La porta dei segreti
Nell’estate 1896 fu completata la strada che da Nova Levante portava a Vigo di Fassa: contemporaneamente fu inaugurato con gran sfarzo un monumentale albergo, costruito sui Kellnerwiesen nelle vicinanze del Lago di Carezza, al margine della foresta, tra il Rosengarten e il Latemàr. Gli ospiti furono stupiti dall’architettura, dal menù e dalla luce elettrica (ottenuta con un piccolo generatore). Una delle signore invitate, Ilka Künigl-Ehrenburg, scrisse: “Ci si trova nel mezzo di una selva magica, attraverso cui i nani veneziani trascinano le loro monete d’oro o nella quale si crede di vedere gli occhi luccicanti del lupo che protegge il tesoro del Kar. Si tocca la fontana salata, dove giace ancora nascosto l’oro dei minatori, e si viene inseguiti da un fantasma sino alla croce più vicina”. Il Grand Hôtel Karersee si rivelò un ottimo investimento e presto acquisì fama mondiale. A Ferragosto del 1910 fu devastato da un incendio e fu riaperto nel 1912. Dopo la guerra, durante la quale lo stesso albergo era stato trasformato in comando della 90ª imperial-regia divisione di fanteria austro-ungarica, nel 1921 registrò il tutto esaurito: gli italiani avevano permesso quel transito alle vetture a motore che gli austriaci avevano sempre impedito. Proprio le auto, unitamente alle nuove esigenze del turismo invernale, furono la causa del lento decadere dell’hôtel. Ma nel frattempo ci fu una trafila di ospiti che parla da sola: la principessa dell’impero austro-ungarico Elisabeth (detta Sisi e non Sissi, storpiatura nata solo dopo la serie di film con Romy Schneider), che elesse la località ai piedi delle Dolomiti come sua dimora estiva; il leggendario primo ministro britannico Winston Churchill (ufficialmente giunto per dipingere in riva al lago, in realtà indaffarato a scovare e far sparire il suo scottante carteggio con Benito Mussolini); Agatha Christie, la regina del giallo che ambientò nella regione Poirot e i Quattro Grandi.
Negli anni ’60 la società per azioni proprietaria vendette gradualmente i terreni intorno, aprendo alla speculazione: più di 260 case furono costruite sui prati poco al di sopra dell’hôtel. Questo fu ristrutturato a condominio abitativo (in vendita e in affitto), solo una piccola parte ha funzionato poi come albergo, con piscina, ristorante e campo da golf.
Un giorno, in un tranquillo bosco di larici non lontano dal Passo di Costalunga, alcune pastorelle badavano alle mucche. D’improvviso passò un vecchio che si lamentava d’aver perso il coltello. Le piccole pastorelle, tornando a casa, videro il coltello perduto nell’erba: una di esse, Ménega, corse indietro, raggiunse il vecchio e glielo consegnò. Questi le chiese di formulare un desiderio e la bambina rispose di volere una bambola. “Bene”, disse il vecchio, “domani ti mostrerò parecchie bambole vestite di seta e tu sceglierai la più bella. Ora va, presto sarà scuro e potresti incontrare le cattive streghe.” Ménega si avviò di corsa, ma più in basso trovò una donna che le rivelò che quel vecchio era un veneziano molto ricco, che possedeva non solo bambole vestite di seta, ma anche vestite d’oro, e che certamente l’indomani avrebbe mostrato solo le