Parliamo di quella francese. La chiusura degli impianti di risalita ha fatto infuriare il cartello delle stazioni di sci alpino, che in Francia detta la propria visione della montagna. Ma la crisi sanitaria ha anche rivelato l’attrattività di altri approcci, più sostenibili nel contesto del cambiamento climatico. Risvegliato dai confinamenti, l’interesse per una natura incontaminata invita a una trasformazione delle politiche di pianificazione del territorio.
La montagna si emancipa
(il CoViD-19 accelera l’obsolescenza)
di Philippe Descamps
Traduzione di Federico Lopiparo
(pubblicato su Le Monde diplomatique/il Manifesto, 12 aprile 2021)
«La sfortuna di alcuni fa la felicità di altri. Qui i pendii sono dolci. Ci stiamo riappropriando della montagna!» Martedì 26 gennaio, in una giornata soleggiata e glaciale, quaranta centimetri di neve farinosa ricoprivano le piste di La Plagne. In pensione ad Aime, ai piedi di questa stazione sciistica savoiarda con più di 50.000 posti letto, Christiane sale ogni giorno per fare una passeggiata con gli sci di fondo.
Insieme alla sua amica Agnès, una maestra di sci che beneficia della disoccupazione parziale, sta approfittando della chiusura degli impianti di risalita che dal 1961 si sono impossessati della «seconda area sciistica più grande del mondo».
Una brezza leggera fa girare a vuoto un cannone da neve divenuto inutile dal 15 marzo del 2020.
Nel «villaggio» (artificiale) di Belle Plagne è aperto solo un negozio su dieci.
L’ufficio del turismo cerca di adattarsi alla situazione sanitaria facendo uscire nuovi opuscoli sullo slittino, sullo sci di fondo e sulle pelli di foca. Alcuni macchinari hanno anche predisposto alcuni settori per i meno agguerriti che sarebbero comunque pronti a risalire da soli, grazie a delle pelli antiscivolo poste sotto agli sci.
Sui pendii che dominano gli immobili di La Plagne Bellecôte, Marie-Amélie e Didier si muovono con le racchette da neve. Questa infermiera e questo pompiere di Viry-Châtillon, sotto pressione da mesi, volevano rilassarsi per una settimana: «Di solito veniamo qui in settimana bianca – racconta Marie-Amélie – Visto il prezzo del pacchetto, cerchiamo di sciare il più possibile. Quest’anno siamo venuti per una vacanza in montagna. Ci stiamo prendendo del tempo per scoprire la natura, il silenzio. Niente bar e uscite serali, ma francamente la folla non mi manca».
«La situazione mi ricorda la corsa all’oro. Non appena il metallo prezioso ha iniziato a scarseggiare la gente se n’è andata. A far sbattere le porte dei saloon non è rimasto che il vento. Da noi abbiamo le seggiovie che oscillano, ricoperte da cumuli di neve» dice Gilles Chabert che, vecchia guardia delle stazioni sciistiche, presidente onorario del sindacato nazionale dei maestri di sci e consigliere regionale dei Repubblicani in Auvergne-Rhône-Alpe, questa volta non è riuscito a far valere la propria influenza. E continua: «Da presidente dei maestri di sci nel tempo ho ottenuto molte cose, come una deroga al trattato di Roma o uno scaglionamento delle zone per le vacanze scolastiche.
Bastava argomentare, dicendo che la montagna ha delle esigenze specifiche.
Davanti a me c’erano delle persone che prendevano decisioni politiche. Questa volta mi hanno opposto il lato scientifico, la salute delle persone».
Nel febbraio del 2020, centinaia di sciatori provenienti da tutta Europa hanno contratto il CoViD-19 nella stazione tirolese di Ischgl. Sei mesi più tardi, la giustizia austriaca ha incriminato diversi funzionari con l’accusa di non aver chiuso il sito con la prontezza necessaria. Il ricordo di questo focolaio e di quello di Courchevel, scoppiato pochi giorni dopo, ha senza dubbio pesato nella decisione delle autorità francesi.
