Il Bhāgīrathī IV fa parte del gruppo di Gangotri è un gruppo montuoso che fa parte dell’Himalaya del Garhwal, nello Stato indiano dell’Uttarakhand.
È composto da montagne granitiche che insistono attorno al ghiacciaio di Gangotri e al fiume Bhāgīrathī. Diverse sono le cime considerate sacre da induisti e buddisti.
Tra le vette più rilevanti:
Bhāgīrathī (I-IV), un massiccio di quattro cime (la maggiore è il Bhāgīrathī I 6856 m). Di facile accesso dal versante opposto al ghiacciaio, verso di esso presenta pareti a strapiombo;
Chaukhamba (I-IV), un massiccio di quattro cime. Il Chaukhamba I 7138 m raggiunge la massima elevazione del gruppo;
Kedarnath (I-II), composto da due picchi collegati da una cresta, con 6940 m è la cima più alta nella parte meridionale del gruppo. Ai suoi piedi si trova la cittadina di Kedarnath ed il tempio śivaita omonimo;
Meru 6660 m, compreso tra i due precedenti, composto da tre picchi di cui quello centrale è alpinisticamente il più importante;
Thalay Sagar 6904 m, che spicca per ripidezza e difficoltà alpinistica delle pareti;
Shivling 6543 m, detto il Cervino dell’Himalaya, montagna sacra legata simbolicamente al dio Shiva.
Lo scorso 15 settembre 2019 i Ragni di Lecco Matteo Della Bordella, Matteo Giga De Zaiacomo e Luca Schiera hanno raggiunto i 6193 metri della vetta del Bhāgīrathī IV dopo aver completato in 20 ore di arrampicata no stop e in perfetto stile alpino la prima salita assoluta della parete ovest della montagna: una muraglia di più di 800 metri di dislivello che, a partire dagli anni ’90, aveva respinto diversi tentativi, compreso quello compiuto dagli stessi tre Ragni quattro anni fa.
La via è stata salita quasi completamente in arrampicata libera, con difficoltà che arrivano fino al 7b e qualche raro passaggio in artificiale, il tutto rigorosamente con protezioni tradizionali.
Della Bordella nei giorni scorsi ha fatto rientro in Italia, mentre Schiera e De Zaiacomo sono ancora in India, per tentare la salita dello Shivling, vetta di oltre 6500 metri di quota che fronteggia il gruppo del Bhāgīrathī .
Bhāgīrathī IV, il tentativo del 2015
di Matteo Della Bordella
(pubblicato su clubalpinoaccademico.it il 7 marzo 2016)
Questa nostra avventura inizia il 16 agosto 2015, quando arriviamo a Delhi e pochi giorni più tardi, il 21 agosto, raggiungiamo il nostro campo base, chiamato Nandanban a circa 4400 metri, luogo idilliaco immerso nel verde dei prati, tra ruscelli di acqua chiarissima e con una stupenda visuale su Kedarnath 6940 m e Shivling 6543 m.
Ci avevano detto che quest’anno il monsone era debole, e infatti il tempo è fin da subito abbastanza buono, e le montagne sono in condizioni piuttosto secche: i primi due giorni la coda del monsone ci porta ancora umidità, nebbia e pioggia pomeridiana, poi il tempo si fa man mano più bello e caldo.
Iniziamo fin da subito a trasportare il materiale al
nostro campo base avanzato, posto a una quota di circa 5000 metri, proprio nel
mezzo di questa gigantesca “conca” formata dai Bhāgīrathī.
Il nostro obiettivo è quello di aprire una via nuova, in arrampicata libera,
sulla ancora inviolata parete ovest del Bhāgīrathī IV 6193 m.
Guardando il gruppo dei Bhāgīrathī, a mio parete la montagna più bella ed
accattivante è il Bhāgīrathī III, con il suo caratteristico, misterioso e tetro
anfiteatro, sbarrato in cima dalla fascia nera di scisto.
Il Bhāgīrathī IV si trova in secondo piano rispetto al III e a prima vista
sembra più piccolo e più “addomesticabile”, anche se nonostante numerosi
tentativi, nessuno è ancora riuscito a salirlo (dalla parete ovest)!
Tuttavia, per qualche strano effetto ottico l’apparenza non rispecchia la
realtà…
Il 26 di agosto io e Luca ci avviciniamo alla nostra
parete per la prima volta, con lo scopo di portare la portaledge e altro
materiale fino alla base e studiare la linea che intenderemo attaccare; Giga soffre di forte mal di gola e
febbre e ci attende al campo base.
