La parete est del Sass Maor

La parete est del Sass Maor
di Emil Solleder

(prima ascensione della parete est del Sass Maor, Emil Solleder e Franz Kummer, 2 settembre 1926)
traduzione di Paolo Ascenzi

Nell’inverno 1925/26 ero a San Martino e mentre partecipavo ad una gara internazionale di sci di fondo, la pista mi portò nei pressi di una montagna dall’aspetto fantastico, il famoso Cimon della Pala. Fu lì che si accese in me il desiderio di salirlo, non appena il gradevole soffio del Föhn [favonio, NdT] lo avesse spogliato della sua veste invernale.

Fu così che l’estate seguente, insieme a Franz Kummer, tedesco di Rosenheim, mi trovai davanti alle Pale di San Martino e alle loro ardite cuspidi rocciose. Al mattino presto lasciammo il nostro alloggio. Nel cielo brillavano ancora le stelle e attraverso [il sentiero delle, NdT] Scalette arrivammo al Passo di Ball. In quel momento il sole con la sua luce dorata baciava le torri sul crinale della Val di Roda che noi guardammo estasiati. Il nostro sguardo scivolava di torre in torre, dal Campanile di San Bartolomeo alla Cima Val di Roda, da una guglia sottile alla forcella sottostante, per poi risalire su un’altra torre e scendere alla forcella successiva e così una dopo l’altra, per più di sette audaci pinnacoli. Quelli centrali, [Campanile, NdT], Adele, [Torre, NdT] Bettega e [Campanile di, NdT] Castrozza sono i più possenti, si ergono per quasi 300 metri dalle relative forcelle. Da tempo avevo sognato di salire queste vette. La loro traversata era stata effettuata solo tre volte, ma non avevo avuto l’occasione di leggerne la descrizione. Poi il nostro sguardo si staccò da questa visione impressionante, attraversammo il passo e ben presto sulla destra comparve una sorta di corno audacemente ricurvo che verso est presentava con una parete snella e provocante, già tentata più volte. Era il Sass Maor. Alcuni tornanti ci condussero al rifugio che sorgeva presso il laghetto Pradidali dove trovammo un cane pastore di color bruno che saltava e giocava come un pazzo, ottimo compagno per i giorni di riposo. Lì ci fermammo e per la prima volta studiammo l’agognata parete est del Sass Maor che dinnanzi a noi presentava il suo versante più arduo con i suoi possenti strapiombi gialli. La parete maestosa e inaccessibile ci guardava dall’alto.

In arrampicata sulla parete est del Sass Maor, via Solleder-Kummer. Foto: ormeverticali.it.

Nel rifugio, ancora presi dall’incantesimo di ciò che avevamo appena visto, sorseggiammo un buon tè, discorremmo con il custode e gli consegnammo ciò che non avremmo portato con noi. Contemporaneamente lo avvertimmo di non preoccuparsi se fossimo stati via a lungo e se avessimo tardato a rientrare. Dopo di che partimmo velocissimi verso la Val Pradidali. Scendemmo con una serie di tornanti mentre sopra di noi la parete si ergeva sempre più alta. Perdemmo circa 800 metri di dislivello quando, con l’ausilio di un tronco consunto, finalmente potemmo attraversare il torrente. Accanto a un grande masso infilammo le scarpette d’arrampicata, poi controllammo e riordinammo il materiale per la salita. Data l’ora avanzata, era quasi mezzogiorno, la tenda di tessuto batista ci sembrò la cosa più importante. Le lanterne, la corda di riserva e i viveri trovarono posto nel mio zaino, mentre la corda e il materiale d’arrampicata toccarono al secondo. Poi finalmente, oltrepassata la fitta zona dei mughi ci trovammo ai piedi dell’immensa parete che si innalzava verso il cielo per ben 1100 metri.