La chiusura è dovuta anche a un segreto che finora era stato ben custodito: la pericolosità delle piste da sci. Secondo la rete epidemiologica Medici di montagna, ogni inverno il bilancio sarebbe di 150.000 feriti (1). All’ospedale di Grenoble, che riceve i casi più gravi, durante le vacanze di febbraio si osserva un tradizionale picco di ricoveri per traumi che richiedono un «intervento chirurgico».
Nei tre mesi invernali che hanno preceduto la crisi sanitaria, i feriti occupavano circa la metà dei letti di terapia intensiva.
I due episodi di confinamento hanno permesso di ridurre drasticamente il loro numero.
Jean-Luc Bloch, sindaco di La Plagne e presidente dell’Associazione nazionale dei sindaci delle stazioni di montagna (Anmsm), non si dà pace: «Abbiamo stabilito dei protocolli. Eravamo pronti prima di tutti gli altri. E ci siamo scontrati con un veto categorico basato su false accuse. Qualcuno mi deve dimostrare che prendere una seggiovia sia più pericoloso che frequentare la metropolitana di Parigi! Se non indennizziamo tutti rapidamente, il modello economico che abbiamo costruito negli ultimi sessant’anni crollerà come un castello di carte».
Vedendo aprire le stazioni svizzere e austriache, gli operatori francesi speravano in una decisione favorevole, prima a dicembre, poi il 7 gennaio 2021 e infine il 20. Nonostante gli aiuti statali, ormai si aspettano delle perdite pesanti, spiega Pascal de Thiersant, presidente della Société des Trois Vallées (Courchevel, Méribel-Mottaret e La Tania): «Più del 90% del settore è fermo, i lavoratori sono a casa in disoccupazione parziale (84% del loro salario netto). Nel 2019 abbiamo avuto entrate per 5 milioni di euro. Quest’anno, nonostante gli aiuti del governo – che raggiungeranno i 32 milioni di euro, la metà del fatturato medio annuo degli ultimi tre anni – registreremo circa 10 milioni di perdite».
Da dicembre, nelle valli della Tarentaise e della Morienne, le più ricche di stazioni sciistiche di alta quota, il numero di persone in cerca di lavoro è aumentato sensibilmente. In generale i gestori degli impianti di risalita si sono assunti le proprie responsabilità assumendo il personale stagionale in modo tale che possa ricevere l’indennità di disoccupazione parziale. Lo stesso non si può dire di altri datori di lavoro di montagna, dall’avarizia leggendaria: «Circa due terzi dei lavoratori stagionali sono a terra, senza indennità di disoccupazione parziale – spiega Antoine Fatiga, delegato generale per i trasporti presso la Confederazione generale del lavoro (Cgt) – Parliamo di più di 60.000 lavoratori solo nelle Alpi del Nord. Sono coinvolti tutti i settori: negozi, alberghi, ristoranti, studi medici».
Per i datori di lavoro il costo sarebbe irrisorio, tenuto conto dell’intervento dello Stato. Ma quest’ultimo lascia fare: «La disperazione è terribile – dice indignato Fatiga – È indecente che si mettano sul tavolo miliardi di euro per il turismo senza condizioni. Noi chiedevamo semplicemente che la Direzione del lavoro esaminasse il volume di impiego dell’anno precedente prima di autorizzare il ricorso al dispositivo dell’attività parziale».
Nel caso di una prossima applicazione della riforma dell’indennità di disoccupazione, la sua organizzazione teme un drastico aumento della miseria.
Non sono tutti sulla stessa barca. Tradizionalmente coccolati dalle autorità pubbliche, molti maestri di sci hanno ancora dei buoni redditi, che «ottimizzano» grazie a un doppio metodo di calcolo degli indennizzi – sulla base di una comparazione del fatturato mensile o sulla base della media dell’anno precedente. Il primo febbraio 2021 il governo ha annunciato di aver già mobilitato «4 miliardi di euro a sostegno delle imprese e dei lavoratori» e ha espresso la volontà di «rafforzare e integrare le misure di sostegno eccezionali» per gli operatori della montagna. Le reti stanno lavorando dietro le quinte per influenzare a proprio vantaggio il «piano di investimenti per il turismo in montagna» annunciato dal primo ministro per la primavera. «Non cambiamo ciò che funziona» ha tuonato Bloch. Per il presidente dell’Anmsm la crisi sanitaria dimostra come «niente possa sostituire lo sci alpino»: «Abbiamo già centinaia di attività accessorie, non è una novità. Questo non basta per attirare i vacanzieri». La cosa non è così sicura…
«La mono-attività è una debolezza»
Sabato 30 gennaio. Siamo ancora alla vigilia delle vacanze. Nonostante il tempo mediocre, il parcheggio del sito di attività nordiche (sci di fondo, biathlon, racchette da neve, ecc.) di Corrençonen-Vercors è saturo dalle 9 del mattino.
