La parete orientale del Sass Maor

Per la comune passione nei confronti del personaggio Gervasutti, sul GognaBlog da un po’ di anni si segue la consuetudine, nell’anniversario della scomparsa (questo è il 77°), di ricordarlo con un articolo a lui dedicato.

Si tratta di un articolo poco noto. Anzi, si potrebbe dire quasi sconosciuto. A esser sinceri, però, non si può parlare di un vero e proprio articolo “inedito” e questo per due motivi: primo perché in effetti è già stato pubblicato (anche se quasi 90 anni fa!) e, secondo, perché gran parte del testo è stato poi rielaborato dallo stesso Gervasutti, quando ha composto il suo celebre Scalate nelle Alpi, libro scritto, edito e direttamente stampato da Gervasutti nell’autunno del 1945.

La parete orientale del Sass Maor
(con Gabriele Boccalatte Gallo)
di Giusto Gervasutti
(pubblicato su Alpinismo, gennaio-febbraio 1935)

La stagione alpinistica dell’anno 1932 sembrava oramai chiusa per me, quando di ritorno a Torino, incontratomi con Gabriele, questi mi fece cambiar parere; da parecchio tempo il mio amico desiderava fare una visita alle Dolomiti che non conosceva affatto, e così, sebbene da un mese avessimo sospeso ogni attività, non fu difficile deciderci alla partenza.

La traversata superiore della via Solleder-Kummer alla parete est del Sass Maor. Foto: Hans Brehm.

Scegliamo a mèta il gruppo delle Pale di S. Martino, e, come gita di affiatamento, facciamo, assieme alla signorina Ninì Pietrasanta, la Cima della Madonna per lo spigolo del Velo. All’attacco di questa aerea e divertentissima salita incontriamo amici di Chamonix: le guide Alfred Couttet e Roger Frison-Roche che sono venuti per una breve campagna con un cliente americano: hanno già fatto la Guglia De Amicis, lo spigolo della Punta Fiames e la via Myriam sulla Torre Grande di Averau: chiediamo a Couttet le sue impressioni sulle salite compiute, e il montanaro del Monte Bianco, che certamente ha ancora troppo vicino il ricordo delle formidabili ascensioni del suo gruppo misto ad un po’ di campanilismo, ci risponde sorridendo:

«Oh, trois très jolies courses d’entraînement (Oh, tre belle salite di allenamento!, NdR)».

Forse non ha torto. Queste salite dolomitiche, che possono anche rappresentare «l’oltremodo difficile», troppo brevi per essere grandi ascensioni, sono forse troppo celebrate in confusione fra valore e difficoltà.

Il Sass Maor da nord

È però indubitabile che sono divertentissime: si svolgono in ambienti di particolare bellezza, procurano infinite impressioni estetiche, anche se non possono sostenere il rango di grandi imprese alpinistiche.

Considerazioni varie può suggerire il sempre più infittirsi dei chiodi (sullo Spigolo del Velo ne contammo tredici), che, fra l’altro, concede, anche a chi pur non abbia la sicurezza sufficiente, di illudersi sul proprio coraggio e sulla propria capacità, creando possibilità false che possono essere scontate con incidenti.

Il pomeriggio del giorno seguente ci portiamo al rifugio Pradidali, in una giornata dedicata esclusivamente ai piacevoli conversari: è motivo dominante la parete orientale del Sass Maor, che domani vorremmo scalare, e che, con l’aspetto arcigno con cui si presenta a coloro che la guardano dal rifugio, incute veramente rispetto.

Noi conoscevamo di questa salita solamente la relazione di Hans Brehm, presentata da Domenico Rudatis su Sport fascista, dove è la narrazione di passaggi superati con manovre di corda, di placche panciute senza appigli e di finezze arrampicatorie che solo la più raffinata tecnica può escogitare.

Sass Maor (a sinistra) e Cima della Madonna da nord-ovest. Foto: Wikipedia.