Di mano in mano che risaliamo faticosamente lo zoccolo che porta verso la
parete, ci accorgiamo che questo muro è in realtà molto più ripido di quanto ci
aspettassimo, pensiamo sarà molto molto dura salire dalla linea che avevamo
immaginato a tavolino in centro alla parete. Dopo i primi 200 metri verticali o
leggermente appoggiati, l’inclinazione della parete cambia drasticamente e
tutto diventa strapiombante per circa 500 metri fino alla fascia finale di
scisto al di sotto della cima.
Tra tutte le pareti che ho visto in vita mia, mi torna subito alla mente
l’immagine della mitica parete di El Capitan. Queste due pareti sono così
simili, forse la cosa che le rende più simili è lo spigolo, che sporge verso
l’esterno proprio come il famigerato “Nose” del Capitan e divide la parete in
due lati.
Ma ci saranno anche qui le fessure che ci sono sul Capitan??
L’unico modo per saperlo è provare a salire.
Dopo essere ridiscesi al campo base e aver riposato
per bene, siamo pronti per il primo vero tentativo; nel frattempo anche Giga è guarito e sarà dei nostri.
Abbiamo raggiunto il campo base da meno di dieci giorni e il nostro stato di
acclimatamento non è ancora ottimale; tuttavia siamo alla base della nostra
linea dei sogni e proprio Giga apre
le danze.
Dopo un primo tiro di riscaldamento, la fessura nel diedro scompare e subito le
difficoltà si alzano.
Non senza fatica ci dirigiamo verso sinistra e nel primo pomeriggio riusciamo a
vedere bene la parte centrale della via.
I presagi non sono per niente buoni: per accedere al grande diedro, c’è una
sezione leggermente strapiombante di una cinquantina di metri, senza nessuna
struttura evidente, solo qualche lama staccata qua e là in mezzo alla parete
liscia. E inoltre con l’arrivo del sole la temperatura si sta alzando e diverse
pietre stanno iniziando a cadere un po’ dappertutto, anche intorno a noi.
Sapevamo che questa era una parete esposta alle scariche e che questo
apparentemente è stato il motivo che ha fatto fallire molti dei tentativi
precedenti, ed eravamo pronti ad accettare questo rischio, tuttavia quando ti
trovi in mezzo, beh, non è mai proprio piacevole! Anche se i sassi cadevano
solo sulla prima parte di parete perché più in alto, grazie alla sua natura
strapiombante, il grande diedro restava riparato.
Tuttavia, capiamo che questa linea è troppo difficile
per il nostro stile di salita. L’idea è sempre stata quella di scalare in
libera e non siamo attrezzati (e nemmeno capaci) per fare artificiale difficile
e scalare in libera su quel terreno è al di sopra delle nostre capacità. Il
nostro obiettivo era anche quello di non piazzare spit, sebbene ne avessimo con
noi una decina in caso di emergenza.
La sera stessa attrezziamo le doppie e scendiamo, sotto una rada pioggia di
sassi, per lo più di piccole dimensioni, che cadono dalla cima, terminiamo la
discesa a notte fonda, stanchi, ma illesi e sempre più acclimatati.
E ora che si fa?!?
Chi mi conosce e ci conosce, sa che non siamo i tipi che abbandonano così facilmente…
Il nostro ragionamento è il seguente: “dato che la linea che avevamo pensato di salire si è rivelata troppo strapiombante e liscia per essere scalata in libera, se proviamo a salire più a destra, dove la parete sembra più appoggiata, dovremmo trovare quello che stavamo cercando: un terreno sempre difficile, ma salibile”.
Una manciata di giorni dopo, siamo di nuovo pronti per
un altro tentativo, partiamo 50 metri più in basso e più a destra della volta
prima. Purtroppo per questo tentativo, su tre settimane di tempo stabile e
bello, riusciamo a beccare l’unico giorno di tempo pessimo. La temperatura fin
dal mattino è particolarmente rigida, ma pensiamo che col tempo possa
migliorare; dopo il primo tiro però inizia ad alzarsi un forte vento, dopo il
secondo tiro il cielo si copre e alla fine del terzo tiro inizia a nevicare!
Non sapendo come potrebbe essere il tempo nei giorni successivi pensiamo che
non ha molto senso mettersi a bivaccare in portaledge dopo nemmeno 100 metri e
quindi decidiamo di scendere per ritentare in seguito.
Una volta tornati al campo base il tempo è perfetto e questa volta, nonostante ci fosse stato espressamente vietato, decidiamo di usare di nascosto il nostro telefono satellitare per chiedere al fido Deza le previsioni del tempo. Le notizie sono ottime: alta pressione con tempo bello, stabile e caldo (relativamente caldo…) per almeno cinque giorni.
