La montagna del destino

La montagna del destino

Venerdì 26 febbraio 2016, alle 15.37 (ora locale), Simone Moro, Alex Txikon e Alì Muhammad Sadparà realizzano la storica prima salita invernale del Nanga Parbat, la montagna che anche per loro diventa una personale Schicksalsberg (la montagna del destino). Tamara Lunger si è fermata un centinaio di metri sotto la vetta. Verso le 20 (sempre Pakistan time) tutti gli alpinisti hanno fatto ritorno al campo 4 a 7150 m. E il giorno dopo hanno fatto ritorno alla base, sani e salvi.

Un’impresa ai limiti delle possibilità umane, come ben dimostra la gran quantità di fallimenti precedenti” riassume Sandro Filippini.

Un’avventura su quella che è, dopo l’Annapurna, la seconda montagna killer. La montagna delle tragiche fatalità delle spedizioni tedesche degli anni Trenta e del mito di Hermann Buhl (1953). Sul quel versante Diamir che ha visto la tragedia di Albert Frederick Mummery (1895), la caduta mortale di Sigi Loew (1962), la scomparsa di Guenther Messner (1970) e l’eccidio talebano dei dieci alpinisti al campo base (2013), solo per citare le morti che sono diventate storia.

Quel venerdì ho seguito con ansia, direi trepidazione, il loro metodico incedere verso la vetta. Data la scelta che Simone Moro ha fatto per questa spedizione, di non essere troppo informatico e tecnologico, non abbiamo avuto la possibilità di seguire in tempo davvero reale la salita. Solo la traccia gps di Txikon e i binocoli della sua fidanzata Igone Mariezkurrena lasciavano scandire più o meno ogni ora i progressi del team e davano sufficiente spazio alla nostra fantasia.

Alle 7.00, consultando twitter e il sito Altitude Pakistan, arriva l’informazione che i quattro sono a 7650 m. Lo si vede dal tracciato sulla nitida immagine di Google Earth. Là sono le 11.00. Una foto della Mariezkurrena ci mostra tre puntolini spersi in un mare di roccia e ghiaccio ripidi. Il quarto puntino sta seguendo un itinerario differente, più roccioso. Alle 8.30 sono a 7800 m (12.30 ora locale). Mi abbandono a ovvi calcoli: se in 90 minuti hanno superato 150 metri, vuole dire che avanzano al ritmo di 50 metri all’ora. In base a questo conto della serva, alle 10 mi aspetto che siano a 7950 m: e invece sono a 8000 m! Sì, questa volta ce la fanno! Nel mio intimo parte un tifo come ho visto solo per certe partite di calcio.

Il versante Diamir del Nanga Parbat. Foto: Alex Txikon
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Poi la notizia della vetta, per noi alle 11.37, con la cadenza quasi scientifica di una marcia di regolarità…

Tutta la mia piccola vita alpinistica si relaziona con un momento come questo: qui, isolato e comodo nel mio studio, a contatto virtuale ma emotivo con la grandiosità più magnifica. Sono sopraffatto da quanto metodo, quanta determinazione siano stati necessari. Quanta convinzione di farcela. E sento quanto dovrò ancora penare prima di saperli un po’ più al sicuro, al campo 4.

E il giorno dopo, ancora, a spiare la notizia finale del loro arrivo al campo base.

Quanta strategia! Strategia di movimento, di logistica, di acclimatamento, di perseguimento meticoloso della propria buona salute.

Ogni più piccolo particolare è essenziale per una gestione alpinistica efficace. Bisogna essere disincantati sulle delusioni meteo, sugli accadimenti, sugli incidenti grandi e piccoli: soprattutto sugli uomini, che hanno la capacità di entusiasmarti per la loro capacità di resistere, di farsi amare per le loro qualità e farsi odiare per i loro difetti. Occorre avere quella meravigliosa capacità, più o meno consapevolmente, di coordinare i dati che arrivano ogni minuto, interpretando le proprie sensazioni immediate e sommandole alle reazioni dei compagni che a loro volta ti hanno giudicato. E’ necessaria una verifica puntigliosa che ciò che stiamo facendo sia sempre almeno un pelo al di sopra della sufficienza, sapendo che questa è variabile. La soglia della percezione del rischio, che già in una normale gita in montagna può presentare una notevole latitudine di posa, qui può schizzare in alto senza che neppure lo sospettiamo. Solo l’esperienza ti può far riconoscere questo salto contro natura, quell’insidioso accantonamento di una valutazione più prudente. Solo la sommatoria di quattro esperienze può riconoscere, ad ogni minuto, quante porte abbiamo lasciate aperte per il nostro ritorno alla vita di mano in mano che ci si avvicina alla meta di questo viaggio per molti versi estraneo alla vita stessa.