Data la fama dei celebri «assi» della Scuola di Monaco, c’era di che preoccuparsi, e seriamente. Gabriele poi, non ancora iniziato ai segreti dell’arrampicamento ultra-moderno su calcare e dolomia, si sentiva alquanto dubitoso e continuava a chiedermi spiegazioni sui lunghi tratti sempre estremamente difficili, sulle pareti continuamente strapiombanti e su altre simili frasi di cui aveva trovato dovizia nelle più recenti relazioni di massime «prestazioni» dolomitiche.

L’indomani, alle tre e trenta, partenza. Malgrado la stagione piuttosto avanzata, fa quasi caldo. Sotto di noi ondeggia lentamente un magnifico mare di nebbia da cui balzano le vette circostanti e lontane illuminate a giorno dalla luna.

Scendiamo rapidamente assieme alla gentile compagna che ci accompagnerà fino all’attacco. A poco a poco ci immergiamo completamente nei vapori che riempiono la valle. All’altezza della base della parete, la mulattiera attraversa il ripido pendio e poi il ghiaione che scende dalla profonda gola situata a destra del Sass Maor: la seguiamo ancora per un tratto, indi l’abbandoniamo.

Con una breve salita per ghiaie e fra pini mughi raggiungiamo una cengia, all’inizio del gradino roccioso che ci porterà alla vera parete. Erriamo per oltre mezz’ora da una cengia all’altra finché riusciamo a trovare la strada giusta, circa cento metri sopra l’attacco. Allora ci fermiamo, leviamo le scarpe per infilare le pedule e continuiamo lentamente per rocce facili.

Così arriviamo alla serie di camini che, tagliando obliquamente la parete, conducono al gran diedro centrale. Fermata e generoso spuntino: questo servirà anche ad alleggerire il sacco, che malgrado l’incomodo che dà abbiamo ben fornito.

La nebbia fluttua di nuovo sotto di noi, e la valle ne è completamente sommersa, a darci la sensazione di essere maggiormente soli: in alto c’è il sole, e la montagna sembra ci chiami. Mangiamo lentamente quasi per prolungare gli ultimi minuti di calma prima della lotta.

Sorpassati rapidamente i camini incontriamo le prime difficoltà: una fessura verticale di pochi metri e poi una caratteristica paretina gialla, rotta, a placche triangolari: in alto il gran diedro si erge paurosamente verticale.

Cima della Madonna (a sinistra) e Sass Maor da sud. Foto: Andrea Greci.

La parete vista da sotto sembra insormontabile: Solleder con felice intuito la aggirò a destra uscendo dal diedro e rientrandovi più in alto con due arditissime traversate. In questo tratto credo stiano le maggiori difficoltà di tutta la salita, che sono molto serie, ed anche, a mio avviso, leggermente superiori ai primi passaggi della direttissima della Civetta.

Oltre la paretina gialla si trova una cengia che porta verso destra e finisce di colpo, chiusa da un blocco. In fondo alla cengia, appoggiato al masso, è costruito un muretto, segno evidente che qualcuno deve aver qui bivaccato: e riteniamo siano stati Raffaele Carlesso e Tita Casetta che quest’anno hanno compiuto la prima salita italiana e terza assoluta di questa parete, e che, sorpresi da due temporali, dovettero passare la notte sulla montagna.

Dopo la cengia non ci sono più anfrattuosità, non c’è che la parete, gialla, quasi verticale ed apparentemente liscia. Bisogna affidarsi con le mani e con i piedi a piccoli appigli che si scoprono procedendo. L’esposizione è qui assoluta: di tratto in tratto una sporgenza più marcata permette un po’ di riposo. Dalla cengia, dunque, si attraversa sulla parete a destra prima orizzontalmente e poi obliquando in alto, fino a raggiungere uno spuntone staccato da uno spigolo giallo: dal quale si continua ad attraversare per alcuni metri, quindi si sale per una rientranza della roccia, solcata da una esilissima fessura dove penetrano soltanto le dita.

Questo secondo passaggio di circa venticinque metri è forse il più difficile della salita, certamente quello che richiede il maggior sforzo complessivo. Di manovre di corda in tutta la traversata non ce n’è assolutamente bisogno. Si giunge così ad un piccolissimo gradino sotto ad uno strapiombo, che è rotto a destra dove lo si vince usufruendo di ottimi appigli per le mani.

