Metadiario – 90 – Cento Nuovi Mattini – 2 (AG 1980-002)
Giunto a quel punto della lavorazione, avevo ormai chiaro il progetto del libro. Lo vedevo crescere ogni giorno e non furono molte, in corso d’opera, le modifiche al programma.
Ricordo che scrissi assai presto la presentazione, di certo nella primavera del 1980. Questo è da tener presente, anche se qui sotto riporto la versione definitiva dell’introduzione.
Introduzione (primavera 1980)
Dedica
Dedico questo libro ai dirupi, risalti, burroni, falesie, canyon, e a tutte le strutture di fondovalle nella speranza che la follia “costruttiva” dell’uomo non perseveri in un’opera di aggressione e distruzione moralmente ed ecologicamente inaccettabile oltre che incurante della futura sicurezza delle stesse abitazioni e degli stessi insediamenti industriali.
Omaggio
L’arrampicata di fondovalle in Italia è giovane. Il primo ad accorgersi delle enormi possibilità delle nostre strutture e quindi il primo a vivere la nuova filosofia dell’alpinismo senza vette fu Gian Piero Motti, nei primi anni ’70. Il suo incontro con Mike Kosterlitz, esponente di quell’alpinismo britannico che da sempre in questo campo era all’avanguardia, fu l’inizio di quella nuova era dell’arrampicata che oggi sembra così naturale e frutto spontaneo della nuova generazione. Nel 1974, Gian Piero Motti pubblicò sulla Rivista della Montagna un articolo dal titolo Il Nuovo Mattino. Analisi dell’Alpinismo Californiano.
Ringraziamento
Ringrazio coloro che appaiono nelle fotografie, ma anche quelli che non figurano solo a causa della selezione fotografica. Sono riconoscente a chi mi ha aiutato in qualunque maniera ed è rimasto nell’ombra. Di questi ho citato i nomi in apertura. Sono pure grato a coloro che non mi hanno aiutato o per pigrizia o perché non credevano in questo lavoro. Grazie a loro sono stato continuamente pungolato a fare del mio meglio perché questo documento si realizzasse a dispetto di ogni difficoltà.

Perché i “nuovi mattini”
Negli anni ’70 l’alpinismo è cresciuto, si è espanso e negli anni ’80 non sarà più un’attività elitaria per pochi pazzi. Già in Europa si è assistito ad una rivalutazione morale dell’alpinismo da parte dei profani, che ora dimostrano maggiore sensibilità ed apertura. Anche in Italia le cose stanno cambiando, il “boom” alpinistico è avvenuto anche da noi. Lo possono confermare l’aumento incredibile delle vendite di articoli sportivi legati alla montagna e il rifiorire delle attività editoriali con argomento la montagna e l’alpinismo. Ciò è consolante, anche se accanto ai lati positivi ci saranno quelli negativi. I primi segni di cambiamento, dovuto all’accresciuto numero di persone, si hanno nella diversificazione delle attività. Tralasciando l’escursionismo tradizionale (anch’esso in pieno “boom”, vedi i trekking e tutte le iniziative di traversate da rifugio a rifugio) ed occupandoci solo di alpinismo, si possono distinguere ormai due nette direzioni. Da una parte sta l’alpinismo classico. Quello dell’alta quota, della neve, del ghiaccio e delle grandi salite su roccia. Dall’altra è nata una nuova forma di movimento, l’arrampicata fine a se stessa, privata dell’ideologia della cima e dell’eroismo, ma non della competizione. Entrambi i rami sono in rapida crescita, sia in qualità che in quantità, però stanno staccandosi sempre più e sempre più si dividono le mentalità che ne sono alla radice.
Personalmente ho vissuto entrambe le correnti e posso dire ancora oggi di non avere preferenze. Però debbo affermare che per vivere entrambe ho dovuto compiere un notevole sforzo di adattamento e duttilità. Gli ambienti umani sono incomparabilmente estranei uno all’altro. Questo è male, occorrerebbe cercare di riunire, di collegare. Un’esperienza unificatrice è quella di cui oggi in Italia c’è maggiormente bisogno. Se da una parte si cerca di camminare il meno possibile per accedere alle pareti, dall’altra si accentuano i dislivelli, si cercano montagne più isolate e grandiose. Se nell’arrampicata si evita il freddo, in alpinismo il freddo e la quota sono elementi essenziali. Anche se oggi si tende a scalare la parete ovest dei Dru con le scarpette, portando nello zaino gli scarponi, questo non basta a collegare caratteri così diversi. Di fondo rimane che in arrampicata il passaggio di settimo grado è la meta, mentre in alpinismo lo stesso passaggio è un ostacolo e va eliminato con l’uso della staffa.