E’ stato detto che questo successo è stato frutto dell’esperienza alpinistica, manageriale e della professionalità di Simone Moro, della forza e determinazione di Alex Txikon e della voglia di riconoscimento e di onore di Alì Sadparà. E’ un’affermazione troppo netta, tendo più a credere che tutti e tre abbiano un bel mix di quelle qualità. Senza dimenticare la quarta.

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Infatti, la quarta. La Lunger non ce l’ha fatta? Ci rendiamo conto che ha rinunciato alle 14, quando restavano solo altre tre ore prima del tramonto? Se era indietro rispetto agli altri c’era un motivo. La 29enne di San Valentino in Campo (BZ) ha raccontato al sito www.stol.it l’episodio che l’aveva vista protagonista durante la discesa per raggiungere il campo 4. Nel saltare un crepaccio largo poco più di mezzo metro, nell’appoggiare lo scarpone il bordo ha ceduto e lei è scivolata per 200 metri prima di fermarsi grazie alla neve fresca che ne ha rallentato la caduta. Oltre alla grande paura, tornare alla tenda è stato molto impegnativo. Per fortuna non ha riportato conseguenze se non dolori un po’ in tutto il corpo e un piccolo trauma. Ma il giorno dopo le ha presentato il conto, ancora problemi di stomaco, nausea, affaticamento.

Farsi aspettare avrebbe quasi certamente comportato farsi trovare dall’oscurità ancora lontani dalla piccola tenda del campo 4 o, peggio, ancora in discesa sul ripido pendio che stavano finendo di salire, 600 metri di precipizio tra vetta e grande conca innevata sottostante. Con freddo a -33° e con vento tra i 45 e i 50 km/h, anche il più lieve malessere ti stronca. E ancora una volta lo spirito di squadra, e quindi di sopravvivenza, ha avuto la meglio.

Altrettanto decisiva era stata la mossa di partenza di fondere le due spedizioni, nate autonome, al punto da essere impegnate su due vie diverse.

Sandro Filippini: “L’armonia del gruppo è stata fondamentale. Ha consentito ad Alex, Alì, Tamara e Simone di resistere mentre tutte le altre spedizioni si ritiravano. Prima i polacchi Adam Bielecki e Jacek Tcech, che sognavano un’impossibile salita in velocità, poi l’altro polacco Tomek Mackiewicz, veterano del Nanga e di nessun altro 8000, e la francese Elisabeth Revol sulla via Messner-Eisendle, e infine anche i polacchi della spedizione Nanga Dream che tentavano dal versante sud, poi “sostituiti” dalla statunitense Cleo Weidlich e dai suoi tre sherpa, rinunciatari anche loro”.

Un capolavoro lo si vede a occhio nudo, con facilità e spesso anche quando si è inesperti in quell’arte. Tanto è facile riconoscerlo, tanto è difficile compierlo.

Vinicio Stefanello dice che bisogna infilare “le scelte giuste per non… sbroccare“. Piccole e grandi scelte che a un occhio ingenuo sembrano sempre piccole e grandi fortune. Come “saper formare la cordata giusta. O, meglio ancora, saper stare in cordata (Vinicio Stefanello)”.

Alì Muhammad Sadparà, Alex Txikon, Simone Moro e Tamara Lunger
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Storia invernale del Nanga Parbat
Sull’onda dei successi polacchi nelle salite invernali di alcuni tra le più importanti vette di Ottomila metri dell’Himalaya, il primo tentativo di scalata invernale del Nanga Parbat avviene nel 1988-1989. Una squadra di dieci alpinisti (otto polacchi, un colombiano e un italiano), guidati da Maciej Berbecka decide di tentare la scalata al Nanga Parbat, prima per la parete Rupal, poi per la parete Diamir. Per la via Messner, il capo-spedizione, assieme a Piotr Konopka e Andrzej Osika, raggiunge la quota di circa 6700 m. Il team è però costretto ad abbandonare per le temperature basse, il ghiaccio duro, il forte vento e il numero esiguo di finestre di bel tempo.

