La non-lode della curiosità
(letterina di Natale)
di Carlo Alberto Pinelli
“Chi è solo curioso non ha diritti (Proverbio Zen)”.
Lettura: spessore-weight****, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**
Nel documentario di Werner Herzog White Diamond, ambientato nella foresta equatoriale della Guyana inglese, c’è una lunga sequenza che mi ha particolarmente colpito. Alle spalle di una spettacolare cascata si apre un’enorme caverna dove nessuno fino a quel momento era riuscito a entrare, a parte i rondoni. La caverna infatti si trova a metà di un’ostile parete di roccia resa insuperabile dalla stessa selvaggia violenza dell’acqua. La squadra del regista decide però di raggiungere il bordo superiore della cascata per calare un alpinista fornito di telecamera dietro a quell’impressionante sipario liquido. Costui, oscillando come un pendolo, riesce ad affacciarsi all’ingresso della caverna e a filmarne l’interno. Herzog però non monta nel documentario quelle immagini uniche al mondo, lasciando il pubblico a bocca asciutta. Perché? La spiegazione ci viene da un ex capo indio del posto, che parla un inglese perfetto. Dice testualmente:
“Nessuno sa cosa ci sia là dietro. Ci sono molte leggende. Alcune parlano di serpenti giganteschi che custodiscono tesori. Certo, sono solo leggende. Però non credo che dovreste divulgare quello che avete filmato. Ciò che vedi è tuo e devi tenerlo per te. Se perdessimo questo segreto l’intera essenza della nostra cultura rischierebbe di morire”.
Trovo la sequenza illuminante, non solo perché fa onore alla sensibilità di Herzog, ma perché suggerisce con semplicità e chiarezza quali siano i limiti etici della curiosità. Noi viviamo in una società in cui anche la curiosità più epidermica e banale ha assunto lo status di un diritto indiscutibile e come tale rende non solo lecito ma addirittura benemerito calpestare e umiliare qualsiasi altro valore. I flussi del turismo commerciale, basati su quel tipo di curiosità, non hanno avuto e non hanno la minima remora a stritolare, grazie alla forza del denaro, antiche tradizioni, fedi religiose, investimenti affettivi profondi, trasformandoli in vuote crisalidi folkloristiche, buone solo per soddisfare l’effimera avidità delle macchine fotografiche del turista abbiente. Basta fare un viaggio tra le tribù degli animisti dell’Etiopia meridionale, i Tuareg sedentari del Niger, gli indios delle Ande peruviane, i Kalash dell’Hindu Kush pakistano per rendersene amaramente conto. Tutti indistintamente mettono in piedi, a fronte di una piccola elemosina, un teatrino di cartapesta che umilia la sorgente viva e in divenire della loro cultura. Si tratta di una rappresentazione inautentica che viene prontamente smontata nel momento stesso in cui i fuori-strada dei visitatori stranieri scompaiono dietro la prima curva. Riemergono all’istante da ogni angolo t-shirts, telefonini e blue jeans che erano stati rapidamente nascosti sotto calebasse e mucchi di coperte tessute a mano.
Prima di volgere lo sguardo sui problemi di casa nostra vorrei anche ricordare – perché fra poco il lettore ne comprenderà la pertinenza – il documentario Kanehsatake della regista pellerossa canadese Alanis Obonsawin, in cui si raccontano le ragioni di una rivolta armata, scatenata dagli indiani Mohawks nel 1993, contro la decisione degli abitanti bianchi della cittadina di Oka nel Quebec di invadere un’area cimiteriale sacra per ampliare un campo da golf.