Sulla sinistra della parete spiccavano dei risalti simili a dei pilastri a gradoni che ci avrebbero permesso di salire fino a metà parete senza grossi problemi. Dopo però la situazione sembrava diventare molto complessa. Partendo dalla cima si vedeva una zona concava che terminava al di sopra di una fascia gialla. Se fosse stato possibile salire in una sorta di diedro allungato non sarebbe stato affatto chiaro. Gunther Langes ci aveva detto che soltanto pochi giorni prima c’era stato un ennesimo tentativo, fallito all’inizio della zona strapiombante, e che la ritirata era avvenuta per la stessa via. L’orologio segnava mezzogiorno in punto, un’ora assolutamente non adatta per iniziare un tentativo su una parete così alta, che proprio nella parte sommitale presentava le maggiori incognite. A lungo soppesammo i pro e i contro finché la nostra voglia d’azione ebbe il sopravvento sul buon senso.

Iniziammo la salita su placche biancastre dilavate dalle intemperie e raggiungemmo una cengia coperta di mughi dove trovai un pezzetto di carta rossa, ma sbiadita, lasciata lì come segnale. Il dardeggiare del sole ci toglieva le forze e il materiale che portavamo era molto pesante. Seguendo una cengia effettuai una lunga traversata verso sinistra, in direzione sud, alla ricerca di acqua. Dalle fessure fra i fili d’erba spuntavano le grosse teste grigio-argentate delle stelle alpine. Nonostante alcune interruzioni la cengia portava ad una piccola cavità da cui fuoriusciva l’agognato zampillo; purtroppo, a causa del caldo meriggio l’acqua non era fresca. Al mio ritorno toccò al mio compagno raggiungere lo stesso luogo, poi riprendemmo l’arrampicata su rocce piuttosto solide. A causa del caldo procedevamo alquanto lentamente. Dopo tre ore, raggiungemmo la sommità del pilastro che era unito alla parete principale da una selletta pianeggiante e portava a un enorme e lungo camino. Qui trovammo alcuni pezzi di carta e dei noccioli di frutta, evidenti tracce di chi ci aveva preceduto. Era ormai pomeriggio avanzato. Facemmo uno spuntino e riprendemmo la salita, ancora senza legarci.

Ben presto però la salita si fece più difficile, il camino si restringeva e proseguiva obliquamente. Sopra di noi avvistammo il primo chiodo. Qui, nei pressi di una piccola cengia detritica finiva la serie dei camini. Ci fermammo un po’ di tempo per riposare e studiare come continuare a salire. Tre metri sopra di noi c’era un chiodo infisso nella roccia fino all’anello e, dopo uno stretto diedro, ce n’era un altro con attaccato un moschettone. Doveva essere il punto massimo raggiunto fino a quel momento.