Berbeka torna al Nanga nell’inverno del 1990-1991, forte dell’esperienza dell’anno precedente, con undici alpinisti, di cui sette polacchi e quattro inglesi. Ancora una volta è scelta la via Messner, ma ancora non riescono a sistemare il campo 3. Con notevole disinvoltura organizzativa, Berbeka non si perde però d’animo e si rivolge alla via Schell: ma anche qui, a 6600 m, Andrzej Osika e John Tinker si arrendono per il vento fortissimo.

Nel 1992-1993 giungono al campo base del Rupal i francesi Eric Monier e Monique Loscos. Il 9 gennaio il solo Monier, seguendo la via Schell, non va oltre i 6500 m, sempre a causa del vento.

Nell’inverno 1996-1997 sono due le spedizioni a provare. La spedizione britannica, diretta da Victor Saunders, assedia la via Kinshofer (Diamir), ma si ferma a 6000 m a novembre, quindi prima dell’inizio dell’inverno. La seconda, polacca, è diretta da Andrzej Zawada. La squadra giunge al campo 4, ma poi Krzysztof Pankiewicz e Zbigniew Trzmiel devono rinunciare a causa di forti congelamenti (Trzmiel era solamente a 250 m dalla vetta). Giunti al campo base i due sono evacuati con l’elicottero.

Nel 1997-1998 è ancora Andrzej Zawada a guidare i suoi connazionali polacchi sulla via Kinshofer. La spedizione raggiunge i 6800 m, ma un’eccezionale nevicata li ferma. Causa una scarica di sassi, è da registrare il ferimento a una gamba di Ryszard Pawlowski.

Questa serie di insuccessi scoraggia un po’ le ambizioni. Occorre attendere la stagione invernale 2004-2005 prima che i fratelli austriaci Wolfgang e Gerfried Goeschl provino ancora la via Kinshofer, senza oltrepassare quota 6500 m.

Poi sono i soliti polacchi a riprovare (2006-2007). Oltre al capo-spedizione Krzysztof Wielicki, ci sono Jan Szulc, Artur Hajzer, Dariusz Załuski, Jacek Jawień, Jacek Berbeka, Przemyslaw Łoziński e Robert Szymczak. Non superano i 7000 m per la via Schell.

L’anno successivo, nel 2007, è l’italiano Simone La Terra, assieme a Mehrban Karim, che prova a conquistare la vetta scegliendo di passare sulla parete Diamir, ma la notte del 21 dicembre una bufera di neve gli spazza via la tenda cucina con tutte le provviste. I due alpinisti decidono di non proseguire.

Nella scarsa qualità di questa foto sono appena visibili i tre puntini di Txikon, Moro e Lunger. Foto: Igone Mariezkurrena
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Nevicate insolitamente abbondanti costringono nell’inverno successivo (2008-2009) i polacchi di Jacek Teler e Jaroslaw Żurawski a piazzare il campo base ben 5 km prima di quello solito. Tentativo nato male in partenza.

Nell’inverno 2010-2011 il russo Sergei Nikolaievich Cygankow prova la via Kinshofer da solo, ma dopo pochi giorni dall’arrivo al campo base e a 6000 m inizia ad avere i sintomi di edema polmonare: quindi si ritira.

Nel contempo il duo polacco di Tomasz Tomek Mackiewicz e Marek Klonowski, fregiandosi di Justice for All – Nanga Dream, arrivano al campo base per tentare anche loro la via Kinshofer. Per l’ennesima volta l’abbondanza di neve, quindi l’alto rischio valanghe, costringe i due alla rinuncia.

Nella stagione invernale 2011-2012 ci prova per la prima volta Simone Moro, assieme al kazako Denis Urubko. Al campo base erano presenti anche Mackiewicz e Klonowski, intenzionati a riprovarci dopo la sconfitta del 2010. Moro e Urubko, decisi inizialmente a passare per la via Kinshofer, ripiegano sulla via Messner/Eisendle. Posizionato il campo 3 a 6800 m, èa solo questione di attendere una finestra di bel tempo, ma quell’inverno nevica interrottamente dal 27 gennaio al 14 febbraio, costringendo i due alpinisti alla rinuncia. L’inverno del 2012-2013 vede quattro squadre sul Nanga Parbat. La prima, composta dagli affiatati Mackiewicz e Klonowski, che provano la via Schell. Dopo il campo 3, a causa delle condizioni meteo, Klonowski decide di scendere, mentre Mackiewicz  tenta di salire più in alto, raggiungendo i 7400 m. Ma l’8 febbraio, a causa dell’intenso freddo e del vento forte, anche lui si ritira.