prime. Quindi esortò Ménega a non accettarle, ma a chiedere le altre con questi versi: “Pope de preda, con strasse de seda, sté lì a vardar, el Latemàr (bambole di pietra, con vesti di seta, state lì a guardar, il Latemàr)”. E la fanciulla, il giorno dopo, si avviò al luogo d’appuntamento: subito sentì uno strepito strano, vide che nella parete del monte si apriva una pesante porta da cui usciva una processione di bambole. Queste si disposero l’una accanto all’altra sopra un lungo crestone. Tutte erano splendidamente vestite con un abito di seta rossa, bianca o gialla. Ma la fanciulla recitò il ritornello: d’improvviso potenti fischi e sibili risuonarono tra le rocce e dalla lontana foresta sottostante giunse un’orrenda risata di scherno. Ecco le bambole irrigidirsi, diventare pietra. Ménega, terrorizzata, fuggì a casa senza neppure voltarsi. Ancora oggi si possono veder brillare al sole del tramonto gli splendidi colori degli abiti di seta delle bambole pietrificate. E proprio quando il tramonto indugia sull’orlo delle rocce, queste sembrano risplendere di luce propria, come se per virtù misteriosa un fuoco chiuso e nascosto ardesse nella pietra, dentro le grandi fortezze senza età, simbolo dell’eterna giovinezza terrestre. Uno strano riflesso, un caldo lume rosato, che i ladini chiamano enrosadira, rievoca la bella saga di Laurino, il re dei nani. Essa racconta ch’egli abitava su quei monti quando erano uno stupendo roseto che tutti ammiravano, una meraviglia da tutti riconosciuta che occorreva difendere però dai conquistatori e dai nemici. Laurino trasformò il roseto in pietra, affinché gli uomini non potessero vedere il suo regno né di giorno né di notte; ma nella fretta di dar vita al suo incantesimo dimenticò il crepuscolo, che non è né giorno né notte. Perciò ancor oggi l’aurora e il tramonto fanno rivivere ai nostri occhi affascinati il prodigioso Giardino delle Rose.
La banda comunale di Moena all’inaugurazione del 1912 (riapertura dopo l’incendio). Foto: www.bandacomunalemoena.it
Il 9 luglio 2014 la titolare dell’hotel, l’imprenditrice di origine bresciana Maria Rosa Prandelli, di 64 anni, è scomparsa nel nulla lasciandosi alle spalle dalle sei alle sette mensilità di stipendi di 15 dipendenti e le due società che gestivano la struttura, la Turiskar srl e il Club Grand Hotel Carezza Srls. “Nel giugno precedente avrebbe dovuto comparire davanti al giudice Carlo Busato, al tribunale di Bolzano, per rispondere del mancato versamento dei contributi previdenziali dopo una sequenza già sospetta di irregolarità a scapito dei suoi dipendenti. Ma non si è fatta vedere: evaporata, con le sorti dell’albergo, gli arretrati di lavoratori lasciati a casa e le tanti ipotesi oggi sul tavolo. Secondo le voci che si rincorrono tra gli habitué dell’hotel (e gli esposti avanzati dai dipendenti in credito), Prandelli sarebbe «in fuga con i soldi» in qualche località straniera, forse Zanzibar. L’ultimo ritrovamento che la riguarda è la sua Nissan Micra, rinvenuta in via Mayer Nusser a Bolzano, a due passi dalla stazione del capoluogo altoatesino. Per il resto nulla (Alberto Magnani, www.ilsole24ore.com, 18 agosto 2015)”. Da allora a oggi, solo nebbia fitta.