Ci legammo con la corda e superammo il non facile passaggio che portava ad una sporgenza. Da qui però pareva che non ci fosse alcun modo di procedere. Il grande diedro che avevamo preso in considerazione era chiuso da strapiombi, a sinistra la parete era grigia e liscia come una corazza ammaccata. Nonostante ciò, cercammo di affrontarlo anche se sulle placche sporgenti si arrampicava in modo strano e poco sicuro. Avanzammo per circa otto metri fino a una sottile cengia coperta di detriti dove notai la presenza di una sottile fessura rossastra. La attaccai immediatamente, ne avevo già conquistato alcuni metri quando mi resi conto che non c’era nulla da fare. Dovetti tornare indietro. Forse se avessi studiato meglio la prosecuzione della via, date le mie capacità, sarei probabilmente riuscito a percorrere integralmente la fessura, poi però al di sopra non avrei avuto modo di proseguire. Dalla cengia allora mi spinsi verso destra fino a raggiungere uno spigolo arrotondato. Anche qui però non c’erano possibilità e dovetti tornare indietro. Allora traversai ancora più destra oltrepassando il rigonfiamento e salii fin quando raggiunsi una nicchia di roccia marcia. Il mio compagno mi raggiunse rapidamente dove io avevo impiegato una gran quantità di tempo e di energia. L’orologio segnava le cinque in punto. Guardai giù verso la valle: non volevo credere ai miei occhi. Dopo settimane di tempo magnifico e senza nubi, una nebbia biancastra saliva lungo le pareti. Sopra di noi si ammassavano nubi grigie. Doveva accadere proprio oggi? Noi però, confidando nella nostra buona stella, decidemmo di andare avanti. I successivi 35 metri furono molto vari, ma sempre straordinariamente difficili, infatti la roccia di colore giallastro tendeva a sfaldarsi. Salii in spaccata su per un diedro in cui gli appigli diventavano sempre più radi. Ad un metro dalla fine del diedro dovetti piantare un chiodo che si infisse facilmente. Assicurato dalla corda traversai verso destra su una placca liscia e salii fin sotto uno strapiombo su cui trovai una cornice per entrambe le mani. Così, quasi sospeso, mi spostai alcuni metri verso destra fino a quando non trovai una sporgenza che rese la situazione un po’ più accettabile. Così cercai di proseguire. Dopo la fatica impiegata nel superare il diedro e la traversata appeso al tetto dovetti superare un altro difficile passaggio di forza. Arrivai così a un punto di sosta, sia pure modesto, dove mi assicurai con un chiodo. In breve, Franz mi raggiunse. Con lui e con lo zaino, il posto era ancora più scomodo. Ora, eravamo immersi nella nebbia fitta in un luogo indesiderabile. Sembrava che l’unica cosa da fare fosse scendere, ma anche la discesa a corda doppia, in diagonale, inevitabile in caso di ritirata, avrebbe presentato non poche difficoltà. Però, il tratto di parete che ci sovrastava si sarebbe potuto salire soltanto con la più raffinata arte dell’arrampicata. Inoltre, la presenza opprimente della nebbia richiedeva il massimo sforzo mentale. In caso di ritirata non avremmo dovuto mai perdere, per nessuna ragione, l’orientamento e avremmo dovuto sempre avere ben presente la posizione del pilastro, senza il quale avremmo dovuto affrontare una discesa a corda doppia lungo la parete liscia alta 800 metri. Alla nostra sinistra c’era una fessura quasi orizzontale e noi, essendo determinati a proseguire, la affrontammo. Percorrerla non fu particolarmente difficile, anche se la fessura spingeva il corpo molto in fuori. A lungo lottai con le placche instabili e scarse di appigli, e solo dopo essere riuscito a piantarvi un chiodo potei raggiungere uno spigolo. Calcolai i metri che avevamo salito e di quanto ci eravamo innalzati dal punto di attacco della via poiché ancora pensavo, non senza ansia, alla eventualità di una ritirata. Proprio allora, invece, sulla sinistra, dalla nebbia emerse il profilo di una formazione rocciosa. Che fosse lì proprio per noi? Traversammo sotto strapiombi impressionanti finché dopo 25 metri vi approdammo. Quando vi giunsi, mi resi conto che eravamo rientrati nel gigantesco diedro che avevamo attaccato all’inizio. Fu un peccato che da quel momento la vista verso il basso ci fosse completamente preclusa. Purtroppo, si rivelò promettente soltanto un risalto di 10 metri, infatti il diedro si ergeva con una ripidità incredibile perdendosi nel grigiore della nebbia. Cercammo la via per la cima, la roccia era di nuovo compatta. Un muro alto 15 metri portava ad una stretta fessura sotto un tetto. A sinistra della fessura, leggermente più in basso, si trovava un rigonfiamento della parete. Lo raggiunsi per entrare più in alto nella fessura. Con il piede sinistro mi trovavo su un gradino dello strapiombo mentre cercavo di vedere dove sarei potuto arrivare con il piede destro, facendo una trazione con le braccia. Le mani cercarono appigli all’altezza del torace finché la sinistra non trovò una rientranza piatta che si rivelò essere una presa modesta.

Con la mano destra provai a scuotere un blocco, che sembrava solido ma che sulla destra presentava una crepa.

La parete est del Sass Maor con il tracciato della via Solleder-Kummer. Foto: ormeverticali.it.