Invece, l’americano Ian Overton e gli ungheresi David Klein e Zoltan Acs, provando sulla via Messner (Diamir), il 10 febbraio abbandonano quasi subito.

Anche per Daniele Nardi: con la francese Elisabeth Revol, l’italiano arriva a 6400 m per la via Kinshofer. Prima di abbandonare i due fanno un altro tentativo per lo Sperone Mummery, giungendo però solo a 6000 m.

Ma in quell’inverno avviene anche la prima disgrazia invernale: il francese Joël Wischnewski scompare il 6 febbraio, dopo aver lasciato il campo 2. Il corpo sarà ritrovato nel mese di ottobre e si sospetta che l’abbia travolto una valanga mentre tentava di arrivare a campo 3.

Quattro sono anche le spedizioni del 2013-2014. Le due sul versante Diamir sono quella del solitario Nardi (che sullo Sperone Mummery, via tra l’altro tuttora incompiuta, raggiunge i 5450 m e che poi si ritira il 1° marzo dopo essere scampato a una valanga) e quella del tedesco Ralf Dujmovits e di Dariusz Załuski, per la via Messner, che abbandonano il 2 gennaio ai 5500 m del campo 1.

Le due squadre invece sul versante Rupal (via Schell): la prima è composta da Mackiewicz, Teler, Pawel Dunaj, Michał Obrycki e Michał Dzikowski. Anche Klonowski è della partita, ma questi per ragioni personali lascia la squadra nel mese di gennaio; la seconda da Simone Moro e David Goettler (al campo base anche Emilio Previtali). Moro e Goettler provano per tre volte. Il 1° marzo Goettler raggiunge i 7200 m assieme a Mackiewicz, ma poi assieme a Moro abbandona il 3 marzo. I polacchi fanno un ultimo tentativo l’8 marzo. Dunaj e Obrycki sono colpiti da valanga e sono soccorsi dall’intero team con una missione epica.

L’inverno 2014-2015 le spedizioni sono cinque!
Vediamo la Revol legarsi con Mackiewicz: assieme, al secondo tentativo sulla Messner-Eisendle (Diamir) raggiungono i 7800 m e rinunciano per il freddo.

Nardi fa un altro tentativo solitario sullo Sperone Mummery (lo accompagnano per un tratto Roberto Delle Monache e Federico Santini per le riprese foto e video). Nardi, dopo aver deciso di ripiegare sulla via Kinshofer, si unisce alla spedizione del basco Alex Txikon e del pakistano Muhammad Alì Sadparà. I tre, dopo aver lasciato campo 4, sbagliano però via, mancando il canale che dovrebbero scalare, decidendo così che la cosa migliore e responsabile sia rinunciare.

Gli iraniani Reza Bahadorani, Iraj Maani e Mahmood Hashemi decidono di tornare indietro al campo 1 senza arrivare al campo 2.

Sul versante Rupal (via Schell) ci sono invece i russi Nickolay Totmjanin, Valery Shamalo, Serguey Kondrashkin e Victor Koval: arrivano al campo 4 a 7150 m.

La traccia GPS di Alex Txikon
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L’inverno degli altri quattro Ottomila pakistani
Prima ascensione invernale del Gasherbrum II
E’ stata compiuta il 2 febbraio 2011 da Simone Moro, Denis Urubko e Cory Richards. La salita ha rappresentato anche la prima salita invernale di un Ottomila del Karakorum e per Moro si è trattato della terza prima invernale di un Ottomila, dopo lo Sisha Pangma nel 2005 e il Makalu nel 2009.

Prima ascensione invernale del Gasherbrum I
E’ stata compiuta il 9 marzo 2012 dai polacchi Adam Bielecki e Janusz Gołab. Sono saliti per la via dei Giapponesi e non hanno utilizzato ossigeno supplementare.