Se restiamo in Italia constatiamo che, mutatis mutandis, le somiglianze tra ciò che succede qui e ciò che gli indiani tentano di difendere non sono poi così peregrine, se si scava al cuore della questione. L’aggressione ludico/antropico/consumistica contro una diversa cultura minoritaria (per intenderci, quella che si radica nel rapporto tra l’uomo in cerca di se stesso e la wilderness dell’alta montagna ) avanza con la sensibilità di uno schiaccia-sassi, sostenuta da interessi mercantilistici che fanno allegramente “carne di porco” di qualsiasi altra prospettiva. Siano tali prospettive ecologiche, poetiche o esistenziali. Tralascio per il momento di puntare il dito contro i faraonici progetti per le Olimpiadi invernali a Cortina, e restringo la focale sulla famigerata Skyway del Monte Bianco che recentemente La Stampa di Torino ha inteso celebrare, senza il minimo accenno alle molte critiche, pubblicando un libretto che narra con toni epici la costruzione di quella cosiddetta ottava meraviglia del mondo. Per permettere alla curiosità superficiale di una falange di turisti di gettare uno sguardo sui panorami dell’alta montagna, utilizzati come fondale di innumerevoli “selfie”, si continua a delegittimare il vero senso dell’esperienza alpinistica, cloroformizzandone il potenziale messaggio contro-culturale, anche tra chi l’alpinismo lo pratica. Noi lo sappiamo per esperienza diretta: quel messaggio ci parla certo di avventura, di libertà creativa, di responsabilità di fronte ai pericoli, di conoscenza dei propri limiti estremi, di silenzio e solitudine. Ma non solo. Suggerisce anche che c’è una profonda differenza qualitativa tra l’atto di guardare e quello di vedere; di conseguenza i due termini sono tutt’altro che sinonimi. Anzi, spesso il primo tende a soffocare il secondo. Eccoci al punto chiave: la curiosità di chi “guarda e non vede” dovrebbe arrestarsi – per elementare decenza – ai confini di quei territori geografici e dello spirito dove regnano le ragioni di chi invece si mette totalmente in gioco, affrontando fatiche e pericoli, per “vedere” cosa brilla, fuori e dentro di sé, al di là delle apparenze immediate e degli scenari pittoreschi.
Mi si obietterà: per quale ragione la maggioranza formata dai semplici curiosi dovrebbe cedere il passo alle pretese puriste di una minoranza? Ebbene sì, mi spiace dirlo: è proprio questo che dovrebbe accadere in un paese civile. La società in cui viviamo, se fosse in grado di distinguere il peso etico dei valori in gioco, dovrebbe riconoscere il dislivello incolmabile tra i due termini a confronto. E agire di conseguenza per rispettare i bisogni immateriali delle minoranze, difendendoli dall’omologazione consumistica.
Già in passato ho fatto lo stesso esempio: posso anche essere ateo, ma lotterei con tutte le mie forze per vietare che una chiesa, pur se frequentata da un pugno irrilevante di fedeli, venga trasformata in una discoteca, per ospitare nel suo interno una folla molto più numerosa. Sarebbe un delitto porre sullo stesso piano qualitativo esperienze così diverse per significato, profondità, coinvolgimento affettivo. Ma allora, si continuerà a obiettare, la maggioranza dovrebbe tirarsi da parte di fronte alle pretese campate in aria di qualsiasi gruppo di invasati? Mi rifiuto di abboccare all’amo di tali generalizzazioni. Il bisogno di un’immersione attiva nella natura incontaminata che una parte non indifferente dei nostri simili sente con forza e attraverso la quale trae tanta forza, ha le carte in regola per essere accolta e favorita come un reale, positivo antidoto contro un sistema socio-economico che tende a programmare ogni nostro comportamento e a condizionare in mille modi sottili la nostra capacità di giudizio. La pratica dell’alpinismo contribuisce automaticamente a formare esseri umani migliori? Questo non lo dico e non lo penso. Però a certe condizioni avrebbe la possibilità di farlo. Il messaggio insito nell’aggressione alla montagna compiuta dalla funivia Skyway con annessa degradazione delle Punta Helbronner da quella possibilità certamente ci allontana tutti. E’ tempo di rimboccarsi le maniche!
Buon Natale a tutti i soci e ai simpatizzanti di Mountain Wilderness. Sono vecchio ma state certi che non mollo.
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Premetto che i “contenuti” sono sempre posizioni personali, a meno che non si tratti di dati ( facts ). La possibilita’ che la visione presentata da questa lettera non sia necessariamente accolta da tutti nello stesso modo ( pur nell’esclusivo club dei lettori di questo blog!) e’ da metter in conto senza drammatizzare e senza invocare i bassifondi.
