La Nord invernale del Monte Sagro
(i ricordi di Renzo Gemignani)
di Elena Gemignani
(pubblicato su Alpe di Luni, 1-2023)
Dai ricordi di mio padre
52 anni fa la prima salita invernale della parete nord del Monte Sagro (Alpi Apuane). Il Sagro (un tempo chiamato Monte Sacro) precipita a nord con una grande parete verticale alta circa 350 m. Su questa parete sono state aperte sei vie: la prima fu aperta l’8 luglio 1941 dagli alpinisti carraresi Dino Ceccatelli, Giuseppe Licata e Renato Faggioni. Tutte queste vie aperte sulla parete hanno uno sviluppo sinuoso, perché gli alpinisti sfruttarono i tratti meno impegnativi della parete. L’unica via che ha un tracciato diretto alla vetta e quasi interamente su roccia, fu fatta nel 1967 dagli alpinisti Silvano Bonelli e Fedele Codega.
Tutte queste vie sono state aperte nel periodo estivo. Durante l’inverno la parete nord diventa un muro di ghiaccio e neve e la sua salita diventa impegnativa e molto pericolosa. I primi tentativi di salirla in inverno risalgono agli anni ‘70, il primo per opera di due alpinisti emiliani e il secondo il 13 gennaio 1970 da parte di tre alpinisti carrarini che dovettero desistere a causa di un incidente capitato ad uno dei tre. Nei primi di marzo del ‘71 la parete nord era in condizioni ottimali, con ancora un buon innevamento e le temperature erano ancora basse. Bonelli, Codega ed io decidemmo di fare un tentativo, di salire la parete lungo la loro via diretta.
La parete era tutta ricoperta di ghiaccio di fusione e neve e bisognava con prudenza intagliare nel ghiaccio buchi, per usarli come appigli per le mani. Faceva molto freddo e il tempo era splendido: Bonelli saliva da primo e ci recuperava assieme. Il progredire era lento, perché a quel tempo la tecnica della “piolet traction” non era stata ancora sviluppata e gli attrezzi erano quelli che erano. Eravamo senza casco perché a quel tempo non usava e per ripararci la testa dalle schegge di ghiaccio che Bonelli faceva cadere, ci riparavamo con lo zaino. Alle ore 13 raggiungemmo l’erta fascia alta una cinquantina di metri, che divide la parete a metà e che d’estate è tutta ricoperta di paleo (tipica erba apuana) ed ora invece era uno scivolo di neve e ghiaccio, la neve era formata da una crosta compatta che al nostro progredire, si spaccava in zolle e da sotto usciva la neve come il polistirolo.
La salita si presentava molto pericolosa e decidemmo di scendere a corda doppia, lasciando nel tratto roccioso due corde fisse, perché eravamo intenzionati a tornare, per fare un nuovo tentativo. Il 13 marzo 1971 io e Bonelli (Codega non venne, perché aveva un impegno di lavoro) alle otto del mattino raggiungemmo la base della parete nord e con grande stupore ci accorgemmo che le corde lasciate in parete nel precedente tentativo erano scomparse sotto uno strato di neve e ghiaccio. Bonelli decise di non tentare la salita e tornammo costeggiando la parete verso il Faneletto. Fatte poche centinaia di metri arrivammo sotto ad un canale verticale alto una cinquantina di metri, una vera “goulotte” da dove scendevano enormi stalattiti di ghiaccio, che sembravano colonne di marmo.