A queste differenze se ne aggiungono altre più esteriori, come l’abbigliamento, il gergo, l’età media, l’allenamento più o meno intenso. Molti alpinisti classici che sfoglieranno questo libro potranno arricciare il naso di fronte a certe immagini “scapigliate”. Questo libro non vuole essere una difesa e neppure un’aggressione. Vuole essere un documento il più possibile esatto e reale di ciò che succede oggi nell’arrampicata pura. Documento che dev’essere inteso come tale, cioè strumento di informazione e di piacere visivo. Non soltanto io autore, ma tutti i ragazzi protagonisti, sappiano che certi passaggi e certe “prodezze” non sarebbero stati possibili in montagna. Ma sappiamo anche che, da quando le strutture rocciose della bassa valle hanno cessato di essere “palestra”, il livello medio di capacità si è notevolmente alzato e non si può ignorare che la grande maggioranza delle vecchie vie classiche è stata ripetuta in arrampicata totalmente libera. In Dolomiti vie come la Brandler-Hasse alla Roda di Vael, la Carlesso alla Torre Trieste e la Comici alla Grande di Lavaredo hanno visto ripetizioni senza l’uso di un solo chiodo di progressione. E lo stesso è successo sul Monte Bianco e sulle Alpi Centrali. Questi sono risultati inoppugnabili e il merito va scritto al fatto che non si va più ad allenarsi, ma si va ad arrampicare.
Questo fondamentale cambio di mentalità ha portato a parlare di tempi nuovi. Da che mondo è mondo ci sono stati “tempi nuovi” e sempre ci saranno. Per questo il mio documento di cronaca e di fotografia può essere intitolato “100 nuovi mattini”: perché ci vogliono cento giorni per salire tutto ciò che ho proposto qui, ma soprattutto devono essere cento giorni “nuovi”, altrimenti si rischia di ottenere il risultato ma di falsarne lo spirito, riproponendo il vecchio sistema dell’allenamento e riportando “in palestra” la mentalità della montagna.

Resta fermo che ognuno è libero di salire, di scalare, di arrampicare come meglio crede. Ciò che è inopportuno è il campanilismo, il settarismo invidioso dei compartimenti stagni e soprattutto l’ignoranza.
Per salire tutti e cento i nuovi mattini, ho dovuto calarmi integralmente nel nuovo mondo, viverne pregi e difetti. Ho sempre preferito alzarmi presto la mattina e invece qui dovevo stare a nuovi canoni, rimettermi alle abitudini degli altri, per esempio. Anche altre trasformazioni ho dovuto compiere, altrimenti il risultato finale non sarebbe stato possibile. Questa è la ragione per la quale il lettore classico troverà poche concessioni all’alpinismo tradizionale, ma è anche, secondo me, la verità del libro senza la pretesa di adattarsi ad uso di molteplici gusti.
Le difficoltà
Tra i più difficili compiti che mi sono assunto, quello di dare una valutazione omogenea delle difficoltà è stato il più duro e più discusso. Per cominciare ho rinunciato a dare una valutazione complessiva di ciascun itinerario. Ho percorso personalmente tutti e 100 gli itinerari e ho sempre fornito i dati salienti, dislivello, sviluppo, difficoltà dei passaggi, numero delle protezioni, ma ho evitato di riassumere, perché lo credo inutile. Per le difficoltà sui passaggi ho seguito i criteri della scala aperta UIAA, tralasciando le scale francesi, l’inglese e l’americana. In questo libro il terzo e quarto grado sono ancora quelli di una volta e a me sembra più onesto non ricorrere all’espediente della compressione dei gradi. E’ importante notare subito che molti passaggi di VI, VII, ecc. sono tali solo se superati esclusivamente in arrampicata libera, cioè senza usare l’ancoraggio come progressione bensì solo per assicurazione. Questo vuol dire evidentemente che lo stesso passaggio è superabile all’occorrenza anche in A0 o con le staffe. Se ciò non fosse possibile, in quanto il tratto di parete non accetta protezioni di sorta, allora ho sempre specificato o nel disegno o nel testo che non si possono mettere chiodi e neppure nut. Do per scontato che dopo l’uscita di questo libro, molti andranno a ripetere queste vie e riusciranno a salire in libera tratti qui riportati in artificiale. Questo mi farà solo piacere quando avverrà, noi non abbiamo certo avuto la pretesa né di essere i migliori né di determinare a priori ciò che è possibile o ciò che è impossibile in arrampicata libera. Io ho riportato fedelmente sui disegni le nostre prestazioni, le nostre interpretazioni di un itinerario.
Perché ri-creazione?
Ed arrivo qui al punto più importante. Specificate le difficoltà, conosciuto il numero delle protezioni in posto, conosciuto il tipo di materiale da portare con sé, note la discesa e tutte le possibilità di sosta, cosa rimane a chi intende ri-petere un itinerario qualsiasi? Nulla, se uno non ci mette del suo. Fare la via con un chiodo in meno non è questo un gran progresso, a pensarci bene. Mentre la filosofia del nuovo mattino può essere creativa se ci si abbandona alla roccia, al sole, all’arrampicata. Appositamente ho voluto specificare al massimo tutto ciò che si può sapere su un itinerario così da non avere più alcun problema tecnico e non avere più alcuna scusante per trovare in noi stessi ciò che cerchiamo sulla roccia. Ecco perché non ho mai parlato di ri-petizione ma solo di ri-creazione. Perché io credo che a suo modo ciascuno ri-crea una sua esperienza personale nel filo della sua esperienza totale di vita. Questa ri-creazione è certo possibile anche in alta montagna e anche in altri campi che nulla hanno a che vedere con l’alpinismo, però è facilmente comprensibile che ogni tipo di creazione è difficilmente compatibile con l’eroismo e con la competizione: e qui in basso, su rocce arrampicabili tutto l’anno, è più facile dimenticare eroismo e meno facile eliminare competizione… Entrambi sono nemici delle creazione e di quel sentire noi stessi in pieno accordo con chi ci circonda e con la natura.