Ma ecco i passi in questione:
“Per permettere alla curiosità superficiale di una falange di turisti di gettare uno sguardo sui panorami dell’alta montagna, utilizzati come fondale di innumerevoli “selfie”, si continua a delegittimare il vero senso dell’esperienza alpinistica, cloroformizzandone il potenziale messaggio contro-culturale, anche tra chi l’alpinismo lo pratica. Noi lo sappiamo per esperienza diretta: quel messaggio ci parla certo di avventura, di libertà creativa, di responsabilità di fronte ai pericoli, di conoscenza dei propri limiti estremi, di silenzio e solitudine. Ma non solo. Suggerisce anche che c’è una profonda differenza qualitativa tra l’atto di guardare e quello di vedere; di conseguenza i due termini sono tutt’altro che sinonimi. Anzi, spesso il primo tende a soffocare il secondo. Eccoci al punto chiave: la curiosità di chi “guarda e non vede” dovrebbe arrestarsi – per elementare decenza – ai confini di quei territori geografici e dello spirito dove regnano le ragioni di chi invece si mette totalmente in gioco, affrontando fatiche e pericoli, per “vedere” cosa brilla, fuori e dentro di sé, al di là delle apparenze immediate e degli scenari pittoreschi. Mi si obietterà: per quale ragione la maggioranza formata dai semplici curiosi dovrebbe cedere il passo alle pretese puriste di una minoranza? Ebbene sì, mi spiace dirlo: è proprio questo che dovrebbe accadere in un paese civile. La società in cui viviamo, se fosse in grado di distinguere il peso etico dei valori in gioco, dovrebbe riconoscere il dislivello incolmabile tra i due termini a confronto. E agire di conseguenza per rispettare i bisogni immateriali delle minoranze, difendendoli dall’omologazione consumistica.”
Beh, dai bassifondi ci sembra troppo. Pregasi scendere e prendersi un po’ meno sul serio. Non e’ solo questione di gusti. Se dai proclami si deve passare all’azione, con politica e misure concrete, la strada non e’ certo quella dell’elitismo. Difendere principi ( condivisibili ) presuppone in primis non porsi al di sopra per diritto divino.
Da notare che l’incipit dell’articolo e’ piu’ accettabile, ma anche piu’ scontato. Sembra un prologo funzionale alla successiva introduzione al ristretto club che ha piena legittimita’ di fruire la montagna…
Mi sembra che la vita, dall’unicellulare in poi sia a base estetica, basata sui sensi.
Le emozioni scaturiscono solo se abbiamo nei confronti di qualcosa un certo sentimento.
Sono loro a metterci in moto per ogni fare creativo, ma sono sempre loro a trascinarci fuori da noi stessi, da nostro equilibrio.
Sono loro, se contraddette, a farci vivere frustrazione e pena.
È l’emozione provata a suo tempo nei confronti della razionalità, che ha eletto quest’ultima a valore assoluto, che ci ha condotto lontano dalla Natura, dalla nostra natura estetica.
Sono loro che dovrebbero essere materia educativa per ogni bimbo.
Perché sono loro che se non presenti alla coscienza, se non chiaramente identificabili in noi e negli altri, impediscono di trovare la nostra natura, la nostra via, la nostra soddisfazione. Impediscono le relazioni e la crescita evolutiva.
Argomento complicato.
Provo ad analizzare la questione da un punto di vista psicologico, senza pertanto scomodare la spiritualità, sovente confusa con la religiosità.
Ogni aspetto della nostra vita ha due faccie, una razionale ed una emozionale. Per mantenere un sano equilibrio entrambe le faccie dovrebbero essere mostrate.
La persona poco equilibrata mostra prevalentemente una delle due.
Credo sia innegabile che, nell’ambito della cultura occidentale (la quale ha pressoché condizionato tutte le altre), l’aspetto razionale ha di gran lunga preso il sopravvento su quello emozionale ed è un dato di fatto che le emozioni si sappiano gestire a malapena.