Poiché non c’era null’altro a cui aggrapparsi, non mi rimase che tentare. Sotto la mia pressione il blocco uscì dalla sua sede e prese a scendere verso il mio petto, mentre una grande quantità di piccole pietre precipitava verso il basso. Subito Franz gridò: “Guarda che io non sono al coperto!” Al che gli risposi: “Spostati subito in parete verso destra, poi quando grido, tu fai dondolare la corda in fuori, facendole fare un’ampia oscillazione.” Poi procedetti. Avevo la mano sinistra stretta sull’appiglio piatto mentre con la destra facevo scivolare il masso sotto il braccio sinistro. Poi con un urlo lo spinsi il più lontano possibile. Furono attimi di tensione, allo schianto seguì uno scoppio. Era fatta. Mi tirai un poco all’indietro, e sotto lo strapiombo mi assicurai con un buon chiodo. Come fu ben pianto nella roccia, la tensione mi abbandonò. Dovevo assolutamente riposare e riprendermi. Sapevo che molti alpinisti si opponevano all’uso dei chiodi, ma io, lassù, su quel punto di sosta inclinato, troppo stanco per una discesa in arrampicata, ero ben lieto invece di avere quell’unico aiuto. Raccontai a Franz quanto era successo, non discorremmo però a cuor leggero bensì come reduci che avevano corso un grave pericolo. Ci sentivamo oppressi, schiacciati e ci scambiavamo poche parole, soltanto se indispensabili. Questa inquietudine non ci permise di riposare a lungo. Mi rimisi all’opera e cercai di superare direttamente la fessura. Vi infilai il braccio e la gamba destra, appoggiai gli arti di sinistra sulla parete priva di appigli, e così man mano mi innalzai, centimetro per centimetro. Qui, ebbi una sorpresa! La fessura si allargava e diveniva un camino! A quel punto però dovetti fermarmi. La corda era finita. Pur con tutta la voglia che avevo di salire, dovetti aspettare che Franz mi raggiungesse. Adesso, che cosa ci aspettava?

Entrai nel camino, su una minuscola cengia c’era qualcosa che luccicava, un frammento di vetro. Di colpo mi venne in mente la scarpetta usata che avevo trovato in cima alla Furchetta. No, non potevamo essere già così in alto, tuttavia il vetro era segno della presenza umana, di qualcuno che era stato e aveva mangiato lassù, sopra di noi. Speravo solo che non fosse troppo in alto. Erano le cinque del pomeriggio, Viste le difficoltà incontrate, eravamo stati molto veloci, tuttavia non ero alieno dall’idea di bivaccare quassù in cima al camino, ma la nebbia, particolarmente infida alla fine dell’estate, che cosa ci avrebbe potuto nascondere? Dovevamo lottare ancora, fino allo stremo. Ancora qualche ora e la giornata sarebbe terminata. Se noi ne avessimo approfittato e avessimo trovato un terreno favorevole la luce delle nostre lanterne ci avrebbe aiutato. Detto fatto. Mi scossi e ripresi a salire. Fu una facile arrampicata, quasi infinita, quella che ci condusse alle rocce che portavano in vetta. Cercai di consolare e stimolare il mio compagno. “Franz” gli dissi “concludiamo la salita in giornata.” Lui non aveva mai compiuto una ascensione del genere, ma dichiarò che sarebbe stato contento anche se non avessimo concluso la scalata in giornata. Poi la roccia divenne molto difficile, noi ansimavamo con i muscoli tornati caldi sulla roccia fredda. Raggiunsi una placca di roccia chiara e friabile. La superai con la massima calma, sapendo i rischi che correvo, tuttavia mi sentivo perfettamente sicuro. Mentre la mente studiava la roccia davanti a me, la volontà ripeteva: “Avanti, avanti!”

“Fermati, la corda è finita,” risuonò dal basso “Salgo!”
“Vieni ragazzo, accendiamo le lanterne!” .
”Sei stanco?”
“No, per niente!”

Ripresi a salire con la lanterna fra i denti. Feci una sosta più lunga.
La nebbia era fitta e la notte buia. Inciampammo su bottiglie e rifiuti. Eravamo in cima. Lanciai una bottiglia giù lungo la parete da cui eravamo saliti: nessun rumore nella notte.

Ci sedemmo sulla corda arrotolata e ci avvolgemmo nel telo di batista della nostra tenda in alto sopra la Forcella della Madonna che il giovane Winkler raggiunse per primo. Poco prima del tramonto, era salito sulla vetta vergine e bivaccò lassù. Lentamente sopraggiunse mezzanotte. Il freddo pungente penetrava attraverso il tessuto sottile. Cominciò a piovere e l’acqua a scorrere sotto la corda su cui sedevamo. Accendemmo piccoli pezzi di meta che però avevano bisogno dell’ossigeno e minacciavano di spegnersi per cui dovemmo far entrare l’aria gelida della notte.