So che ciò che dico è un po’ quello che vorrei che fosse e che non ho nessun diritto di giudicare se si ri-crea, se si ri-pete, ecc. Ma almeno formalmente ho voluto slegarmi il più possibile dai vincoli della tradizione e ancora di più sciogliermi dai nuovi legami e codici dell’arrampicata moderna. Sono sempre gli altri che daranno un senso a ciò che faranno. Questo libro vuole essere un dito puntato, ma non un’esortazione e tanto meno una bibbia.
Una delle mie fisse durante la lavorazione era quella di salire io personalmente tutti i cento itinerari. Qualche volta è successo che avevo già salito una delle vie della quale disponevo di una foto interessante per la pubblicazione (ad esempio, la via Cunicolo acuto). Ma erano di più i casi in cui avevo già salito l’itinerario ma di quello non avevo nulla di bello. Decisi dunque che o avrei ripetuto ancora la via oppure mi sarei limitato a fare qualche lunghezza onde poter fare qualche scatto.

Questo fu esattamente il caso de Il Risveglio di Kundalini alla Parete dei Dinosauri, che il 6 aprile percorsi per sole tre lunghezze prima di scendere. Con me erano Popi, Umberto Villotta e Roberto Silvestri. Anche loro avevano già più volte fatto quella via, dunque vennero con me e riscesero senza protestare. Perché quel giorno dovevamo correre all’appuntamento con Aldino Anghileri per correre a salire la Placca del Viale della Stella, per la via col Vento. Di grande importanza storica, Kundalini è stata la seconda via a essere aperta nella valle. Si sviluppa molto intelligentemente con un’estetica almeno pari al disegno superbo dell’Arco Pietrificato. Il passaggio della Serpe Fuggente è forse uno dei più belli dell’intera valle.
La Placca del Viale della Stella è quanto di meglio si può desiderare per prendere confidenza con l’aderenza della val di Mello. La sicurezza possibile è abbastanza scarsa, ma le difficoltà non sono eccessive: e si avevano le suole di Airlite il divertimento era assicurato.
Con Roberto e con Umberto facemmo squadra fissa per altri due giorni: il 7 aprile sullo Sperone degli Gnomi aprimmo Alien poi, non contenti, salimmo anche Tunnel diagonale.
Alien ha un dislivello di 30 m e uno sviluppo di 45 m. Salii l’evidente fessura giallastra con l’incastro della gamba sinistra, oltrepassai una pianta e continuai in diagonale a destra. La fessura diventava orizzontale e la seguii con le mani a destra fino a uno spigolo. Dopo la sosta proseguii nel camino fessura seguente un po’ in incastro e un po’ in spaccata fino a che potei uscire a sinistra alla sommità della struttura.
Ci rivolgemmo poi allo Sperone Mark, dove salimmo la via Prifis con la variante Guerini ha colpito ancora. Sulla via del ritorno a Milano, l’8 aprile, ci fermammo a Valmadrera e salimmo al Corno Rat per percorrere la via Dell’Oro. L’itinerario è molto bello ma un po’ discontinuo e cosparso di vegetazione. A metà parete c’era una fune metallica che contribuiva a non rendere la via tra le più attraenti: ma in quell’occasione predissi che un giorno da lì si sarebbe passati in libera…
Il 12 aprile mi concessi una breve vacanza sullo Sperone degli Gnomi, sulla via dell’Okone con Nella. Aspettavo i soci per altri itinerari. Questi arrivarono il giorno dopo: assieme a Umberto Villotta c’erano Livio Pelamatti, Vittorio Tamagni e Giacomo Pedersolli. Questi ultimi due erano un acclarato esempio di quanto al mondo si possa essere svagati senza peraltro subirne conseguenze: tanto è vero che l’anno dopo li avrei scelti per i lunghi lavori di ristrutturazione di casa mia in via Volta 10, il primo come idraulico e il secondo come muratore ma anche capo-cantiere. In cinque salimmo dunque l’Alba del Nirvana al Tempio dell’Eden.
Dopo la pagina 42 della guida Il gioco-arrampicata in val di Mello, di Ivan Guerini, nella quale l’autore esprimeva quello che erano le sue impressioni sull’Alba del Nirvana, qualunque tentativo di mettere in luce le nostre sensazioni rischia di fallire! Il «pezzo» è magistrale, la lettura dà una cornice perfetta al nucleo centrale e cioè l’idea del Nirvana.
Il giorno dopo, 14 aprile, tornai al Sipario Ocra dei Contrafforti del San Martino, proprio sopra Lecco. Ero con Massimo Casaletti, uno dei compagni di arrampicate di Ivan Guerini, un ragazzo solido e ben plasmato sulle posizioni del suo maestro. Per prima cosa lo portai su Manobong che avevo già salito con Marco Ballerini e così ne facemmo la terza ascensione.