Prima ascensione invernale del Broad Peak
E’ stata effettuata il 5 marzo 2013 dai polacchi Maciej Berbeka, Adam Bielecki, Tomasz Kowalski e Artur Małek, lungo la via normale sul versante ovest. Il 6 e 7 marzo Bielecki e Małek hanno fatto ritorno al campo base, mentre Maciej Berbeka e Tomasz Kowalski, che avevano bivaccato a 7900 m e con i quali si erano persi i contatti radio dal 6 marzo, non hanno fatto ritorno e dall’8 marzo sono stati dati per dispersi. Per Berbeka si è trattato della terza salita invernale di un Ottomila dopo il Manaslu nel 1984 e il Cho Oyu nel 1985, mentre per Bielecki della seconda, dopo il Gasherbrum I nel 2012. La spedizione è stata guidata da Krzysztof Wielicki, già autore anch’egli della prima salita invernale di tre Ottomila, l’Everest nel 1980, il Kangchenjunga nel 1986 e il Lhotse nel 1988.

Tentativi al K2
Sono stati tre i tentativi seri per la prima salita invernale del K2. La prima spedizione è stata condotta dal polacco Andrzej Zawada, era l’inverno 1987-1988. Una squadra composta da 23 alpinisti (tredici polacchi, sei canadesi e quattro britannici) tentò lo Sperone degli Abruzzi. Freddo, neve, rimasero al campo base 80 giorni e raggiunsero i 7300 metri del C3.

Nell’inverno 2002-2003 Krysztof Wielicki organizzò un’altra spedizione per salire sul K2. In tale occasione, il team era composto da 19 alpinisti di nazionalità polacca (quindici), kazaka (due), georgiana (uno) e uzbeka (uno). La spedizione salì sino al campo 4 a 7650 m (tra loro c’era anche Denis Urubko). Tentarono un attacco alla vetta ma il vento ci si mise di mezzo e in più vi furono problemi di salute (edema) ad alcuni componenti della spedizione.

E siamo al 2011-2012, stavolta ci provarono i russi con una spedizione capeggiata da Viktor Kozlov. Le cose non andarono bene e fu annullata. Da allora niente più. Nella stagione 2014-2015 voleva riprovarci Denis Urubko assieme ad Adam Bielecki e Alex Txikon, ma ci si mise di mezzo l’autorità cinese che negò i permessi di salita.

L’inverno 2015-2016
Anche quest’anno sono in molti e tutti ben determinati. Tomasz Tomek Mackiewicz è lì per la sesta volta, la sua compagna di cordata Elisabeth Revol, la migliore himalaysta di Francia, per la terza.

Dalle cronache sembra che sia stata proprio la loro cordata a tentare per prima un attacco finale: a fine gennaio, dopo aver raggiunto la quota di 6900 metri sulla via Messner-Eisendle (per la verità a un ritmo un po’ lento vista la loro ambizione di salire in stile alpino) rinunciano definitivamente.

Sulla stessa via provano, già da dicembre, Simone Moro e Tamara Lunger.

Sulla via Kinshofer si ritrovano a collaborare due squadre ben distinte: i polacchi Adam Bielecki (il fortissimo già vincitore in inverno del Gasherbrum I e del Broad Peak) e Jacek Czech trovano presto un buon accordo con la cordata del basco Alex Txikon, dell’italiano Daniele Nardi e del pakistano Muhammad Alì Sadparà, tutti e tre veterani del Nanga invernale.

Proprio mentre sta salendo con Nardi, Bielecki per una manovra errata fa un volo di 80 metri affrontando la famosa fascia di roccia sotto il campo 2. Con Bielecki, per fortuna solo leggermente contuso, anche Nardi decide di scendere al campo base.

Rientrato in Europa Bielecki ha scritto: “Il Nanga ci ha dato una grande lezione di umiltà”.

Anche a Nardi tocca un volo spaventoso, più o meno nello stesso luogo di Bielecki: l’alpinista di Sezze (LT) tiene duro ancora un po’, ma alla fine cede e fa ritorno a casa, pare anche per discordanze con il capo-spedizione Txikon.

A metà febbraio rimangono in gioco solo quattro alpinisti, colpiti da altre nevicate o da giornate di jet stream inaffrontabile.

Simone Moro e Tamara Lunger avevano posizionato un paio di campi nella parte bassa della via Messner-Eisendle; Txikon e Sadparà erano arrivati a 6700 m al campo 3 (assieme a Nardi). La decisione di unire le forze è ovvia.