Dopo solo un giorno di riposo partiamo ancora per quello che pensiamo possa essere l’assalto decisivo.
Il 12 settembre iniziamo a scalare e questa volta i presagi sembrano essere ottimi. Luca scala da primo per tutta la prima giornata, fino al nevaio prima della seconda parte di parete. La sua progressione è liscia ed efficace, nonostante ancora una volta ci sembra di scalare in un freezer. Quando arriva il sole anche le difficoltà si alzano e un difficile tiro di placca, nel perfetto stile #lucaschiera ci porta all’inizio del nevaio.
Decidiamo di montare la portaledge al termine superiore del nevaio, contro la parete per evitare le scariche di sassi, che nel frattempo sono cominciate a cadere.
Ci svegliamo con le prime luci e dopo aver impacchettato
tutto è il mio turno ad andare da primo. La temperature è ben al di sotto dello
zero e sono piuttosto intimorito all’idea di scalare con questo freddo. Infatti
dopo circa un paio di metri, piedi e mani sono già insensibili, la circolazione
dei piedi è completamente bloccata nonostante le scarpette relativamente larghe
e i calzettoni.
Per lo meno la scalata è decisamente nel mio stile: un diedro fessurato, da
salire per lo più con incastri e spaccate, è un tipo di arrampicata che so di
poter fare anche con roccia bagnata o mani e piedi insensibili. Tuttavia quella
che con temperature accettabili sarebbe stata una divertente scalata ora si
trasforma in dolore e sofferenza, ma pian piano riesco a procedere in bello
stile a un buon ritmo nonostante siamo ormai intorno ai 5700-5800 metri.
Il diedro si fa sempre più ripido e la scalata si
mantiene su difficoltà costanti. A un certo punto abbiamo una grande decisione
da prendere: possiamo scegliere di continuare a salire dritti nel diedro e
arrivare quindi nel punto in cui lo scisto è più lungo, ma apparentemente rotto
e facile, oppure prendere un ripido sistema di fessure e diedri che taglia
tutta la parete verso sinistra e che porta dove la sezione di scisto ci sembra
molto breve, anche se ripida.
Pensando che se andassimo a sinistra un’eventuale ritirata sarebbe molto
difficile per via della portaledge e dei sacchi pesanti, decidiamo di
proseguire dritti, come prevedeva il nostro piano originario.
Purtroppo nell’ultima parte del diedro, il ghiaccio e la fatica mi obbligano ad abbandonare il sogno di una completa salita in libera a vista e a ricorrere all’artificiale. Arriviamo prima del tramonto a montare la portaledge, prima della fascia nera di scisto.
Come il sole abbandona la parete, la temperatura
precipita ed è solo infilandoci nella portaledge coperta dal telo che riusciamo
a riposare, certo non si sta proprio comodi quando si è in tre in una portaledge
da due persone, ma ci sia arrangia…
Dovremmo essere circa a 5900 metri, più o meno a 200-250 dalla cima. Tra noi e
la vetta solo la fascia di scisto nera, la grande incognita di questa montagna.
La mattina successiva è ancora più fredda della
precedente, siamo più in alto e più esposti al vento, in pochi secondi le mie
mani sono completamente congelate e fatico a muovere e a fare forza per
smontare i pali della portaledge e impacchettare il resto del materiale; ci
impiegheremo quasi 3 ore per sistemare tutto.
Luca prende il comando, ma questa volta è decisamente troppo freddo per provare
ad arrampicare e dopo qualche tentativo decidiamo di aspettare il sole. Arriva
il sole e proviamo a salire sullo scisto nero marcio, prima verso destra, poi a
sinistra ed infine dritti.
Non c’è modo di andare avanti, la roccia è inconsistente e si sfoglia al tatto
e, sfortunatamente, come sempre su questa parete, tutto è molto più ripido di
quello che pensavamo!
Proviamo e riproviamo e valutiamo ogni possibile maniera di salire:
consideriamo l’opzione di calarci in diagonale nel couloir tra il Bhāgīrathī IV
e il III, ma purtroppo quest’ultimo è troppo a destra perché possiamo
raggiungerlo.
Dopo qualche ora arriviamo alla conclusione che provare a salire su quel
marciume sarebbe davvero troppo rischioso, a 6000 metri su una parete del
genere, in un posto del genere, non si può sbagliare.
La decisione questa volta è dura da prendere e da
digerire. Arrivare così vicini alla fine, dopo aver aperto 700 metri di parete,
in ottimo stile e scalando bene e ritirarsi perché la roccia marcia ci
impedisce di passare è come una beffa, non è facile da accettare.