Il Sipario Ocra è un angolo di complicate strutture calcaree facenti parte del contrafforte ovest dei Pizzetti del Monte di S. Martino. Detti Pizzetti 427 m anche allora erano al centro di grossi lavori di consolidamento, sui versanti sud e sud-ovest. Sipario consiste di due speroni che originano un diedro verticale, giallastro solo nella parte centrale. Questo diedro si affaccia sul lago ma non è visibile né da Lecco né dalla strada del lago: solo da un punto di questa il diedro è visibile, ma non ci si poteva fermare, pena il travolgimento da parte di qualche autotreno. Sulla destra di Sipario Ocra è la Torre Striata, anch’essa solcata da un diedro giallastro poco visibile dal basso. I due diedri non sono distanti più di cinquanta metri, sono alti circa 80 metri e sono esposti a ovest.
Forte della mia precedente conoscenza, salii a sinistra di un piccolo strapiombo, poi ritornai a destra su uno spuntone con due vecchi chiodi. Ritornai a sinistra nel fondo del diedro e lo risalii per 40 metri, completamente sul fondo e in spaccata. La prima parte era un po’ friabile (ma se frequentata sarebbe migliorata); nella parte alta usai la mano sinistra a incastro. Sosta 1 sotto il rigonfiamento ocra, su due piccoli appoggi. Da qui la fessura strapiomba ad arco molto elegantemente. Nel centro dell’arco faceva bella mostra un bong. Lo raggiunsi e proseguii, ristabilendomi poi su un appoggio superiore. Proseguii nel diedro, sempre nel fondo fino a uscire su cengia erbosa che seguii qualche metro a destra fino a un buon albero.

La vicinanza incredibile a Lecco, la bellezza dell’itinerario ne facevano una proposta estremamente appetibile. La via era stata ripulita da rovi e sterpaglie, sperando che con la frequentazione non ricrescesse più nulla. Si alterna una magnifica arrampicata in spaccata a un superbo incastro di mano, neppure troppo doloroso. Attenzione ad avere i bong grossi da piantare alla Sosta 1, perché con gli hexentric, anche quelli grandi, non si riesce ad attrezzare una fermata decente. La volta precedente, durante la seconda salita, assieme a Marco Ballerini, Antonio Briciola Peccati e Patrizia Titta Sozzi, a quella sosta successe un’innominabile confusione, conclusasi con un’azzardata discesa a corda doppia degli ultimi due. Eravamo appesi a due chiodi orribili e a due hexentric che non avrebbero tenuto uno strappo verso l’alto. Il passaggio chiave è di un’eleganza rara. Il diedro in seguito continua con una successione di piccoli risalti strapiombanti ma ben appigliati e ben proteggibili. Quando il diedro inopinatamente finisce, dispiace che sia finito e che la bella arrampicata non abbia un seguito su qualche fessura di pari bellezza.
Con Massimo, una volta scesi, ci spostammo alla vicina Torre Striata, per salire il Diedro dei Fessuriani. All’inizio del diedro, il braccio sinistro conficcato nella fessura di sinistra, la mano destra che s’impegna a sostenere un corpo che tenderebbe altrimenti a essere respinto all’indietro, si ha l’impressione di ingaggiare una vera lotta corpo a corpo con la fessura e con la roccia, in un abbraccio che non lascia respiro. Il nome Fessuriani ricorda infatti i gladiatori. E in questa arena di giochi senza spettatori si consuma un rito che assume i caratteri di lotta aspra: ogni centimetro quadrato di pelle, arti, gomiti è ingaggiato per migliorare quell’attrito che permette di non cadere. Ogni metro costa una fatica fisica come raramente capita, anche se la difficoltà tecnica non è delle peggiori. Ad aggravare la situazione è il fatto che occorre fermarsi a sistemare qualche hexentric, specialmente nei primi metri.
La salita dei Fessuriani era stata compiuta da Marco Marantonio e Ivan Guerini il 5 marzo 1980. Manobong invece è stata salita il 29 febbraio 1980 da Ivan Guerini e Daniele Faetti. Qui è bene fare una considerazione che ben si applicava a questi itinerari. Nonostante nel mondo alpinistico ci fossero in uso almeno 7 scale diverse di graduazione delle difficoltà, e cioè quella UIAA, la francese, l’inglese, l’americana, l’australiana, la sassone, la boema e chissà quante altre, pian piano si stava arrivando ai chiarimenti e alle «traduzioni» delle varie scale in un’altra, con l’uso di tabelle sinottiche. Ciò che invece non era ancora per nulla chiaro, specialmente nell’arrampicata pura a livelli spinti, era il «come» certe performances venivano realizzate. Calate dall’alto con «preparazione» della via, pre-chiodature, «yoyoing», «resting», e vari altri sistemi per «spezzare» la difficoltà totale in tante difficoltà qualitativamente uguali ma inferiori in durata, tentativi ripetuti fino a conoscere a memoria il percorso, ecc. Tutte queste tecniche si oppongono al fascino e alla bellezza di aprire o ripercorrere un itinerario «on sight» cioè «a vista», senza preparazioni, resting e neppure voli. Fessuriani e Manobong sono stati aperti in libera, i chiodi che vi sono infissi sono stati sistemati dal basso senza salire in artificiale. Questo, secondo il mio parere, è un passo avanti. Come a suo tempo si faceva tanta discussione sul sistema alpino e sul sistema himalayano, anche qui si tratta di scegliere tra due metodi di arrampicata, possibilmente vivendoli entrambi senza contrasti, ogni volta con la gioia di aver imparato qualcosa di nuovo nella perenne ricerca di un miglioramento che non sia solo esteriore e misurabile ma che coinvolga anche noi stessi dal più profondo.