Ciò ha comportato lo sviluppo della scienza e della tecnica, con risultati sicuramente inimmaginabili qualche secolo fa, ma ha altresì mortificato la nostra sfera emozionale, della quale abbiamo assoluta necessità per non rimanere confinati nell’ambito del riduttivismo.
Il guardare e il vedere costituiscono per me proprio i due aspetti citati, razionale il primo, emozionale il secondo. Guardo e ragiono, vedo e mi emoziono.
Ecco quindi che alcune rinunce sarebbero necessarie. In caso contrario tutto viene appiattito e conseguentemente ridotto, svuotato di ogni contenuto generatore di emozioni.
Ma senza emozioni cosa siamo? Macchine di carne e ossa, agglomerato di materia per la quale ogni cosa ha un significato meramente quantitativo.
Tracciare dei confini netti per delimitare il campo d’azione non è facile e forse nemmeno auspicabile però una cosa è certa, bisogna imparare a porsi dei limiti.
Sembrava che almeno qui si potesse discutere sui contenuti e non su prese di posizioni personali. Mi chiedo: dove stanno presunzione, saccenza e integralismo in questa lettera di Pinelli? Possibile che si debba scadere così in basso?
Chi non è avvezzo alla dimensione spirituale non ha parole opportune per dialogare con colui che la vede.
Viceversa, chi la percepisce non puó che tollerare la distanza che lo separa da chi non la vede.
Diversamente ogni suo pensiero e azione lo allontanerebbero da quanto aveva creduto d’aver visto.
Lo condurrebbero proprio dove la dimensione spirituale è privata di vita, mortificata a semplice concetto.
Come altre volte da Mountain Wilderness: spirito e spunti codivisibili, a puntellare un integralismo e – quello che e’ peggio – una saccenza e una presunzione insopportabili. Deve essere duro affacciarsi da cotanta altezza e vedere una moltitudine cosi’ becera e condannabile. Eppure i fautori fioccano…
Ho ritrovato l’articolo a cui ho accennato nel mio primo commento. Si intitola “Il regno della libertà” e apparve sulla rivista L’Appennino nel 1976. Io però lo lessi nel libro Montagne di parole. Antologia di alpinisti italiani di Stefano Ardito e Gianni Battimelli, edito dal CDA nel 1986.
Le parole che ho citato nel mio intervento sono in realtà di Samivel. Ecco il commento di Carlo Alberto: “[…] Oggi, come scriveva Samivel, gli dèi sono fuggiti altrove, lasciando il Colle del Gigante alle folle dei turisti, degli sciatori [a quei tempi c’era pure una sciovia] e ai giganteschi immondezzai che circondano i due rifugi”.
Bravo al vecchio Pinelli che non molla. Se un giorno anche la maggioranza capirà, il merito sarà di una minoranza, arrampicante e no, che ha sfidato piccole ma diffusissime convenienze immediate, e guardare lontano
Non c’è bisogno di essere di Mountain Wilderness per apprezzare questo saggio, per capire che qui c’è il nocciolo del problema, che limitarsi a guardare significa essere ciechi. Bellissimo il film di Herzog, mi ricorda quello, sempre del grande regista, sull’altrettanto grande saltatore (con gli sci) Steiner, che saltava troppo lungo per i trampolini di allora. Grazie Carlo Alberto. Buon Natale a tutti.
Mi permetto solo un commento: per un essere umano la curiosità – la curiosità intellettuale – serve alla mente cosí come il pane al corpo. In genere è indice di intelligenza.
Quello che spesso manca, purtroppo, è il senso etico.
Bravo Carlo Alberto Pinelli, forse anziano ma di certo saggio e ancora combattente! Tantissimi tuoi scritti (permettimi di darti del tu) sono come una boccata di aria pura.
Ancora ricordo che, da adolescente che sognava a occhi aperti, lessi un tuo articolo con queste parole, riferite al Colle del Gigante: “Ora gli dei sono fuggiti altrove”.
Ebbene, anche quell’articolo e quelle poche parole hanno contribuito a plasmarmi mente e cuore cosí come sono tuttora, dopo che è trascorsa quasi un’intera vita. Grazie.
Con tanta stima e riconoscenza.