Riferisce Agostino da Polenza: “Freddo, vento, jet stream, dieci giorni di orrore climatico, di attesa tra campo base e campo 1, di congetture e piani puntualmente smentiti dal meteo e dalla natura del Nanga Parbat. Sono stati giorni strani, con Alex Txikon, il più forte e determinato, impegnato a spedire, come se il campo base fosse un ufficio propaganda, documenti “contro Nardi”. Lui taceva e si defilava, dicendo di aver la coscienza a posto e che lo avrebbe dimostrato. Nervosismo d’alta quota”.

La partenza dal campo base, Simone Moro, Tamara Lunger, Alì Muhammad Sadparà e Alex Txikon
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La vittoria
Chi la dura la vince. Bisogna saper tenere duro, crederci anche quando tutto congiura contro, essere elastici nel cambiamento di piani, adattabili agli umori altrui. Solo così si può affrontare un viaggio così lungo (ottanta giorni), fatto di attese eterne, di vento indicibile, di freddo siderale e di una meteo terribile, con delusioni e altri contrattempi dovuti alle relazioni umane.

Poi, finalmente, all’orizzonte dalle previsioni atmosferiche e dall’indeterminatezza delle isobare gli esperti di meteorologia confermano quattro giorni di sereno con vento in continuo calo fino alla calma.

Alì Muhammad Sadparà e Alex Txikon, vetta del Nanga Parbat, ore 15.37 del 26 febbraio 2016
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Scrive Vinicio Stefanello su www.planetmountain.com: “Il 22 febbraio, alle 5.30, i quattro alpinisti hanno lasciato il campo base del versante Diamir. Il loro obiettivo, ormai fissato da tempo, è percorrere la via Kinshofer aperta nel 1962 da Toni Kinshofer con Anderl Mannhardt e Siegfried Loew sul versante Diamir. E’ considerata la via “normale” al Nanga, la seconda a essere stata percorsa sulla grande montagna dopo la mitica prima solitaria di Hermann Buhl nel 1953. Per Moro e Lunger questa scelta è stata presa solo nell’ultimo periodo: loro all’inizio infatti puntavano a salire lungo la via Messner-Eisendle ma il seracco sopra la traversata iniziale era davvero troppo pericoloso. Così la decisione (consensuale) di unirsi a Txikon e Sadparà sulla via Kinshofer. In realtà in un primo tempo della partita sembrava essere anche l’alpinista romano Daniele Nardi che poi però ha fatto ritorno a casa. Come del resto prima di lui avevano fatto i componenti delle altre spedizioni (in tutto erano sei) presenti quest’inverno sulla montagna.

Alì Muhammad Sadparà e Simone Moro, vetta del Nanga Parbat, ore 15.37 del 26 febbraio 2016
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Dopo 10 ore di duro “lavoro” i quattro raggiungono i 6200 metri del campo 2. Ancora nulla è scontato, e i dubbi sono molti. A cominciare dal loro mancato “acclimatamento”. Per il meteo (e le valanghe) che non hanno dato scampo, la massima quota toccata finora da Txikon e Sadparà è stata 6700 m, mentre Lunger e Moro hanno assaggiato solo i 6100 m. Inoltre il pit stop al campo 2 dura tutto il 23 febbraio causa… bufera di vento stile Nanga. Intanto Karl Gabl, il mago austriaco del meteo, fa le sue previsioni: per venerdì 26, ma soprattutto per sabato e domenica, sono attese condizioni molto buone. Vuol dire che se giovedì riescono a portarsi in alto, ai 7150 m del Campo 4, e se venerdì tentano la vetta, poi hanno 2 giorni per scendere con meteo buono. Intanto però hanno ancora l’enormità di quasi 2000 metri di dislivello sopra la testa, l’incognita delle condizioni della via ma soprattutto di come reagiranno alla quota. D’altra parte, come dice Moro, le probabilità di centrare un’invernale sugli Ottomila è sempre “minimissima”.