Bonelli decise di tentare la salita della parete da quel canale, il superamento della “goulotte” si dimostrò molto impegnativo, ma Silvano progrediva velocemente, proteggendosi con dei cordini, che avvolgeva alle colonne di ghiaccio come Prusik. La salita proseguiva su pendii ripidissimi di neve, interrotti da piccoli salti di roccia, che richiedevano grande perizia per superarli. Ad un certo punto una scaglia di ghiaccio mi colpì la testa, per fortuna era la prima volta che indossavo un casco, la scaglia non mi causò ferite ma mi strappò il casco dalla testa. Nelle soste che facevamo sulla neve, come ancoraggio usavamo dei sacchetti di tela che riempivamo di neve, a cui legavamo un’asola di cordino e li sotterravamo sotto la coltre nevosa e a questi ci autoassicuravamo. In alcuni tratti dove la parete era meno ripida, salivamo a comando alternato e, quando toccava a me andare per primo, sceglievo come sosta la base di un salto di roccia, dove scavavo tra neve e roccia una grande tasca dove mi infilavo: mi sembrava di essere nel grembo di mia madre, al sicuro…
Nel frattempo le condizioni metereologiche erano peggiorate e iniziò una fitta nevicata con formazione di nebbia che ci limitava la visibilità ad una decina di metri. Tutto sommato ero quasi contento della nebbia, perché nascondeva il grande vuoto sotto i miei piedi, cercavamo di salire spostandoci spesso verso sinistra in direzione della vetta. La neve in alcuni tratti era “sfondona” e molto pericolosa e cercavamo di salire i tratti rocciosi oppure là dove la neve era più compatta; ad un certo punto una placca di roccia molto esposta interrompeva il pendio e ai lati c’erano due canali con neve marcia, pericolosi da salire. Bonelli decise di forzare direttamente la placca, piantando due chiodi a pressione, la superò con grande fatica, tutto ciò richiese molto tempo perché i fori dei chiodi erano fatti con martello e bulino. Quando toccò a me superare me la placca ebbi conferma della bravura di Silvano. La nevicata si intensificava sempre di più e a tratti venivamo investiti da slavine che ci inzuppavano; la salita continuava su neve e questo ci facilitava il progredire. Alle ore 15 ero in testa alla cordata ed ad un certo punto intravidi sopra di me un’enorme cornice di neve che sporgeva per alcuni metri dalla parete: con sollievo gridai a Silvano che forse avevamo raggiunto la cresta sommitale.
Recuperai Bonelli che sotto la cornice cominciò a scavare un cunicolo nella neve e presto scomparve dalla mia vista per una ventina di minuti, poi mi accorsi che stava recuperando la corda che ci legava, segno che era fuori dalla cornice. Iniziai anche io la risalita del cunicolo e Bonelli aiutandomi con la corda mi stappò come un tappo, eravamo a poche decine di metri dalla vetta. Era la quarta volta che arrivavo in vetta dalla parete nord, la prima con Bonelli lungo la sua via per la prima ripetizione, la seconda volta sempre per la via diretta con Codega e la terza volta per una variante, che metteva in comunicazione la via diretta con lo spigolo est (con Maurizio Petriccioli e Sasso), ma sempre d’estate. Invece quel giorno era la prima volta che una cordata arrivava in vetta superando la parete nord d’inverno. Iniziammo a scendere il versante a mare del Sagro, la visibilità era scarsissima e scendeva fitta la neve; ad un certo punto udimmo provenire dal basso dei richiami e giunti in prossimità dei Capanni del Sagro, incontrammo due persone, Fausto Pregliasco e Franco Piastra che ci erano venuti incontro. Arrivati al rifugio di Campocecina, molti amici ci stavano aspettando e ci fu grande festa.
La parete nord era vinta. Negli anni ’90 ci fu un tentativo di ripetizione della invernale della Parete nord, ma si concluse tragicamente con la morte di uno dei salitori. Un consiglio che voglio rivolgere agli alpinisti intenzionati a ripetere d’inverno la parete nord: ricordo che sulle Apuane ci sono molte vie sicure e belle, la parete nord del Sagro è molto pericolosa, difficile e anche per dei bravi e coraggiosi alpinisti può essere fatale. Questo ricordo è dedicato a Bonelli, Codega e Carezzi (Righe), miei maestri che mi hanno insegnato a superare le difficoltà della montagna in sicurezza.