Sopra, la parete si inclina un po’ per un tratto di corda: oltre il quale si deve ritornare a sinistra a riprendere il diedro che dal basso si vedeva profondo e solcato da camini.

Si passano alcune rocce rotte, e dopo una piccola nicchia si prende una fessura quasi orizzontale; la si attraversa infilandovi le mani, con il corpo sul vuoto ed i piedi che appoggiano a rari appigli: ma dopo una dozzina di metri la fessura cessa.

La parte superiore della parete rientra, mentre il bordo inferiore continua formando una piccola cengia. Vi si monta sopra vincendo un piccolo strapiombo molto faticoso. La cengia continua stretta, rotta e difficile, con dei passaggi delicati ed esposti; poi si allarga e porta nuovamente nel diedro.

Questo inizia con una grande placca granulosa, molto inclinata, interrotta da una specie di cupola rocciosa che si gira. Un’ultima placca, abbastanza liscia, è divertentissima; la si attraversa giocando d’equilibrio e poi per rocce biancastre si raggiunge un comodo ripiano, alla base di un camino.

Da quanto sappiamo, le maggiori difficoltà sono oramai superate, ed essendo abbastanza presto non nutriamo più apprensioni per il resto della salita.

Perciò facciamo «zaino a terra».

L’animo dell’alpinista si intona sempre al tipo di ascensione che compie ed alle condizioni atmosferiche che ha. È allegro e giocondo come se partecipasse ad una festa quando l’incognita della salita sta soltanto nella difficoltà soggettiva e l’assicurazione è sempre possibile; quando invece la montagna incombe paurosamente con i suoi pericoli obiettivi o infuria la bufera diventa tetro e rabbioso come se un demone interno lo forzasse a percuotere e a cozzare contro le forze scatenate della natura, e la scalata diventa una battaglia disperata.

La salita di oggi è di quelle oneste, e noi, placidamente assisi su questo aereo pianerottolo, seguiamo con interesse le nuvolette di fumo delle sigarette, ragionando sulle impressioni che fin qui la salita ci ha destato.

La parete est del Sass Maor. Foto: Wikipedia.

Così piano piano passa circa un’ora, ma abbiamo ancora oltre 200 metri da fare e non possiamo più indugiare. Le difficoltà che troviamo sono decisamente minori a paragone delle precedenti ed arrampichiamo velocemente, sempre però uno alla volta.

Si superano due camini successivi, poi un altro caratteristico, strozzato in fondo, dal quale si esce attraverso un buco.

Un ultimo salto, poi rocce più facili. Si piega a sinistra per una piccola gola obliqua che si vede bene anche da sotto la parete, e si arriva in cresta ad una cinquantina di metri dalla punta.

Alle quattro del pomeriggio siamo sulla vetta, ove sostiamo circa un’ora, dilettandoci alle evoluzioni della nebbia e gettando nello spazio la nostra gioia trasformata in canzoni.

Per la discesa, fatto un breve consulto, decidiamo di calare direttamente alla forcella fra Sass Maor e Cima della Madonna, di andare a prendere il camino che abbiamo già percorso l’altro giorno in discesa e fermarci quindi a dormire alla base della roccia.

Ci attenderebbe, è vero, un buon letto a San Martino di Castrozza, ma siccome in questa brevissima campagna dolomitica abbiamo già dormito due volte “alla bella stella” (vicino alla Malga di sopra Ronz), così la decisione ci addurrà il numero perfetto; ed al letto rinunciamo senza il rammarico della pigrizia.

Alle diciotto e trenta il nostro progetto è attuato e, trovato un posto sufficientemente comodo, ci sistemiamo. Non è ancora il crepuscolo e noi, seduti su due massi, lo attendiamo.

Dopo una grande ascensione sostare così ancora isolati dal mondo aumenta il godimento; le impressioni della salita, in mezzo al silenzio assoluto, di fronte all’infinito, continuano fresche, quasi si moltiplicano. Il tramonto indora la nebbia che sale, lenta, a sommergere le vette: l’animo si placa dall’eccitazione della lotta e una profonda calma ci invade a mano a mano che le tenebre calano. Desideri infiniti di altre battaglie, di altre conquiste su altre montagne.