Per fortuna mercoledì 24 la bufera si placa e il team riparte. Dopo 5 ore sono al campo 3 a quota 6700 m. Stanno bene, vedono la vetta ma… mancano ancora 1400 metri di quota da superare. E’ ancora lunghissima. Il programma però procede senza intoppi. Così giovedì 25 raggiungono il Campo 4 a 7150 m. Restano ancora quasi 1000 metri di dislivello da percorrere, i più alti, i meno prevedibili. Può ancora succedere di tutto. Non resta che incrociare le dita e… crederci”.

Sandro Filippini: “Un filiforme italiano di pianura, un tenace basco, un modesto ma irriducibile pakistano e un’altoatesina scolpita nel legno più resistente e flessibile hanno compiuto il capolavoro spendendo ogni energia in 13 ore consecutive di fatica fra i 7150 e gli 8126 metri della vetta a una temperatura di meno 35-40 gradi, abbattuta ulteriormente e drasticamente nella percezione dal vento che soffiava a 40-45 chilometri orari”.

Documenti
Schede dei quattro alpinisti
Storia alpinistica del Nanga Parbat (in inglese)
Alpinisti che sono saliti sul Nanga Parbat (aggiornamento al 2009)
Le fatalità del Nanga Parbat (aggiornamento al 2009)

Tamara Lunger
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Simone Moro
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Alì Muhammad Sadparà
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Alex Txikon
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Alex Txikon, Tamara Lunger, Simone Moro e Alì Muhammad Sadparà
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La montagna del destino ultima modifica: 2016-03-09T05:30:12+01:00 da GognaBlog

6 pensieri su “La montagna del destino”

  1. Pierpaolo potrebbe obbiettare : perchè non sono subito scesi/so assieme a Tamara senza lasciarla li da sola?

    3/4 ore da sola, se non stava bene sono tante, avrebbe potuto accadere di tutto in quel lungo tempo a Tamara.

    Quindi gli altri/altro avrebbe/ro rinunciato alla vetta. Magari se lo sono anche detto ma la stessa Tamara avrà detto: non sono in pericolo, voi andate io sto qui e vi aspetto.

    E se nel frattempo Tamara avesse cambiato idea e fosse scesa? Gli altri al ritorno non l’avrebbero trovata. Cosa avrebbero fatto? Si sarebbero messi a cercarla? O sarebbero scesi, quindi abbandonadola con la speranza di trovarla in tenda?

    Boooo??

     

  2. Caro Pierpaolo Savio, provo a risponderti in breve su una vicenda assai complessa.

    Anzitutto occorre rendersi bene conto che l’etica alpinistica (o della montagna) valida alle nostre quote alpine non è minimamente valida alle alte quote himalayane. Sopra gli ottomila vale piuttosto un’etica “militare”. Ma non quell’etica militare “buona” per la quale vale l'”uno per tutti, tutti per uno”, ovvero il capitano che considera tutti i suoi soldati alla stregua di figli e quindi li vuole riportare a casa tutti, costi quello che costi; bensì quella “cattiva”, dove pur di ottenere il fine non si bada ai mezzi, tanto meno alla perdita dei propri soldati (i generali alla Cadorna), meno ancora ai “danni collaterali”. Così vediamo cordate che non prestano soccorso e vanno avanti verso la vetta, eccetera.

    Ma veniamo a quanto tu chiedi, relativamenta ai casi Nardi e Lunger.

    Sulla questione Nardi abbiamo due testimonianze assai differenti, è recentemente uscito il suo libro postumo dove ovviamente viene data una versione ben diversa da quella iniziale, e la sensazione è “che non sia ancora finita”. Comunque, se si lascia qualcuno al campo base dopo un litigio, non si può comunque parlare di “abbandono”. E non dimentichiamoci che nel 2003 a Simone Moro è stata conferita la medaglia al valore civile per aver salvato il britannico Tom Moores sul Lhotse.

    Quanto alla Lunger, la tua domanda “Forse dunque “cordata” vuol dire che qualcuno va sacrificato per la gloria di altri” è eccessiva per questo caso.

    Riporto qui quanto scrissi in questo post:

    La Lunger non ce l’ha fatta? Ci rendiamo conto che ha rinunciato alle 14, quando restavano solo altre tre ore prima del tramonto? Se era indietro rispetto agli altri c’era un motivo. La 29enne di San Valentino in Campo (BZ) ha raccontato al sito http://www.stol.it l’episodio che l’aveva vista protagonista durante la discesa per raggiungere il campo 4. Nel saltare un crepaccio largo poco più di mezzo metro, nell’appoggiare lo scarpone il bordo ha ceduto e lei è scivolata per 200 metri prima di fermarsi grazie alla neve fresca che ne ha rallentato la caduta. Oltre alla grande paura, tornare alla tenda è stato molto impegnativo. Per fortuna non ha riportato conseguenze se non dolori un po’ in tutto il corpo e un piccolo trauma. Ma il giorno dopo le ha presentato il conto, ancora problemi di stomaco, nausea, affaticamento.