Vestiti larghi, stile di pattinaggio un po’ goffo, scivoloni e risate: l’arrivo in massa di principianti ha restituito alle piste di sci di fondo l’atmosfera familiare che vi regnava negli anni ’80. Al poligono di biathlon (2) un giovane dell’altopiano si sta allenando con l’aiuto di un amico che controlla i bersagli con un cannocchiale.
La complicità tra Émilien Jacquelin, il nuovo campione del mondo, e il suo mentore Martin Fourcade, cinque volte campione olimpico, suscita la curiosità dei dilettanti nei paraggi. Sono tutti sorpresi di vedere così da vicino le loro stelle, i cui exploit televisivi nel 2020 hanno messo in secondo piano lo sci alpino, strappando dieci dei quindici migliori ascolti del canale L’Équipe.
«Questa stagione stiamo facendo il fatturato del secolo! È l’annata migliore dalla creazione della tassa sullo sci di fondo, introdotta nel 1985 – si rallegra Thierry Gamot, presidente di Nordic France, che raggruppa i duecento siti francesi – L’8 marzo avevamo già registrato un 70% in più rispetto alla media degli ultimi cinque inverni, con un aumento del 100% nei siti più piccoli. Questi risultati sono dovuti all’abbondante neve caduta nei primi mesi invernali, alla chiusura dello sci alpino, ma anche a un rinnovato bisogno di evadere, di natura; e chiaramente, all’effetto Martin Fourcade…».
Le entrate derivanti dalla tassa nordica rappresentano circa 10 milioni di euro in media ogni anno, pari all’1% del fatturato degli skipass alpini. «Trovandosi tra i 1000 e i 1200 metri di altezza, molti siti nordici sono tra le prime vittime del riscaldamento globale – prosegue Gamot – Quando cade la neve si scia, ma abbiamo preso coscienza dell’obbligo di giocare d’anticipo, di diversificare, ben prima degli altri. Dobbiamo andare spediti con le molte attività che già esistono o che stanno emergendo. Quello che in passato era un handicap è diventato una risorsa».
Dalla fine delle vacanze scolastiche invernali, il 5 marzo, l’Anmsm ha avvertito le redazioni giornalistiche: «La percentuale di camere occupate nelle quattro settimane di vacanze invernali è stata del 33% per l’insieme dei massicci, con un calo di 47,8 punti rispetto allo stesso periodo del 2020».
Altre cifre ci permettono tuttavia di chiarire meglio questo quadro. Prima di tutto, secondo le cifre fornite dall’Asmsm, la situazione varia sensibilmente a seconda dell’altitudine delle infrastrutture, al contrario di quanto accade abitualmente. Il modello delle stazioni alla francese, costruite artificialmente su siti vergini ad alta quota, sembra essere di gran lunga il più colpito dalla chiusura degli impianti di risalita (58% di camere occupate in meno). Questa ha influito molto meno sulle località situate più a bassa quota. Strutture ricettive come i rifugi hanno persino ottenuto risultati analoghi a quelli degli anni precedenti, pur non potendo offrire un servizio di ristorazione e in assenza di clienti stranieri.
Nei massicci di media montagna, dai Pirenei ai Vosgi, tutti i fine settimana a partire da dicembre così come le vacanze di febbraio sono stati caratterizzati da un’affluenza molto alta. I siti vicini a grandi città come Grenoble, Nizza, Chambéry o Annecy hanno registrato picchi di visitatori che in passato si erano visti di rado. Tra i luoghi più popolari troviamo ex stazioni sciistiche che, chiuse da diversi anni per mancanza di neve, offrono altre attività ricreative o formative.