Quando gli ultimi bagliori si sono spenti dietro le vette che abbiamo di fronte, il freddo umido della notte ci toglie dai nostri sogni: ci infiliamo nei sacchi da bivacco. Domani scenderemo a valle più contenti.

Il tracciato della via Solleder-Kummer alla parete est del Sass Maor. Foto: ormeverticali.it

Un Gervasutti inconsueto
il commento di Carlo Crovella

L’esistenza di questo articolo non era per nulla scontata ai più e devo dire che era abbastanza sconosciuta anche agli accaniti appassionati di letteratura alpinistica. L’articolo è uscito sul numero di gennaio-febbraio 1935 di Alpinismo, che in quel momento era il periodico del CAI Torino. Tale pubblicazione rispondeva alla duplice funzione di pregevole rivista di montagna (ecco la spiegazione della presenza di articoli come questo e non solo) e, nella seconda parte, di bollettino sezionale, con la annesse notizie spicciole per i soci.

Seppur pubblicato nel 1935, l’articolo si riferisce ad una scalata del settembre 1932. Alla fine di quella estate, Gervasutti combina con Gabriele Boccalatte (curiosità storica: al tempo veniva ancora chiamato Boccalatte Gallo, ma presto perderà il secondo cognome) e con Ninì Pietrasanta. Quest’ultima aveva conosciuto i torinesi (e quindi Gabriele) nel corso di quella stessa estate, per cui i due erano proprio ai loro primi passi insieme.

Non interessano qui i pur interessanti risvolti storico-esistenziali di Boccalatte e della Pietrasanta, quanto il carattere un po’ inconsueto di questo scritto di Gervasutti. Un articolo esclusivamente dedicato ad un’ascensione dolomitica (nello specifico la quarta salita assoluta della via Solleder alla parete est del Sass Maor).

Siamo abituati a pensare agli scritti di Gervasutti come a una sequenza di quadri titanici in cui viene raffigurata la rude lotta con le Alpi occidentali: avvicinamenti eterni, bufere, pareti intasate di ghiaccio, bivacchi al limite, discese estenuanti.

Qui viene invece narrata una ascensione che, seppur non proprio facile sul piano tecnico, è però vissuta con animo sereno dai due protagonisti, poiché tutto fila a meraviglia. Addirittura nel corso della salita i due si concedono una lunga sosta a fumare (?!), seduti su una cengia in mezzo alla parete. Anche il bivacco finale è un momento di serenità e non certo di aspra lotta.

E’ un po’ ambiguo il rapporto di Giusto con le Dolomiti. Egli vi è alpinisticamente nato, quindi queste montagne rappresentano per lui il giardino d’infanzia. Infatti vi torna periodicamente, specie quando è stufo delle bufere nel Bianco.

Tuttavia Gervasutti non ha lasciato un particolare segno su quelle pareti. Ha percorso anche vie considerate “estremamente difficili” (fra tutte la Solleder alla Civetta e la Comici alla Grande), ma non ha mai percepito il vero desiderio di esplorare nuove itinerari e nuove pareti. In altre parole, non ha realizzato delle prime salite, a parte qualche ascensione minore.

Parete est del Sass Maor. Foto: Gabriele Villa.

Insomma: con il trasferimento a Torino, Gervasutti ha tenuto i suoi “giorni grandi” per le Occidentali, mentre le Dolomiti costituiscono per lui solo dei piacevoli momenti di svago e di rilassatezza. Delle parentesi, delle evasioni rispetto al cliché della sua vita abituale. D’altra parte anche le considerazioni che, nella parte iniziale di questo testo, egli espone sulle scalate dolomitiche danno proprio l’impressione di inserirsi in un filone del genere.

Ognuno ha i suoi balìn (pallini), come li chiamiamo a Torino. Gervasutti ha il balìn delle grandi pareti occidentali: come dargli torto? D’altra parte egli stesso ha adeguato le sue scelte di vita a tale obiettivo, iniziando proprio dal trasferimento a Torino. Infatti, se Gervasutti fosse stato innamorato delle Dolomiti, non si sarebbe spostato da casa sua: le aveva lì vicine, bastava che allungasse una mano per toccarle.