    Farsi aspettare avrebbe quasi certamente comportato farsi trovare dall’oscurità ancora lontani dalla piccola tenda del campo 4 o, peggio, ancora in discesa sul ripido pendio che stavano finendo di salire, 600 metri di precipizio tra vetta e grande conca innevata sottostante. Con freddo a -33° e con vento tra i 45 e i 50 km/h, anche il più lieve malessere ti stronca. E ancora una volta lo spirito di squadra, e quindi di sopravvivenza, ha avuto la meglio.

    Tamara Lunger non è stata “abbandonata”. Si è fermata in attesa che i compagni in quel momento più forti di lei coronassero il loro sogno (di tutti e quattro) e tornassero indietro assieme a lei verso il basso. Questa pratica, quella di lasciare un compagno non ferito ma semplicemente più debole da solo per tre o quattro ore, è praticamente normale sulle Alpi. Se dovessimo rifiutare questa pratica avremmo condanne morali da infliggere a migliaia e migliaia. E’ chiaro che non si può a priori stabilire se questa pratica si può accettare o no, occorre valutare caso per caso. Qui, considerato che Tamara è scesa assieme agli altri con le sue gambe senza essere aiutata minimamente, si è autorizzati a pensare che parlare di “abbandono” sia davvero eccessivo.

  3. Bravi tutti, io non ne sarei capace, ma io stenderei un velo pietoso su quella salita, per me piena di dubbi.

    Penso che si debba invece e solo sottolineare la via nuova in invernale della Revol col “‘matto”: per me lei è una alpinista proprio tosta e di pochissime parole !

  4. Salve a tutti, non sono un alpinista, per cui posso soltanto rilevare ciò che appare dal lato umano, e non tecnico, delle vicende sul Nanga Parbat. Ho sempre creduto che salire in cordata significasse stare non dico a gomito, ma almeno a pochi metri di distanza coi colleghi, per cui “dove arrivo io, arrivi anche tu”. E invece pare proprio di no. Sul Nanga è stato prima “scaricato” Nardi (ma se era inaffidabile perchè non scaricarlo all’inizio?) e poi Tamara Lungher. Al Nardi sarebbe stato detto “O te ne vai a casa o sali da solo”. E se avesse deciso di salire solo e fosse morto? Che rimorso, averlo condannato così…….! Poi la vicenda della Lungher. Forse dunque “cordata” vuol dire che qualcuno va sacrificato per la gloria di altri? Notate che questa non è una critica, ma una domanda. Vorrei che qualcuno0 mi spiegasse. Ciao a tutti.

  5. Ho riflettuto se era il caso di commentare. Una storia incredibile in un ambiente incontaminato…, già è stato inquinato dai soldi! Il Dio denaro, il vil denaro! Ognuno pensa a se, vietato fare squadra. Chi sceglie una via, chi parte prima, chi rinuncia, infine restano in quattro. Tre alpinisti conosciuti e forti. L’impresa offuscata dai litigi, in alta quota. Era urgente litigare? Non era meglio conquistare la vetta e poi tornati in città affrontare la polemica monetaria? NO… “voglio rendere noto ai quattro venti che non hai rispettato i patti…, verbali”. Disgustato, avvilito, incredulo, che alpinisti abituati alla sofferenza, all’impegno, alla tranquillità, alla fatica, ai pericoli, possano sputtanarsi in litigi da basso profilo. Bella figura che avete fatto! Cosa deve sopportare la montagna oltre all’inquinamento, in tutte le versioni!

  6. dal Blog di Nardi

    “Telenovela Nanga Parbat. Txikon attacca Nardi: “Non ha pagato” ”

    “Daniele Nardi: “Da Txikon un atto incomprensibile” ”

    “Nanga: bufere e polemiche ”

    purtroppo alla base del Nanga Parbat è successo anche questo.

    Andranno in tribunale?

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