La gendarmeria ha dovuto predisporre dei dispositivi per incanalare il traffico o addirittura vietare di entrare in alcune aree congestionate. Effetto del confinamento? Contraccolpo dovuto al divieto dello «sci meccanizzato»? L’attrattiva esercitata dalla natura è rimasta costante fin dall’estate, quando aveva già prodotto un’alta frequentazione delle montagne. Si è assistito a una passione improvvisa, quasi un’esaltazione, per tutte le attività invernali, a cominciare dalle più semplici: camminare, andare sullo slittino o fare pupazzi di neve. Il pubblico si è rinnovato, con molti giovani e famiglie provenienti dai quartieri popolari. I casari e i panettieri hanno battuto i record di vendita per i picnic e le attività di noleggio delle attrezzature sono state completamente travolte.
«In quarant’anni di esistenza, non avevamo mai visto una cosa del genere» testimonia Jean-Marie Lathuile, responsabile del marketing di Tsl, il principale produttore europeo di racchette da neve. Le fabbriche di Rumilly e di Alex, in Alta Savoia, hanno dovuto lavorare su tre turni per far fronte all’enorme domanda di rifornimento. Con un terzo del mercato mondiale, l’azienda francese questo inverno ha venduto 200.000 paia di racchette, contro le 150.000 dell’inverno precedente. Mentre le marche di sci alpino – la cui produzione è in gran parte delocalizzata all’estero – non sono andate bene, gli altri produttori di attrezzature per le attività all’aria aperta hanno superato i loro obiettivi più ambiziosi, in particolare per quanto riguarda la corsa, il ciclismo e lo sci di fondo.
La diffusione di massa di certe pratiche ha avuto un impatto non trascurabile su un ambiente già fragile, mettendo in luce la mancanza di trasporti pubblici per accedere alle montagne e di strutture per l’inquadramento e l’iniziazione alle attività all’aperto. Alcuni sottolineano anche che le stazioni avevano il merito di concentrare i problemi evitando la loro dispersione. «È un esperimento che costringe gli operatori a riconsiderare le proprie pratiche, osserva Philippe Bourdeau, professore presso l’Istituto di urbanistica e di geografia alpina dell’Università Grenoble-Alpes – Stiamo osservando un’innovazione per sottrazione, che consiste nel rimuovere la colonna vertebrale (gli impianti di risalita) per guardare cosa succede: de-mercificazione, maggiore eterogeneità sociale. Si assiste anche a una vicarianza: il vicario sostituisce il sacerdote assente. Lo sci alpino, che occupava tutto lo spazio, diventa impossibile e tutte le altre pratiche prendono il sopravvento. Tuttavia, senza la possibilità di una sostituzione completa, la montagna deve orientarsi verso modelli più diversificati, adattati alle configurazioni locali». «Penso che siamo all’alba di cambiamenti importanti», ha dichiarato Frédi Meignan, che oggi ha un ostello sulle Belledonne dopo aver gestito un rifugio sul massiccio degli Écrins. Presidente di Mountain Wilderness France, un’associazione per la protezione delle montagne, Meignan vede nella scossa del CoViD-19 un segnale che, insieme ad altri, invita a una riappropriazione da parte delle popolazioni alpine: «Un gruppo di interesse ha trasformato la montagna in un settore industriale incentrato sul volume di affari. Si è trattato anche di un’egemonia culturale. Per molte persone non era il massimo, ma non c’erano alternative. Questo gruppo di pressione è ancora al comando, soprattutto nelle sfere politiche regionali e nazionali, ma qualcosa si sta muovendo». Oggi più che mai, le stazioni di sci alpino appartengono a un mondo di privilegiati.
«I prezzi sono proibitivi per la maggior parte delle famiglie», ricorda l’Osservatorio delle disuguaglianze (3). Meno di un francese su cinque (17%) va in settimana bianca almeno una volta ogni due anni (4), dal momento che questa è percepita come «costosa» e «complicata da organizzare». Ancora meno diffuso, lo sci riguarda ogni anno al massimo l’8% dei francesi e il suo pubblico è sempre più vecchio. Ai giovani sembra non piacere molto. Quando un’agenzia specializzata ha chiesto a dei ragazzi tra i quindici e i venticinque anni la cosa che potrebbe farli decidere di andare in montagna, il 48% ha risposto «i paesaggi» e solo il 16% «imparare a sciare» (5).