Mi sono dilungato nella descrizione e nel racconto di questi due brevi itinerari perché oggi sono del tutto annegati in un mare di altre vie sportive. In pratica è un Requiem. Si faceva già prima fatica a reperirli, oggi potrebbe essere un’impresa disperata…
E venne anche la volta che andai in Lazio, approfittando di qualche mia conferenza. Massimo Marcheggiani era pronto a portarmi nei posti che ben conosceva, ma non era l’unico. Il 19 aprile con Massimo salii la via dello Spigolo della Montagna Spaccata di Gaeta, ma già il giorno dopo eravamo in quattro sulla mitica Helzapoppin (con l’aggiunta di Fabrizio Antonioli e Giorgio Mallucci, che allora tra gli scalatori romani erano il non plus ultra).
La via dello Spigolo è indubbiamente il primo itinerario sul quale porsi alla prima visita a Gaeta. Le difficoltà, mai fortissime e neppure troppo sostenute, favoriscono il contatto e la confidenza. Nella prima e seconda lunghezza l’arrampicata è esterna ed esposta, mentre in seguito il camino è assai protettivo, purché si faccia attenzione a non smuovere sassi inavvertitamente. Nella salita del camino può essere divertente arrampicare con la faccia rivolta verso il mare. È una sensazione assai strana, quel pavimento verde-azzurro e ondeggiante incorniciato da due strette pareti gialle, mentre il corpo ritma l’appoggio su un piede o sull’altro.
Gianni Battimelli aveva scritto che «all’angoscia sottile della prima volta, affacciandosi su quel vuoto, si sostituisce col tempo una progressiva familiarità». Parole che tratteggiano bene una sensazione altrimenti difficilmente esprimibile. La Traversata dei Rondoni, specialmente se compiuta in assoluta arrampicata libera, è una gioia corporea: al salmastro, all’accecante biancore della roccia congiunto ai riflessi del mare, alla sottile brezza s’uniscono i richiami perché le corde non si bagnino e le sensazioni delle dita su una pietra cosparsa di polvere bianca e la luce del sole meridionale. Più in alto i passaggi acrobatici si susseguono ma soprattutto le traversate danno alla via il suo significato di ricerca, di intuito e di voglia che non finisca mai, visto che non si vedono altre possibilità logiche. Il fatto che Hellzapoppin tocchi la via dello Spigolo è pressoché irrilevante per l’estetica. L’itinerario aveva già ricevuto parecchie salite anche da arrampicatori del settentrione e che tutti erano stati concordi nel ritenerla una delle più belle scalate su costa marina. Nel libro raccomandai di non schiodare, perché il salmastro aveva corroso gli anelli dei chiodi piantati anche solo due o tre anni prima: schiodando si sarebbe provocata solo la rottura del chiodo e in fessura sarebbe rimasta un’inutile lama. L’arrampicata è quasi sempre esterna e molto aerea. Rarissimi gli incastri, le dita approfittano solo di cornici esili e orizzontali.
Nella stessa giornata feci provare anche a Nella l’ebbrezza di calarsi fino al mare e poi risalire. Risalimmo la via del Camino, e con noi erano anche Giorgio e Massimo.
Invece di tornare a Roma, il 21 aprile Giorgio preferì stare con noi e portarci al Precipizio del Circeo: con lui salii la via del Tetto, mentre Nella rimaneva di guardia al pullmino.
Era un mattino grigio e tempestoso, mentre il mare al di là della folta macchia mediterranea schiumava trecento metri più in basso. Alla Sosta 2, appeso ai chiodi, guardavo tra le mie gambe divaricate il mare che a onde regolari e increspate s’infrangeva sugli scogli. Sembrava d’essere e perpendicolo sull’acqua e la geometria della parete perdeva la sua realtà per acquistarne una meno evidente.
Ancora nello stesso giorno ci trasferimmo a Monte Leano. Decidemmo di salire la via del Povero Elia. È la via più lunga di Monte Leano e di certo tra le più belle. Offre un’arrampicata piacevole, mai molto sostenuta, con buoni punti di sosta. Bel panorama sull’Agro Pontino e sul mare, ottima esposizione al sole e alla brezza. Il suo interesse però risiede soprattutto nella qualità e nella bellezza della roccia, davvero entusiasmante. Il percorso sale alla cima come su un castello di carte, gradino dopo gradino e dappertutto è la rasserenante certezza di poter scendere o interrompere non appena lo si desideri. Scendendo a piedi, non mancammo di salire il fantastico e unico tiro della via Dory.
Il 22 aprile tornammo alla Montagna Spaccata di Gaeta, questa volta per la via dei Desideri. La scegliemmo perché questa, contrariamente alle altre, sale una parete visibile e quindi fotografabile dalla sommità del promontorio accanto. Anche qui, comune a tutte le vie di Gaeta, è l’inusuale senso del vuoto dato dalla superficie mobile del mare. Superato il primo momento, l’arrampicata si rivela senza troppi confronti e il paragone con le Calanques è sostenuto facilmente.