Ma se fosse stato così, forse la storia dell’intero alpinismo italiano si sarebbe evoluta in modo completamente diverso. Con i se e con i ma non si fa la storia, per cui nessuno saprà mai come sarebbe stato un Gervasutti esclusivamente dolomitista. E quanto tempo avrebbe impiegato l’alpinismo occidentale a modernizzarsi, senza l’apporto che gli ha invece fornito il Fortissimo.

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La parete orientale del Sass Maor ultima modifica: 2023-09-16T05:56:00+02:00 da GognaBlog

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13 pensieri su “La parete orientale del Sass Maor”

  1. Dispiace che non tuti percepiscano l’importanza non del solo Gervasutti in quanto tale, ma del binomio Gervasutti-Torino. Importanza che ha agito  nei due sensi. Giusto ha fatto molto per l’ambiente alpinistico torinese (e non solo in termini di imprese di punta, anzi…), ma si può anche dire che egli si e’ giovato dell’aver trovato un ambiente molto fervido, in cui si è inserito a meraviglia. E’ questa particolare combinazione che ha esaltato la sua figura. Un po’ come il calciatore Michel Platini, che era forte di suo, ma ha vinto tutto solo quando è arrivato alla Juventus, dove ha trovato 6 italiani campioni del mondo più il polacco Boniek. Platini da solo non avrebbe vinto tutto quello che ha vinto. Tra l’altro, arrivando a Torino, Gervasutti, a livello top, ha incontrato nomi come Boccalatte, Cicogna, Rivero, De Rege, Chabod… tutta gente che non stava certo con le mani in mano prima del suo arrivo. Sicuramente Gervasutti ha accelerato la crescita di tutto, ma -ripeto – anche lui ha tratto profitto dall’ambiente subalpino.
     
    Con i se e con i ma non si fa la storia. Tuttavia io (dopo decenni di studi sul personaggio) sono convinto che, se Gervasutti fosse rimasto con il baricentro di vita che gli aveva assegnato la sorte, forse oggi potremmo sostenere che avrebbe potuto realizzare salite di pari livello alpinistico (rispetto a quelle che ha fatto qui da noi), ma non sarebbe diventato un “caposcuola” come invece è avvenuto a Torino. L’aura di “mito” deriva molto di più da tutto il suo impegno collaterale alle sue imprese di punta. Queste ultime, pur rilevantissime, coprono il 25%-30% della sua importanza, almeno come è percepita da noi.
     
    Infatti la leggenda dice che, quando Gervasutti era in citta’, passava più tempo al CAI che a casa sua. Era sempre impegnato in attività istituzionali: o riunioni dell’Accademico o della Scuola da lui creata o per i giovani o per il corso femminile (di arrampicata!) o per le pubblicazioni o semplicemente a chiacchierare con soci CAI, magari illustri sconosciuti e modestissimi alpinisti. Insomma non era chiuso in una torre eburnea: aveva i piedi ben piantati nella realtà quotidiana dell’ambiente torinese. Da tempo io sostengo che Gervasutti era un vero “caiano’, nel senso positivo del termine, cioè di genuino appassionato al Sodalizio, alle sue vicende e ai suoi soci.
     
    In aggiunta a tutto ciò, aveva anche i suoi momenti di ricerca di vita “selvaggia” in cui realizzava le grandi salite. Ma non è tanto per queste ultime bensì per il suo profondo coinvolgimento nella vita quotidiana della comunità alpinistica torinese che e’ diventato un caposcuola. E il mito, che si percepisce ancora oggi, si lega al suo ruolo di caposcuola.
     

  2. A me quelli che campano di miti, mi fanno tenerezza.
     

    “[…] Qualcuno, forse in buona fede, ha cercato e sta cercando di segare l’albero per staccarlo dalle sue radici, con l’illusione di dargli finalmente la libertà di movimento. Ma forse si è ancora in tempo a porre riparo, a cicatrizzare la ferita, ormai molto estesa, e a ricollegare i capillari della linfa con le radici sottostanti. Molti cominciano già a vedere che l’albero dà frutti avvizziti, quasi non dà più fiori, va perdendo le foglie e rinsecchendosi nei rami. Ed è per questo che mi sono preso l’arbitrio di usare tanto mito nel battezzare le pareti rocciose: lo si voglia o no, è nel mito che possiamo trovare il senso del nostro esistere e la risposta ai grandi perché della vita.”