Di fronte alla stagnazione degli utenti francesi registrata a partire dalla fine degli anni ’80, le stazioni francesi hanno puntato sull’«upselling» (6). Prestazioni sempre più costose hanno alimentato un aumento dei prezzi che punta a un target sempre più distante, con il 70% dei clienti stranieri in località stazioni di alta quota come Val Thorens o Val d’Isère.
In questo modo vengono escluse le popolazioni locali, come testimonia Pierre Scholl, un delegato sindacale della Cgt che lavora a Courchevel ma vive nella valle della Morienne, dove gli alloggi sono più abbordabili: «Mi sono trasferito dalla Senna-Saint-Denis in Savoia venti anni fa soprattutto per la qualità della vita. Purtroppo, dati i miei orari e il mio reddito, i miei figli non hanno mai sciato». Sulla copertina del libro Alpes et neige, cent un sommets à ski, un grande classico pubblicato nel 1965 (7), il maestoso Grand Pic de la Lauzière 2829 m sembra facilmente sciabile, con la neve che arriva molto vicino alla cima. Lo scorso 19 febbraio gli ultimi pendii della parete nord apparivano molto più ripidi e punteggiati da balze rocciose.
In cinquant’anni, lo scioglimento del ghiacciaio di Celliers ha cambiato il profilo di questa montagna, che in quei giorni attirava diversi gruppi di scialpinisti ormai attrezzati con corde, ramponi e piccozze. Cosa ancora più preoccupante, sul versante esposto a sud la neve ha perso il suo colore immacolato a favore di un colore ocra venuto da lontano. In due occasioni, il vento ha soffiato quantità eccezionali di sabbia dal Sahara per poi scaricarla sulle Alpi e fino alla Scandinavia.
Il riscaldamento dovuto al cambiamento climatico globale è più intenso nelle regioni di montagna che sulle altre terre emerse, soprattutto in inverno. E sta aumentando dal 2014. Nell’inverno 2019-2020 le Alpi del Nord hanno registrato una temperatura media di 3,3 gradi superiore a quella del periodo 1961-1990 (8). Dal 1900 nell’insieme delle Alpi francesi si è avuto un aumento di 2,25 gradi. Inoltre, da un importante studio condotto tra il 1971 e il 2019 su più di ottocento stazioni meteorologiche in tutte le Alpi (dalla Francia alla Slovenia) emerge, sotto i 2000 metri di altitudine, una riduzione media della durata dell’innevamento del 5,6% ogni decennio, vale a dire circa un mese in cinquant’anni.
Gli effetti della riduzione della durata e dell’altezza dell’innevamento variano a seconda della regione, con un’incidenza maggiore in quelle del sud (9).
«L’innevamento artificiale permette di ovviare a tutto questo. Ed è ecologico: acqua e aria, punto». Bloch resta fermo nei suoi scarponi da sci. Sotto la presidenza di Laurent Wauquiez, il consiglio regionale dell’Auvergne-Rhône-Alpes ha largamente finanziato i suoi sogni di cannoni da neve e laghi artificiali, che stanno trasformando sempre più le montagne in un Luna Park: dalle elezioni regionali del 2015, 47,5 milioni di euro di aiuti regionali sono andati alla neve artificiale, 12,6 milioni alle strutture ricettive e solo 3,8 milioni al sostegno della diversificazione. «Sarò un po’ duro – avverte Chabert, che ha presentato questo piano – Penso che alcune località non abbiano alcun futuro senza lo sci. Non c’è mai stata vita da queste parti, nessun villaggio, niente. Se, in uno scenario catastrofico, le temperature rendessero impossibile la neve, penso che chiuderebbe tutto». «La crisi attuale dimostra che non siamo preparati ad affrontare gli shock, siano essi di natura sanitaria o climatica – gli risponde Corinne Morel Darleux, consigliere regionale del gruppo Rassemblement des citoyens, écologistes et solidaires – È la prova di quanto la mono-attività sia una debolezza. Abbiamo a che fare con un’industria capitalistica che richiede forti investimenti, resi possibili dai prezzi molti alti. Il denaro iniettato nell’economia della montagna non è condizionato da criteri sociali o ambientali. Questo significa che tali aiuti possono essere utilizzati per consolidare il modello esistente, che sappiamo essere distruttivo e non praticabile a lungo termine».