Finalmente cominciò ad albeggiare, ma noi non ci sentivamo ancora di muoverci. La nebbia era sempre fitta e cadeva una pioggia sottile. Poi un pezzo di roccia cadde con frastuono e noi ci affrettammo. Era ora. La corda ormai rigida trovò posto dentro lo zaino, il telo della tenda fu arrotolato e legato all’esterno. Con passo veloce ci dirigemmo verso la Forcella della Madonna la cui discesa era complessa da entrambi i versanti. Noi non conoscevamo né l’uno né l’altro. Poiché San Martino era sulla destra, tentammo da quella parte. Camminammo con le scarpe d’arrampicata su roccia e ghiaccio, la pioggia che entrava dal collo ci bagnò completamente. Il fianco della montagna diventava sempre più ripido, a sinistra nella nebbia intravedemmo l’ombra dello Spigolo del Velo della Madonna. Scendemmo più e più volte con l’aiuto della corda, fino a quando trovammo la via sbarrata da un burrone. Risalimmo per un buon tratto e attraversammo la forra molto più in alto; poi, finalmente lasciata la roccia raggiungemmo l’erba.

La parete est del Sass Maor con il tracciato della via Solleder-Kummer. Foto: ormeverticali.it.

Da lì scendemmo su un gradone di roccia di circa 300 metri, ma anche questo avrebbe potuto essere ingannevole. Usammo i nostri ultimi chiodi per poter traversare; poi, superato un ultimo tratto esposto di 35 metri, ci trovammo nel circo alla base della parete su una traccia fatta dalle pecore che dopo poco confluiva nel sentiero che a destra portava alla Forcella della Madonna. Apparve allora evidente che l’itinerario consueto gira intorno alla Cima della Madonna con un ampio arco e pertanto si accede alla sella dall’altro lato. Superate alcune baite abbandonate, giungemmo ad una vecchia strada militare che scendeva a valle con ampi tornanti.

I muri delle case di San Martino risplendevano. Dopo 35 ore di duro lavoro, entrammo nella hall dell’albergo con le nostre scarpe d’arrampicata sbrindellate e ci trovammo negli eleganti saloni dove i morbidi toni della dolce musica cercavano di avere la meglio sul grigiore della giornata di pioggia e invitavano le persone a ballare. Sentii la gioiosa battuta: “Madonna, sei più bella del Sass Maor”. Poi un sonno delizioso ci sottrasse alla realtà. Al primo sole del mattino seguente tornammo verso le nostre vette che ci avevano regalato una esperienza così profonda. Sul margine del bosco mi volsi a guardare le finestre ancora oscurate dell’albergo e la stella doppia Cima della Madonna-Sass Maor, infuocata dalla luce del mattino. Era come il fuoco che bruciava nella mia anima e che aveva forgiato il legame che mi aveva avvinto alle montagne fin dalla prima salita.

Tradotto da: Emil Solleder, Die letzten großen Wandprobleme in den Dolomiten, Zeitschrift des Deutschen und Österreichischen Alpenvereins, 1927, 58, 234-251.

La parete est del Sass Maor ultima modifica: 2021-04-09T05:17:00+02:00 da GognaBlog

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11 pensieri su “La parete est del Sass Maor”

  1.  Si vedono anche dalla pianura Veneta, in giornate limpide.Basta partire dalla Fradusta e poi si notano ..le sorelle  ed il fratello sass Maor, Cimerlo.. Che strano: di Franz Kummer non si trova notizia  sul  web.

  2. La vista della parete Est del Sass Maòr all alba dal rifugio Pradidali è uno spettacolo meraviglioso e unico.

  3. Per pochi  si intende rispetto alle centinaia di migliaia che come me  l’hanno guardata naso in su..fotografata…ma mai ci sono saliti.Ottimi ristoranti come punto di osservazione con binocolo.. Salita possibile per  chi sceglie modalita’   con guida e  scelta della via, basta a rivolgersi a Gruppo Guide  Aquile di   san Martino o altra scelta e tariffa concordata.  Chiaro che  se si limita il confronto ai drughi, e'”robetta”, ormai non mettono neppure un trafiletto, forse neppure la firmetta sul libro di vetta..Perche’  parlino  di salitori della Solleder…deve ormai essere successa qualche disgrazia. Luglio 2006, alle 14 circa si scateno’ un temporale con raffica di saette.Poi un’ora dopo si vide volteggiare un elicottero. Il giorno dopo la cronaca : una  cordata a due, partita presto con condizioni all’alba spendide   , stava già  in  cima dopo aver completato la via classica.   Dei due, uno sfiorato con ustioni ed uno folgorato fatalmente , causa  i metalli che ancora portava addosso.La zona e’cosi’..mettono in guardia dai temporali estivi pomeridiani tutti gli esperti.Molto occhio anche alla discesa dal sentiero del cacciatore.Attualmente pure da stare attenti a crolli interessanti la   semplice ferrata Buzzati. C’e’da sperare che siano stati rimossi gli innumerevoli pini schiantati due annifa.