È la mia infanzia. Nello sfondo colorato di gite senza pensieri ho vissuto molti sogni, la maggior parte dei quali deve ancora avverarsi: quelli realizzati hanno spesso superato la fantasia. Dalla Val di Fassa spesso facevo puntate massacranti verso la Val d’Ega che in qualche maniera mi affascinava. Per me era “ciò che è dietro la porta”, qualcosa di proibito e misterioso. Andammo per esempio a piedi dal Ciampedìe al Rifugio Vael e da lì raggiungemmo l’aquila di bronzo del monumento a Christomannos e ci affacciammo sulla verde conca verso Bolzano; oppure, in un pomeriggio di calura bestiale e dopo una storica mangiata di spaghetti al Rifugio Vajolet, trascinai mio padre su per la Gola del Gartl fino al Passo Santner, dal quale finalmente vidi e finalmente fui appagato. Anche a mio padre piacque molto il panorama. La salita al Passo Santner dalla Val d’Ega (dal Rifugio Coronelle) era una delle vie ferrate più impegnative per quel tempo. Ricordo bene che, in discesa per le facili ghiaie del Gartl, già avevo spostato la mia porta proibita. Non era più il Passo Santner che volevo raggiungere, ora volevo salire nel cuore dei suoi precipizi, percorrere il sentiero che portava diritto al regno di re Laurino. Due anni dopo feci proprio lì la mia prima arrampicata, con il cuore in gola per il timore di essere da solo, ma con l’immensa felicità di chi sta percorrendo esattamente il suo destino e lo sa. Pochi anni dopo designai il Latemàr come la montagna del cuore: mi affascinava il contrasto tra i deserti lunari del suo versante di Fiemme e l’accozzaglia di pareti grandiose, torri in bilico e orridi canaloni nerastri che, in lotta tra di loro, si accatastano con eleganza perversa a costituire la parete nord. Nella mia fantasia vorrei impadronirmi di tutti i suoi segreti: non m’interessa l’oro dei veneziani e neppure il minerale di vecchie miniere abbandonate. Non mi interessa più diventare il più grande esploratore della parete come volevo un tempo. Ora mi è sufficiente contemplare le bambole pietrificate della leggenda e credere per un momento di essere proprio io il vecchio veneziano.
Il Grand Hotel Carezza nel 1915. Foto: Alice Schalek
Dopo una lunga ricognizione tecnica dovuta alla terribile complessità della situazione immobiliare dello stabile, a giugno 2016 si era indetta una vendita senza incanto, con un prezzo a base d’asta di poco superiore ai 2,2 milioni di euro.
Non è andata a buon fine, visto che il tribunale ha fissato un’ulteriore vendita senza incanto per il giorno 21 dicembre 2016. A luglio la base d’asta complessiva era di 2.217.000 euro, ora siamo a 1.884.450 euro, ossia 332.500 euro in meno. Questo, ovviamente, ipotizzando un soggetto unico, disposto ad acquistare tutto in blocco.
E ora? Ora il segreto del Grand Hotel è lì in attesa, chiuso, sigillato, con un centralinista che ti risponde solo gentili ammissioni di chiusura. Nessuno sa davvero cosa succederà, il caso non è ancora chiuso e il lusso passato non aiuta le indagini. Intorno è il solito frenetico via vai di turisti, d’estate e d’inverno, incuranti dei segreti e della loro porta.
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Mio nonno materno era un membro della banda nella fonti del Grand Hotel carezza. Io, una generazione dopo Salvatore Bragantini e Alessandro Gogna, le stesse paure da bambino prima di fare il Santner, poi 40 anni di scalate sempre più difficili, ma senza più paure, su tante cime, note o sconosciute, del Catinaccio. Qualche volta si partiva anche a piedi da Moena, vedendo d’infilata la Roda, la Torre Finestra e le Cima dei Mugoni, che erano le vere Dolomiti più vicine.. a noi “da Moena”..
Mi ritrovo nelle parole di Alessandro, dato che anch’io, bambino di 5 anni, vidi lì le mie prime montagne. Son quelle, anche per me, le montagne del cuore. Sull’altro versante della val di Fassa, per me il mondo finiva. Dalla casa che abitavamo a Meida guardavo in alto, verso i Monzoni. Non tanto le grandi pareti delle cime Undici e Dodici, quanto quelle montagne, grigie e un po’ informi, che ben al di sopra del rifugio Taramelli, chiudevano la visuale. Per me bambino oltre quella quinta di montagne pareva impossibile andare, erano le Colonne d’Ercole della mia infanzia. Ancora ricordo l’emozione provata quando, dopo qualche anno, le varcai. Ma le più belle montagne erano certo sull’altro versante. E in onore del mitico re, il secondo nome del mio primo figlio è proprio quello. Laurino.
E’ la mia strada. Sono le mie montagne. E in quell’albergo sono passato a prendere il mio più bell’amore. Ma ho pochissima connessione in questi giorni e rimarrà un segreto.