    Gian Piero Motti -ALLA RICERCA DELLE ANTICHE SERE”

  3. Sapevo che Crovella sarebbe corso in difesa del suo mito, ma forse ha frainteso le mie parole.
    Non metto in dubbio il valore umano e alpinistico di Gervasutti (che storicamente conosco fin da quando ero giovane) e sono ben contento che l’immagine dello stesso sia stata e resti altamente positiva, ma metto in dubbio quella che gli si è voluta attribuire nei salotti torinesi.
    I salotti, per tradizione sono popolati in gran parte da teorici (e in minimissima parte da pragmatici, che essendo tali mal si trovano nei salotti) che facilmente si fanno accecare anche da caratteristiche semplici e non eccezionali, quindi è facile cadere nella mitizzazione di persone normali.
    Crovella ha ripetutamente sottolineato la sua orgogliosa appartenenza a suddetti salotti, oltre alla militanza caiana di istruttore, scrittore, ecc.ecc., e quindi mi sorge spontaneo prendere con le pinze le sue storie a riguardo di Gervasutti (belle, dettagliate e appassionanti, per carità) proprio per i motivi di cui sopra.
     
    Il mio paragone con la pizza e Megos era volutamente provocatorio e infatti ha sortito l’effetto che tutti possono qui vedere.
     
    Purtroppo la storia dell’alpinismo è fatta da chi la racconta e non sempre da tutti quelli che la praticano.
    Ancora oggi troviamo proprio tra le pubblicazioni del Cai certi personaggi citati come i più grandi alpinisti del mondo senza conoscere chi invece pratica un alpinismo di avanguardia e al vertice delle prestazioni assolute in questa disciplina. Meno male che ogni tanto sul gognablog compare qualche noioso (perché diciamoci la verità: certi racconti sono noiosi) articolo dall’American Alpine Journal o da qualche pubblicazione britannica, ma che viene letta di striscio e presa in considerazione anche meno.
     
    Lo ripeto, le mie parole non vogliono assolutamente sminuire in alcun modo la figura di Gervasutti, ma semplicemente ridimensionare la visione torinocentrica che ne caratterizza ogni sua esaltazione.
     
    Lo dico perché sono anch’io un frequentatore di salotti buoni e devo dire che la cosa, pur divertendomi perché solitamente sono anche frequentati da belle donne -elemento umano che sempre apprezzo- non mi galvanizza affatto e mi fa prendere con le pinze dai lunghi manici tutto quello che deriva da certi ambienti dorati ma privi di quella sostanza che piace a me. 
    Questo è difficile da capire per chi i salotti li vive con soddisfazione e li ritiene un fondamentale motivo per trascorrere piacevolmente il tempo.Dai salotti buoni imparo certamente molte cose, ma i miei piedi sono sempre ben saldi a terra e la mia propria dimensione fin troppo radicalmente grezza, rozza e ribelle. 
    La conferma del fatto che due rette parallele sono tali perché mai si incontrano, ma si possono annusare.
     

  4. Intervengo solo per amore precisione storica: l’impressione del commento 7 è totalmente infondata, probabilmente connessa alla scarsissima o nulla conoscenza sia del personaggio che dei fatti (oggettivi).
     
    A Torino Gervasutti non era affatto uno “straniero”, anzi. E’ nato lontano da Torino, ma vi si è trasferito giovanissimo (22enne) e si è inserito perfettamente nella comunità alpinistica torinesi, a cominciare dalla vita del CAI.  E’ stato un vero maestro per tutti, sia a livelli tecnici elevati che nella spicciola quotidianità: oltre alle imprese di VI grado, in altre giornate faceva da accompagnatore nelle semplici uscite dei ragazzi in età adolescenziale. E’ colui che ha impostato e diretto la prima scuola di alpinismo torinese, alla quale si sono formati decine di alpinisti, a volte passati alla storia (per le loro successive imprese personali), ma a volte rimasti semplici “sconosciuti”. Anzi Gervasutti ci ha insegnato a dedicarci maggiormente ad allievi di tale tenore piuttosto che ai “campioni”, tanto per sottolineare l’assoluta assenza di spocchia nella sua persone.
    Non parliamo, poi, dell’inserimento di Gervasutti nella vita sociale e intellettuate torinese al di là della montagna in senso stretto. Frequentava abitualmente gli eventi chiave della vita cittadina ed era apprezzato da tutti, anche dai “non alpinisti”.
     