Solitamente non rinuncio senza prima giocarmi ogni disperata carta che ho in
mano, e se c’è da rischiare non mi tiro indietro, ma questa volta purtroppo è
diverso, è tutto più difficile: il freddo, la fatica e soprattutto la roccia
marcia che rende impossibile proteggersi e si rompe in mano, purtroppo non me
la sento di prendere in mano la situazione e provare a salire comunque e così
dopo una lunga “lotta interiore” mando giù la decisione presa di scendere.
Una volta giunti al campo base e dopo aver analizzato a mente lucida la situazione penso che alla fine la decisione presa è stata saggia. Non ho nulla da rimproverare a me e ai miei compagni: abbiamo scalato bene, in due giorni e mezzo abbiamo fatto molta strada.
E’ un po’ come una partita di calcio in cui giochi bene, tieni in mano la partita, segni un goal e cerchi di amministrare fino alla fine, e poi all’ottantacinquesimo, con un contropiede gli avversari pareggiano e subito dopo, nei minuti di recupero, ti segnano il gol del 2-1. Un po’ tipo quell’Italia- Francia, finale degli Europei del 2000, vi ricordate?
Il bello dell’alpinismo e del nostro modo di fare alpinismo è che c’è sempre la possibilità di fallire.
Nei giorni successivi abbiamo intenzione di fare un
altro tentativo su questa parete, seguendo un’altra possibile linea. Purtroppo
non ne avremo l’occasione.
I giorni successivi e le temperature si abbassano e si mette e a nevicare,
inoltre anche il mio fisico dopo quattro settimane di sforzi con carichi
pesanti, mi chiede di fermarmi, facendomi uscire un fastidioso dolore
all’inguine che non mi permette di camminare in salita.
Il bello di tentare obiettivi difficili è anche che spesso le chance che hai
sono davvero contate.
Non so ancora se questo per noi sarà un addio o un arrivederci, sicuramente questa parete un po’ di amaro in bocca ce l’ha lasciato e la voglia di riuscire per primi a salirla con una bella via in bello stile è molto alta… Senza dubbio ancora una volta è stata una sconfitta della quale conservo un ricordo più bello rispetto a tanti altri successi.
La parete ovest del Bhāgīrathī IV, il successo
di Matteo Della Bordella
(pubblicato su orobie.it il 24 settembre 2019)
3 settembre 2019. Le cose stanno andando per il meglio. Portaledge e saccone sono già alla base della via, e con la salita della via normale al Bhāgīrathī II 6512 m la fase di acclimatamento si può dire conclusa. Ci sentiamo tutti e tre in piena forma ed anche il monsone è finito da pochi giorni, le piogge copiose che ci avevano accompagnato nelle prime due settimane di spedizione ora non sono altro che innocue nebbie, che ci avvolgono nelle ore serali. Fa caldo, troppo caldo e non ci spieghiamo come solo quattro anni prima si potesse schiattare di freddo in questo stesso luogo e nello stesso periodo dell’anno.
Mentre sono assorto nei miei pensieri è Giga ad un certo punto a richiamare la mia attenzione: “Guarda!….Teo Guarda!”. La sua voce è allarmata ed esco dalla tenda in fretta e furia. Giusto in tempo per vedere lo spettacolo che mi lascia senza parole: blocchi grossi come macchine stanno rimbalzando esattamente lungo la linea che avremmo dovuto salire l’indomani. Si spaccano in mille pezzi e poi ancora rotolano verso il basso, coprendo di detriti tutta la parete fino ad arrivare sullo zoccolo e quindi sulla pietraia.
Dieci minuti più tardi, sono ancora a bocca aperta e lo spettacolo si ripete e questa volta anch’io me lo guardo in prima fila. Altre rocce si staccano dalla fascia finale di scisto del Bhāgīrathī IV, rimbalzano e si incanalano proprio sulla nostra via: vedo i detriti percorrere i due diedri, poi le placche e quindi più lentamente lo zoccolo. Nessuno osa fiatare. Non ci sono mezze parole per descrivere l’accaduto: se ci fossimo trovati sulla nostra linea di salita in quel momento saremmo probabilmente morti, schiacciati dalla mole di pietre appena cadute.
Cosa abbiamo fatto dopo aver assistito a uno spettacolo simile? Beh, quello che avrebbe fatto qualunque essere umano: non abbiamo attaccato la via e siamo tornati al campo base con le pive nel sacco e il morale ridotto ai minimi termini.