Fuga in avanti
La neve artificiale, che richiede comunque delle basse temperature, non potrà mai sostituire la neve naturale. Integra una mancanza nel quadro di una transizione verso qualcos’altro, a condizione di rimanere vigili sulle risorse idriche e sui costi energetici. A più riprese la Corte dei conti ha lanciato l’allarme: «Che si tratti di impianti di innevamento o di bacini collinari necessari al loro funzionamento, questi investimenti implicano un finanziamento importante che impegna gli enti locali nel lungo termine, mentre il rischio climatico aumenta (10)». La stessa fuga in avanti si osserva nel settore immobiliare di montagna, incentrato sulle seconde case. La costruzione di un numero sempre maggiore di appartamenti, il più delle volte disabitati, sta infatti aumentando ulteriormente il peso delle stazioni per poche notti di utilizzo all’anno.
«Siamo in una fase di pronto soccorso in cui si vuole evitare la morte del paziente – riconosce Joël Giraud, segretario di Stato per gli affari rurali ed ex sindaco di L’Argentière-la-Bessée (Alte Alpi), che guida la concertazione sul futuro piano di investimenti del governo – Il paradosso è che gli aiuti pubblici rischiano di riprodurre un sistema identico. Tuttavia, il primo ministro si è espresso chiaramente: il piano montagna deve essere coerente con gli obiettivi della transizione ecologica. Il nostro piano di “sviluppo del territorio” sarà improntato a dei modelli più equi, che consentano una democratizzazione dell’accesso alla montagna. Sarà un lavoro di lungo respiro».
«Il privilegio accordato agli investimenti condiziona totalmente le politiche pubbliche in generale e quelle della montagna in particolare – avverte Bourdeau – In questa determinazione a utilizzare la risorsa neve nonostante la sua scarsità è all’opera una logica estrattivista. Il sistema degli sport invernali è stato finanziato con fondi pubblici fin dagli anni ’60. Alla fine, sono i contribuenti che finanziano gli impianti di risalita, i parcheggi, le strade di accesso, ecc. Vent’anni fa il problema era abbandonare il modello del tutto-sci. Dieci anni fa, superare il tuttoneve. Oggi, il tutto-turismo».
Ma è possibile che a cambiare modello siano gli stessi che l’hanno costruito? La Corte dei conti ha rilevato la debolezza degli organismi democratici «di fronte a operatori di dimensione nazionale o addirittura internazionale». Ha inoltre constatato che le sue precedenti raccomandazioni, «evidentemente», non sono state ascoltate, «in particolare quelle che invitavano le stazioni a favorire modelli di sviluppo sostenibile» (11). Yannick Vallençant, presidente del Sindacato interprofessionale della montagna, aggiunge: «L’ostacolo maggiore è l’abitudine a operare all’interno di un circuito chiuso. Indipendentemente dal fatto che vogliano servire o meno l’interesse generale, i decisori politici non sono correttamente informati, perché discutono solo con la lobby dello sci alpino o con i suoi satelliti».
Nell’inverno del 1933, Léon Zwingelstein ha compiuto la prima traversata non assistita delle Alpi con gli sci, da Nizza al Tirolo (12), dimostrando le possibilità di questo mezzo di spostamento attraverso un’esperienza straordinaria.
Lungo il percorso seguito dal «vagabondo della montagna» gli spazi selvaggi sono ormai ridotti e oggi si incontrano strade, piste, cavi, residence occupati pochi giorni l’anno, ferraglia e cemento.
L’impatto ambientale dello sci alpino aumenta ogni anno, producendo delle entrate solide per pochi con il pretesto di offrire lavori spesso poco qualificati e precari. La crisi sanitaria ha dimostrato che c’erano altre vie promettenti, che era urgente rimettere il turismo al suo posto e assumerne il controllo rivelando l’ambivalenza di questa manna. Le autorità pubbliche possono giocare un ruolo storico, indirizzando gli ingenti sostegni previsti verso una montagna da vivere, piuttosto che verso una montagna da vendere.
Note
(1) L’accidentologie des sports d’hiver, saison 2019-2020, Médicins de montagne, www.mdem.org.