  4. Che bella salita quella, un intuito incredibile scovare quei traversi!
    Quando l’ho ripetuta con amici -giugno 2019- mica l’abbiamo trovata la nicchia di roccia marcia…chissà che fine ha fatto…

  5. No, non e’quel cognome  che appare nel link,  stranamente ce ne sono parecchi con quel nome. Per caso e’ un sito  che pubblica  la riflessione autobiografica di Dino Buzzati. Altrimenti  la stessa si trova  in cartaceo con altri articoli in ” Buzzati-Le montagne di Vetro”- vivalda.Le vie Normali di quel gruppo sono raccolte in “Luca  Visentini autore&editore-Paledi San Martino”, pure  guide Tamari e pure Monti d’Italia-Cai ed tanti altri. Come  compagno di sentiero  escursionistico incontrai  per caso ,anno ’77, Gabriele Franceschini,in procinto di terminare una guida alpinistica ed. Ghedina. Era  ancora parecchio inca***to per l’incidente che gli rovino’ la caviglia  a causa di un cliente che gli trattenne la corda sotto lo scarpone . Addio imprese  e professione guida. Effettivamente la scorsa estate c’e’stato un buon ritorno e frequentazione delle zone montane  .Poi  e’ partita la seconda- terza ondata che ha  segato la stagione invernale…esclusi  i fortunati proprietari  di seconde case o muniti di contratto di affitto precedenti il giorno  x. X+1  vietato.

  6. Drugo ha ragione, non esageriamo. Forse le vie meno ripetute sono quella di Massarotto e la Maffei-Leoni che sono a destra della Solleder.
    La Solleder la definirei una via astuta che a me è piaciuta molto. Dopo un bivacco poco prima di arrivare sotto la parete est, la facemmo salendo per la variante Bettega che sale direttamente per lo spigolo che delimita a destra la placconata grigia e raggiunge la via Solleder alla fine della rampa. Ritornammo a prendere le nostre  cose dal sentiero del Cacciatore. Fu una bella salita.

  7. Fa effetto, in un racconto del 1926, leggere “infilammo le scarpette d’arrampicata”, anche se di corda. E pensare che invece per qualche decennio successivo si era tornati agli scarponi rigidi. Misteri dell’evoluzione.
    Una nota. Finalmente “albert” ha un nome e cognome? 😉

  8. Dai, non esageriamo.Sul Sass Maor ci va gente ogni anno, dalla Solleder a Supermatita.
    Non sarà una parete alla moda, ma dire “per pochi” è decisamente esagerato.
    E la scorsa estate, quindi non certo da un anno, la zona è tutt’altro che semi deserta.

  9.  Anche allora  ..i rifiuti… adesso saranno diventati reperti storici .Pure franata una parte della parete..pochi anni fa ed altri crolli  nei dintorni.
    Pensando negativo e’ una disdetta, pensando positivo ci sono nuove vie da tentare sulle parti  nude emerse.Pure parti di  relazioni da revisionare.Da un anno i posti citati sono semideserti. In  pianura Veneta molti ansiosi di rifrequentarli, col naso all’insu’…e grazie per aver postato la relazione originale tradotta.
    Per chi vuol farsi un’idea senza rischiare:
    .https://www.planetmountain.com/it/notizie/alpinismo/civetta-solleder-lettenbauer-il-video-della-salita-invernale-francese.html
    La prima solitaria viene attribuita a CesareMaestri, ma fu di Gabriele  Franceschini, guida amica di   Dino Buzzati.Lo scrittore vagheggiò  di  salire la via  Solleder al Sass Maor, come un sogno impossibile.

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