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#10: grazie; purtroppo le foto non sono un granchè.. mi si era riempito di neve/acqua l’obbiettivo e non me n’ero accorto;
Nel forum del sito http://www.alpiapuane.com potete leggere il racconto della prima salita invernale della via Ceccatelli-Faggioni-Licata. È accompagnato da numerose fotografie, tra le quali una col tracciato dell’itinerario.
http://www.alpiapuane.com/forums/topic/salita-invernale-faggioni-licata-alla-nord-sagro/
Bei tempi quelli con tanti interventi, relazioni di salute e accese polemiche sul forum di Alpi Apuane????
#6: Grazie Giovanni per aver citato la nostra salita; con mio fratello Luca Sisti (fratello da parte di madre) scalammo nel Febbraio del 2016 la Ceccatelli-Faggioni-Licata del 1941, perchè ci sembrava la via che più si prestava ad una ripetizione invernale; le condizioni erano scabrose, neve fresca, inconsistente appena appoggiata sulla roccia e purtroppo il paleo non aveva gelato, quindi risultava inaffidabile anche quello; la salimmo con la forza dell’incoscienza e con l’entusiasmo di chi ha la pretesa di fare qualcosa di diverso, fuori dagli schemi; Gianfranco Ricci prese informazioni presso suoi conoscenti di Carrara (forse Andrea Marchetti?) e confermò che si era trattato della prima ripetizione invernale ( e assoluta) della Faggioni; come difficoltà la gradammo D+/TD- ma ovviamente, viste le pessime condizioni credo che possa essere decisamente più facile in un’annata migliore; resta ad oggi una delle più belle avventure invernali che ho effettuato sulle Apuane.. alla quale fecero seguito anche parecchie polemiche.. ma questa è un’altra storia che appartiene a tempi infinitamente migliori di quelli presenti;
La pericolosità di questi itinerari di misto è dettata molto dalle condizioni che si incontrano. Chiaramente poi difficoltà, esperienza e abilità fanno la differenza, anche se, poi, una certa dose di pelo ci vuole.????
Bel racconto. La nord del Sagro in invernale è stata ripetuta qualche anno fa da Alessandro Biffignandi e Luca Sisti. Il loro resoconto ricalca quanto detto sulla pericolosità della parere. Alessandro ha anche ripetuto insieme a Davide Damato la Est del Pisanino, altra parete raramente considerata e affrontata.
Alla memoria – forse – di Renzo – e ad Elena: il vostro racconto per me è vera poesia. Ciao. Franco
Mi dimenticavo il monte Fiocca, una montagna tutta erbosa che per la sua forma, ricorda più l’Appennino che le Apuana. Ma d’inverno si trasforma e regala un paio di couloir fantasma con bellissime e tecniche colate.
E si, prati verticali di paleo e sassi, che d’inverno regalano magici itinerari:
Nord ed est del Cavallo, nord est del Pisanino, Zucchi di Cardeto, nord est della Roccandagia, nord del Sumbra, nord del Pizzo del Saette, nord est del Colle della Lettera, ect.
Poi non dimentichiamoci la nord del Pizzo d’ Uccello, una parete ideale per il misto invernale.
bel racconto e soggetti che per i locali rappresentano un’era.
Le Apuane spesso offrono, d’inverno, occasioni interessanti in luoghi insospettabile e ciò che d’estate è un prato insignificante d’inverno diventa magico (pianino docet…)
La nord del sagro, specie a quei tempi e con quegli attrezzi, doveva essere un bel numero, uno dei luoghi meno invitanti dove infilarsi.
Il racconto rispecchia la mentalità del tempo, comunque molto interessante perchè fotografa un momento storico sulla evoluzione dell’alpinismo invernale apuano. Queste montagne. che qualcuno dice di serie “B” hanno molto da dire e da dare in inverno. La stagione invernale da risalto ed interesse ad alcune pareti apuane , che in altre stagioni sono totalmente trascurate ed evitate perchè erbose e di roccia rotta e non attirano certo l’arrampicatore. La nord del Sagro è una di queste. L’inverno invece, quando si creano le giuste condizioni, blocca tutto, regalando all’alpinista una miriade di bellissimi e difficili itinerari su misto, dove le zolle (turf) ghiacciate di paleo (palero) apuano la fanno da padrone. Gianni Calcagno ne era un estimatore.