(2) Disciplina che mette insieme carabina e sci di fondo con tecnica di pattinaggio.
(3) Les sports d’hiver, une pratique de privilégiés, Osservatorio delle disuguaglianze, Tours, 10 febbraio 2020, www.inegalites.fr.
(4) Sandra Hoibian, Un désir de renouveau des vacances d’hiver, Centro di ricerca per lo studio e l’osservazione delle condizioni di vita (Crédoc), Parigi, luglio 2010. Queste cifre non sono state oggetto di studi più recenti, ma nessuno contesta la loro pertinenza attuale.
(5) Demain, tous dehors? Les 15-25 ans et l’outdoor: usages et prospective, Agence Pop Rock, 15 ottobre 2018, www.slideshare.net.
(6) Si legga La montagna vittima degli sport d’inverno, Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2008.
(7) Claire e Philippe Traynard, Alpes et neige, cent un sommets à ski, Arthaud, Grenoble 1965.
(8) Observatoire du changement climatique dans les Alpes du Nord 2020, analisi dei dati di Météo-France da parte dell’Agence alpine des territoires (Agate), Chambéry, gennaio 2021.
(9) Michael Matiu (coordinatore), Observed snow depth trends in the European Alps: 1971 to 2019, The Cryosphere, vol. 15, n° 3, Gottinga, 18 marzo 2021.
(10) Rapport public annuel 2018, Corte dei conti, Parigi, febbraio 2018.
(11) Ibid. (12) Jacques Dieterlen, Léon Zwingelstein, le chemineau de la montagne, Arthaud, 1996 (prima edizione 1938).
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Con la tassa nordica (la redevance d’accès aux sites nordiques aménagés pour les loisirs de neige non motorisés) i comuni francesi incassano dai cinque ai dieci milioni di euro l’anno. Forse in questo modo gli indigeni sopravvivono alle difficoltà del capitalismo, ma trasformano anche il fondo in uno sport che riduce la contemplazione del paesaggio alla cornice accessoria di una prestazione
tecnica.
trovato:
http://www.dna.trentino.it/spirito-ambientalista-speculazioni-edilizie/
Che fine hanno fatto i megavillaggi in val di Fassa e altre valli sperdute da valorizzare??Ai tempi, prima dell’inizio lavori, giravano foto di leaders entusiasti ad ammirarne i plastici.Si vendeva a progetto ancora sulla carta.
https://www.ladige.it/blog/2011/01/12/fassalaurina-turismo-e-modelli-fallimentari-1.2864275
http://www.portalecreditori.it/procedura?id=GR2v5x3q9B
in attesa di demolizione, sono diventati appartamenti a poco prezzo per emarginati che trovano qualche lavoretto stagionale o in settori poco appetibili
La cosa più interessante dell’articolo a me pare sia l’evidenziare una possibilità reale di approccio al problema della gestione della montagna che sia differente da quello che da noi è sovrano e che viene venduto come l’unico possibile, cioé lo sfruttamento capitalistico/finanziario basato sulle grandi opere e la distruzione del territorio (vedi i nuovi, inutili collegamenti funiviari o le olimpiadi, ecc.)
“Le autorità pubbliche possono giocare un ruolo storico, indirizzando gli ingenti sostegni previsti verso una montagna da vivere, piuttosto che verso una montagna da vendere.”
È vero. Ma per il momento ho dubbi. Il fine dello Stato, spesso, nella nostra storia italiana, ammettendo anche un cambio di rotta, potrebbe risolversi in nuove forme di burocrazia e fiscalizzazione. Se nuove formule economiche dovessero pian piano imporsi, data la modalità turistica, impegnando innumerevoli piccoli soggetti, il rischio è di una ingerenza statale pesante,a caccia di gettito e non per offrire facilitazioni di investimento.
Ma spero di no.
L’affollamento degli impianti e piste industrializzate non e’da stigmatizzare del tutto , cosi’lo sci escursionismo con pelli di foca e pure sci di fondo, ciaspole o anche solo scarponi ha itinerari poco affollati, quasi segreti solo per adepti, e si sta in pace.Stessa sensazione quando si sale in Dolomiti e si vede sulla corsia opposta la coda chilometrica verso le spiagge sabbiose .Vadino,siori e siore, vadino!