    Altro che una semplice pizza condivisa!… Gervasutti ha vissuto a Torino (inserendosi in profondità nella vita comunitaria) per 15 anni! A tal punto che Massimo Mila, nel ricordo di GG, uscito su L’Unità poche settimane dopo l’incidente, lo definisce “il nostro Gervasutti“.
     
    Per i torinesi suoi contemporanei, Giusto è stato un vero fratello, per noi “eredi” delle sue molteplici versioni (dall’alpinista estremo all’istruttore paziente con i neofiti…) è e sarà sempre un mito.  E vorrei ben vedere!
     

  5. Ma davvero si vuol sindacare su una frase scritta da Gervasutti in persona (appropriazione?) Nel 1935, ovvero in pieno macismo fascista??….mah

  6. D’accordo con Luca.
    Finalmente qualcuno l’ha detto.
     
    E poi ho sempre avuto l’impressione, al di là dell’indubbio valore tecnico, che i torinesi abbiano cucito addosso a Gervasutti l’abito che piaceva a loro, ovvero un po’ troppo autoriferito.
    Cioè, individuato un personaggio (straniero) di notevole caratura, l’abbiano voluto fare loro e da dopo morto adeguarlo più alle loro necessità di protagonismo storico che alla realtà di quello che Gervasutti era.
     
    Mi spiego meglio con un esempio banale. Il fatto che una sera mi sia mangiato una pizza con Alex Megos non mi fa essere tra quelli che fanno il 9a a vista. Io resto quello di prima della pizza e Megos pure. 

  7. Traspare netta una fessura d’arroganza che l’autore potrà anche permettersela ma a me non piace.

  8. Silvia, se ti definisci una tosta camminatrice non capisco perché al Gervasutti, se tanto ti piacerebbe, tu non ci vada.
    Rimandare dandosi scuse fa malissimo.
    Comunque, fatti tuoi.
     
    Buone tostissime camminate.

  9. Molto godibile questo articolo! Da appassionata frequentatrice delle valli Ferret e Veny ho sempre guardato in alto ed ammiravo  chi saliva al Gervasutti( purtroppo non faccio ascensioni impegnative..sono solo una gran tosta camminatrice )ed aver potuto accedere a questa storia ed ai suoi pensieri è  stata una graditissima sorpresa!Grazie!

  10. Sempre graditi i racconti originali che ci arrivano dai protagonisti del passato. Ogni cultura, anche quella alpinistica, viene alimentata dalla propria storia. Innumerevoli sono gli scritti avvincenti lasciati sulle varie riviste specializzate dagli scalatori di ogni epoca. Forse bisognerebbe ricuperarne e diffonderne di più.

  11. “ Considerazioni varie può suggerire il sempre più infittirsi dei chiodi (sullo Spigolo del Velo ne contammo tredici), che, fra l’altro, concede, anche a chi pur non abbia la sicurezza sufficiente, di illudersi sul proprio coraggio e sulla propria capacità, creando possibilità false che possono essere scontate con incidenti.”
    Interessante il commento del “Giusto” sulla chiodatura dello Spigolo del Velo. Si lamenta dei 13 (tredici) chiodi su una via che, se non sbaglio, ha uno sviluppo di più di 500 metri.
    Altri tempi. Le montagne erano per pochi sia perchè erano pochi a potersi permettere divertimenti verticali (per la maggioranza la vita era piuttosto “grama”) ma anche perché il modo in cui si affrontavano le salite era improntato ad un’etica severa, inconciliabile con i tempi attuali del “(quasi) tutto per tutti”.

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