Il 23 aprile, reincontrato Fabrizio, tornammo a Monte Leano, questa volta alla via degli Ingegneri, un itinerario assai breve ma molto elegante e su roccia solidissima. L’arrampicata è sempre esterna, cioè in spaccata, piccole prese, qualche placca finale. L’esposizione non era molto sensibile (si sale in diedro), perciò si poteva fare egregiamente su quell’itinerario l’esperimento di arrampicare totalmente in libera, eliminando sia l’artificiale che l’AO. Occorreva vincere per le prime volte la tentazione di attaccarsi al chiodo: così vicino e invitante da far dire, a Fabrizio, «ma come si fa a resistere…». In ogni caso, se si era così evoluti da non patire confronti, la soddisfazione era assicurata sia nel primo caso che nel secondo. Nel tentare la libera mi era d’aiuto ripetermi mentalmente che i chiodi erano degni di fiducia, come pure le corde e l’assicurazione del compagno e infine consolarsi al pensiero che un voletto di un metro non ha mai fatto troppo male a nessuno. Ma qui entro in discussioni assai incerte dove ognuno ha certamente la propria idea. Non volevo fare alcuna predica, bensì chiarire che esistevano tutte le possibilità. A loro dire quel corto passaggio di A0 non era mai stato provato in libera. Fu in quel preciso istante che la filosofia del Nuovo Mattino attecchì nell’ambiente romano: proprio nel momento in cui mi videro sforzarmi (riuscendoci) di passare da primo senza attaccarmi a quei chiodi.

Il 23 aprile con la stessa squadra fu ancora la volta del Precipizio del Circeo, con l’obiettivo della via del Pilastro Zoppo. Quel giorno era tempo bello, dunque Nella non si limitò a fare la guardia ma riuscì anche a prendere del sole. La salita fu stupenda, su roccia grigia eccellente. L’arrampicata non era mai lineare ed evidente: occorreva cercare i punti di minor resistenza collegandoli con piccole traversate e diagonali. I chiodi in posto potevano aiutare, ma a volte potevano portare fuori via. E’ di certo più ricercata di quella della via del Tetto, e con passaggi in arrampicata libera più difficili.

Per meil Precipizio del Monte Circeo era e rimane il più suggestivo centro di arrampicata del Lazio, soprattutto a causa del suo notevole isolamento. Quando si è in parete si è completamente soli, non si vedono né carrozzabili né costruzioni di alcun tipo. In un’epoca di progressiva urbanizzazione un tuffo nella solitudine e nel selvatico della parte occidentale del promontorio è un intervallo da esigere e da rispettare.
Il tour de force laziale ebbe termine il giorno dopo, quando Giorgio mi accompagnò a visitare la vecchia palestra romana del Monte Morra, dove salimmo la via Dado e il Masco.
Il 25 aprile ci trasferimmo in Toscana, dove avevo intenzione di salire una delle belle vie del Monte Procinto. La mattina del 26, con gli amici milanesi Michele Radici e Alberto Bianchi (il Bianchi ingegnere e futura guida alpina, lo dico per un caso di totale omonimia tra i miei amici arrampicatori) ci unimmo ai locals Renato Tommasi e Luca Massei. Furono loro a convincermi a salire la via Gamma. Questa era considerata la più bella del Procinto. I passaggi sono assai vari e la roccia eccellente. Solo arrampicata esterna. Il Procinto ancora oggi è qualcosa di più di una «palestra», anche se molti lo frequentano solo per allenarsi. Per altri infatti è anche il simbolo più pittoresco di un angolo romantico e selvaggio. E ci trovammo così bene al rifugio dell’Alpe della Grotta che decidemmo di fermarci anche il giorno dopo. Nel pomeriggio avemmo il tempo di fare una bella “gita sociale” sulla Traversata dei Bimbi del Procinto. Eravamo in dieci: a quelli del giorno prima (escluso il Tommasi) si erano aggiunti Nella, Michele Radici, André van Lierde, Betty Capecchi, Carlo Malerba e Italo Ferrati. Per la verità arrivammo al rifugio al buio…
Il 27 aprile altra gita sociale, ma questa volta più tecnica, sempre sul Monte Procinto: la classica via Capanna-Ceragioli, con Nella, Ferrati, Bianchi, van Lierde, Malerba e Radici.
Nell’ambito delle vie che potevano aspirare al rango di “nuovi mattini” e che fossero situate nell’Appennino Ligure, avevo scartato le familiari vie della Bajarda, non molto fotogeniche, ma avevo deciso che assolutamente una via su puddinga doveva esserci. Ho voluto inserire il Castello della Pietra non solo perché è di certo una struttura assai particolare, ma anche perché è legato alle mie prime esperienze su roccia, quando ogni più piccola avventura assumeva contorni d’epica. Il conglomerato di cui è composto è una roccia assai strana, apparentemente infida. Sassi arrotondati di ogni dimensione sono tenuti insieme da una pasta cementante: gli appigli e gli appoggi sono costituiti dalle superfici affioranti di questi sassi. Arrampicata delicata quindi, ma non pericolosa.

Il 1° maggio ripetei dunque con Marco Marantonio lo spigolo Avanzini: c’erano solo i soliti fetidi chiodi. Sapevo che a qualcuno non sarebbe piaciuto… Con Marco, quel giorno, salimmo anche il camino Pisoni, una via praticamente speleologica, assai più facile dell’altra.
