo stesso, ed anche egregiamente. Noi dal canto nostro abbiamo dovuto tagliare un numero infinito di gradini in quel ghiaccio vetroso dove nemmeno i chiodi a vite facevano presa.
La sera del 26 sono infine in vetta. Seigneur, che ha salito una quarantina di volte il Bianco, si incarica di condurre la discesa, ma si trova ben presto in seria difficoltà per il buio e la tormenta. Raggiungono infine la capanna Vallot, dove sperano di trovare un rifugio almeno confortevole: invece una parete ha ceduto ed il rifugio è zeppo di neve trasportata dal vento. Ma ormai ciò non ha più una grande importanza. Il giorno 27, lungo la via del Dôme du Goûter discendono a valle dove numerosi amici li attendono.
Infine chiedo ad Arturo: – Avevate già percorso la cresta di Peutérey, almeno in parte, o la Sud della Noire?
– No – risponde Arturo – è una zona del Bianco che non conoscevamo. Ci eravamo documentati e basta.
Penso che questa frase più di ogni altra sottolinei lo stile e il carattere di questi due ragazzi che hanno portato a termine una grandissima impresa in un modo che non lascia spazio a nessuna discussione. Proprio quando si va parlando di alpinismo tecnologico penso che l’impresa dei fratelli Squinobal sia da citare come un esempio di alpinismo classico e soprattutto di gioco a mani pulite.
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Mi piacerebbe sapere quante sono, ormai, le cordate che hanno percorso questa favolosa cresta. Mi piacerebbe leggerne le impressioni per osservare come nel tempo sia cambiato l’approccio.
Ultimamente vedo addirittura degli inviti quasi turistici a percorrerla, quasi fosse uno dei tanti itinerari da vacanza…
Mi mette i brividi.
anche qui un’incontro inaspetatto tra una cordata francese e una italiana. Questa volta però, tutto è andato bene!
Lettura piacevole , di grande e vero, Alpinismo .! Grazie..Alessandro…
Da giovane lessi tutti, direi proprio tutti gli articoli del grande Motti. Triste ,vedere lo scadimento generale rispetto alla qualità dell’epoca,senza volerne ad alcuno Viviamo tempi in cui motivazioni e omologazione lasciano pochi spazi al ripensarsi in montagna.
Forse anche qui il business la fa da padrone.
Grazie ad Alessandro Gogna per riproporci questi ricordi
Gli articoli di cronaca alpinistica di Gian Piero Motti furono – e sono tuttora – incomparabilmente superiori rispetto alla quasi totalità degli altri. Inoltre si leggono con grande piacere.