14 settembre 2019. Sono passati undici giorni dal momento che ha cambiato la nostra spedizione. In mezzo un tentativo fallito su una linea più diretta e riparata, ma forse troppo dura: ci ha respinti una volta giunti alla base di un diedro completamente cieco dopo tre giorni di scalata. Eppure siamo ancora lì nello stesso punto. Luca, Giga ed io al campo avanzato a fissare la Ovest del Bhāgīrathī IV.
Pensare che solo due giorni prima avevamo portato giù tutto il materiale e dichiarato chiusa la nostra spedizione. Ma poi quella notte un’idea forse folle ha iniziato a insinuarsi nella mia mente, si è radicata nel profondo dei miei pensieri e non mi ha fatto dormire, facendomi pensare a ogni singolo dettaglio, a ogni scenario che avremmo potuto affrontare, a cosa ci sarebbe servito e cosa sarebbe stato superfluo. Quando l’ho esposta ai miei compagni non sapevo cosa aspettarmi… mi avrebbero mandato a quel paese o l’avrebbero trovata un’idea geniale?
Ragazzi, un ultimo tentativo in velocità. In giornata e con il minimo indispensabile. Sembra impossibile, ma tanto vale provarci.
Partiamo a mezzanotte dai 5000 metri del nostro campo avanzato. Alle 3, con la luce della frontale e con una decina di gradi sotto lo zero (nel frattempo finalmente le temperature sono scese) è Luca ad attaccare. Dopo sei lunghi tiri arriva il mio turno: la scalata fa schifo, nulla a che vedere con quello che era quattro anni fa. O meglio, sarebbero dei bellissimitiri di fessura verticali e strapiombanti sul 6c/7a, se non fosse che tutto è ricoperto o intasato dalla polvere e dai detriti della frana.
L’unica cosa positiva è che non sento i 5900 metri di quota, mi sembra di essere sul Grand Capucin e non faccio troppa fatica. Dopo dieci tiri ci aspetta un traverso di 60 metri, dove saluto il mio Camalot 2 ultralight, sacrificato per un pendolo che ci fa guadagnare minuti preziosi.
Siamo fuori dalla zona della frana, ora la roccia è pulita. Inizia però la parte marcia, quella da sempre formata da blocchi instabili. Giga segue rapido col saccone pesante. Ancora qualche tiro e cedo il comando a Luca per la ciliegina sulla torta: due tiri sugli strati di scisto friabile che hanno reso famose queste montagne.
Luca riesce a salire il primo con la luce, trovando fortunatamente una vena di granito, il secondo è già al buio. Ora la neve: abbiamo un paio di ramponi in tre, ma poco male. Prendo il comando, mi armo di pazienza e cerco il modo di fare delle soste decenti per i miei compagni che risalgono a jumar.
Alle 23 tocchiamo tutti quanti i 6193 metri della cima. Ci riposiamo per qualche ora nei nostri sacchi-piuma, prima di iniziare la discesa dal versante est.
18
Mi è venuta voglia di andare sul Bhāgīrathī IV, e magari pure sul V.
In nome della montagna “democratica”, dei monti accessibili a tutti, c’è qualche dirigente di club alpino che voglia costruirci una bella ferrata? Magari una ferrata estrema, proprio lungo il tracciato dei Ragni di Lecco.
Proprio come sulle Alpi qualche mente brillante ha fatto a suo tempo sul Corno di Grevo, nel gruppo dell’Adamello, distruggendo una magnifica arrampicata di spigolo che era stata paragonata al Pizzo Badile. La sezione CAI responsabile si è giustificata con queste parole: “Lí sotto c’è un nostro rifugio, poco frequentato. Con la ferrata gli affari miglioreranno”.
È un po’ come se sullo spigolo nord del Pizzo Badile si facesse una ferrata per aumentare il fatturato.
Bravi di sicuro, ma non ho capito la salita in giornata dopo aver tentato da altre parti per tre giorni.
Prima dove tentavano di salire ?
Come mai così veloci alla fine ?
No, Marcello, non saresti contento.
Da giovani si può affrontare il rischio, ma quando si è genitori non si accetta che i propri figli affrontino rischi: gli vogliamo bene piú che a noi stessi.
I rischi erano molto alti. Sinceri complimenti.
Mmmmhh, siamo sicuri che ne valga la pena? Al di là della bella prestazione, in questi casi mi chiedo: sarei contento se uno dei miei figli facesse di queste cose?
Molto bello! Mi ha appassionato!
bella linea e stile pulito, grande assunzione di responsabilità e determinazione nella realizzazione.
Bravi. Coraggiosi. Tenaci.Bella linea e bello stile.I rischi erano molto alti.Sinceri complimenti.