Il mattino del 2 maggio ci si incontrò casualmente con Gianni Calcagno e Giancarlo Croce nella piazza del bar Centrale di Finalborgo. Chiesi subito a Gianni se avesse avuto voglia di prestarsi a fare da modello su alcune vie di mia scelta. Così, legato con Marco, feci le foto a Gianni sulla via Vaccari alla Rocca degli Uccelli:la parete è un po’ tetra e non ricorda l’ambiente finalese. Poco raccomandabile d’inverno, diventa piacevole con il caldo.
E il giorno dopo lo eternai sulla via Pipino alla Bastionata di Boragni. Il Croce non c’era, dunque fummo costretti ai soliti numeri per fare foto al capocordata Calcagno (il Croce non era). Con Marco andammo avanti sul tiro chiave, poi lui scese in corda doppia recuperando i rinvii e lasciandomi appeso nel punto più favorevole a una bella foto. Quindi si mise ad assicurare Gianni che a quel punto saliva da primo in piena regola.
Tra le altre soddisfazioni, quella via mi riuscì totalmente in libera.
La via Pipino (il cane pelosissimo dei Vaccari) è una superba scalata, effettuabile in completa arrampicata libera con un incastro faticoso e punitivo (tipo «grotta») ma non pericoloso. Gli strapiombi del camino sono estremamente esposti.
Il 4 aprile andai con Marco a Rocca di Perti, su vie davvero poco frequentate: la via Brüsabaracche e la via Avanzini-Rossa. Nulla di indimenticabile. Chiudemmo la giornata assieme ad Alessandro Grillo, salendo la Placca delle Gemme per una nuova variante, la Fessura da Polso.
Nel frattempo avevo preso contatto con gli amici valdostani, occorreva cominciare le grandi manovre anche nella Vallée.
Il 5 maggio salii Topo pazzo ad Arnad, con Guido Azzalea, ma dovemmo aspettare il 7 maggio per poter salire la meta prefissa: il Pilastro Bertone sul Mont de la Saxe.
Quando andai ero prevenuto. Non mi piaceva il posto, la roccia. Poi ho cambiato idea perché la salita merita veramente. L’unica sensazione che mi è rimasta è un inquietante senso di tristezza, come quando si esce da un rifugio in alta montagna, ancora al buio, con la pila frontale e il tempo incerto. Non chiedetemi perché. Con Guido c’erano anche Ermanno Pollet e Vittorio Bigio.
Pochi giorni dopo, l’11 maggio, puntata alla Pietra di Bismantova dove con Antonio Bernard, Pierangelo Gatti e Adamo Gatti salii la via dei Lumaconi. Antonio e io, non contenti, salimmo ancora (con Vittorio Neri e Valerio Burò) il mio vero obiettivo, cioè la via Pincelli-Corradini. Con Vittorio e Valerio chiudemmo in bellezza portando Paola Bonomi e Nella sulla via degli Svizzeri.
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il Libro di Gogna, ha avuto anche il merito, tra gli altri, di dare voce e luce a cime e pareti considerate (ingiustamente) di serie B. Oltre a far conoscere , anche attraverso le foto, i personaggi che queste strutture hanno scoperto.
“Cento Nuovi Mattini” è un documento, una testimonianza su un momento storico oltre che un invito, a chi ancora non l’ aveva capito, che non c’erano solo le grandi vette.
Che poi possa aver portato anche un pò di fama a chi l’ha concepito e scritto, non vedo che ci sia di male visto anche l’impegno messo per portarlo a termine salendo tutti gli itinerari proposti. Cosa che sempre non avviene con il risultato che si parla e si giudica quello che non si conosce.
Se poi non piace lo stile, questo fa parte del gusto personale, e ci sta.
Parlare però di ragioneria, mi sembra troppo. Un trattato di partita doppia lo credo ben diverso sul piano della passionalità e relativa umanità.
Comunque anche io ho un amico che nella sua grande riservatezza di quello che fa, vive e prova emozionalmente in montagna e nell’arrampicata, non racconta nulla della propria attività arrivando anche a negare.
Ancora… sull anonimato presunto. Il mio nome e cognome sono il mio indirizzo mail che il gestore conosce. Con il mio nome di battesimo mi trovo nella mia zona di comfort ,che il sito prevede e consente e sono a mio agio. Non faccio interventi offensivi e non ho interessi da difendere o promuovere. Direi che se non volete parlarmi perché presunto anonimo io sono perfettamente tranquillo . Il mio Ego non mi chiede di più.
Cominetti & c. . Mai giudicato il libro ho espresso opinione sul triste modo di scrivere e sul contenuto fuorviante di questo post e di post simili pubblicati qui.
Non capisco come si possa giudicare un libro senza averlo letto.
«Un lavoro da “ragioniere”, che serve a portare fama a chi l’ha scritto e concepito.»
… … …
Per me qualcuno ha fatto confusione con qualche altro volume. Chessò, i Ferragnez hanno mai scritto libri?
Non mi pare che Alessandro Gogna abbia anche un solo neurone simile a quelli che governano il “pensiero” della Ferragni e del FedEx.
Mi sembra proprio che l’intento dell’opera( Cento nuovi mattini) sia, come dichiarato, un documento di informazione e conoscenza della situazione dell’arrampicata e dell’alpinismo in determinati ambienti di bassa valle negli anni ’80. Non credo proprio che si tratti di un lavoro da ” ragioniere” e che serva(!) a portare fama a chi l’ha scritto e concepito.
Grazie Mario per aver riportato il tuo personale sentire col quale sono in sintonia. La fame di pietra ed il suo respiro, garanti di isolamento e lontananza dal mondo ed anche da se stessi, sono sempre stati la mia personale motivazione nell’andare a cercarla, in tempi diversi.
E tra i motivi per cui mai ho letto cento nuovi mattini e cose simili è esattamente questo che tu descrivi bene: la ragioneria lavorativa alpinistica (farò mio l’aggettivo qualificativo “ragioniere”).
Per me la pietra è questione privata e non pubblica, e quindi meglio senza cognomi, responsabili solo dell’ipertrofismo dell’ego e del cambiamento di prospettiva della pietra stessa: ri-creazione, ri-petizione, ri-esumazione sono solo cognomi, superficie e palcoscenico.
Anch’io sulla via degli Svizzeri alla Pietra di Bismantova ho vissuto una esperienza diciamo così formativa. Era il ’78 o ’79 e partecipavo come allievo al corso di arrampicata della scuola Morari-Moccia di Mantova, era una delle ultime uscite e gli allievi calzavano scarponi a suola Vibram, tipo Gallibier(obbligatori per la scuola!), e alcuni istruttori invece avevano le scarpette EB a suola liscia: stavamo salendo in due allievi con un istruttore la via degli Svizzeri quando alla sosta del secondo tiro comincia a piovere, sconsolato l’istruttore dice che occorre calarsi perchè le sue scarpette sulla roccia di Bismantova bagnata(calcarenite) non avevano nessuna aderenza. Propongo di salire io da capocordata visto che avevo gli scarponi con buona suola Vibram, che avevo già provato sulle Placche Zebrate di Dro(TN). L’ istruttore dapprima contrariato accettò anche perchè l’altro allievo, Guido, col quale avevamo fatto diverse salite indipendentemente dal corso, aveva molta fiducia in me e lo convinse. Salii la via senza esitazioni e superai anche il “passo del francobollo”, un tratto liscio, la suola Vibram aderì bene anche sul bagnato e sotto una pioggerellina primaverile ci trovammo in cima. In breve tornò il sole e l’istruttore, ormai entusiasta, propose di salire la via Oppio, che io un pò “gasato” volli scalare da capocordata. Comunque lo stesso anno comprai anch’io le scarpette EB da un amico che era stato in Verdon e con quelle salii, negli anni successivi tutti i “Sentieri Verticali” di Alessandro Gogna.
In Francia c’era Pichenibule. Invece nel Lazio c’era Picchiami sulle Bolle. Chissà che fine ha fatto?
Per Marcello : confermo che Flaviano compagno di molte avventure oltre le tabelle di conversione dei gradi di difficoltà aveva sempre un elenco delle vie da liberare falesia per falesia che consultava maniacalmente…. Ancora oggi,nei nostri rendezvous Verdoniti si porta appresso guide piene di note e crocette….che via , quando e, soprattutto, quante volte….Al momento Pichenibule ha 18 crocette….
@ 5, 6 e 7. La montagna è lì, uguale per tutti. Ognuno invece la vive a suo modo.
Mario, scusa il consiglio, prova a leggerlo, forse ti sei perso qualcosa…
Mario, aggiungi un cognome e poi ne parliamo.
Trovo questi resoconti/elenchi di vie di una tristezza infinita. In quegli anni arrampicavo su quelle stesse vie e quegli stessi luoghi ma lo spirito non era quello che traspare qui. Non scattavamo fotografie né si scrivevano resoconti..era la fame di pietra ed il senso di scoperta della miniera d’oro prima, la euforia della difficoltà tecnica e delle protezioni veloci poi. Qui non c’è nulla di tutto questo, c’è il triste scrivere di un ragioniere alle prese con un lavoro. Non ho mai letto Cento Nuovi Mattini
La Via degli Svizzeri una volta era la piú famosa alla Pietra di Bismantova, assieme alla piú difficile Via Oppio. Purtroppo è vietata da decenni, a causa del pericolo di crolli.
Nel 1971 si presentò al suo attacco una cordata d’eccezione: il vecchio Gino Soldà e il giovane Antonio Bernard. Nel seguito potete leggere l’avventura dalle parole di quest’ultimo.
Antonio Bernard: «Parma, anno 1971. Gino Soldà in persona – si annunciò – sarebbe giunto a Parma per una conferenza al CAI. “Domani devi arrampicare alla Pietra sulla via piú classica, la Via degli Svizzeri“, gli si disse e lui fu ben lieto di non opporre resistenza. […] Cosí alla domenica mattina circa ottanta anni di età, diversamente distribuiti, salivano legati assieme in cordata sulla calcarenite di Bismantova.
[…] Al giorno d’oggi la roccia di Bismantova è ben ripulita dal passaggio, ma non lo era in quegli anni da pionieri. I pochi alpinisti che vi venivano da altre località italiane di solito avvertivano disagio. Fiutavano il tradimento a ogni appiglio. Soffrivano. Anche Gino diceva: “Delicata questa roccia!” oppure “Xe tute tonde le prese!” o anche “Chi ghe vol tre oci”; però correva, volava. […] Terza sosta, in cima al “pilastro”. Un solo chiodo di ancoraggio, che per i palati di allora era già una leccornia. Assicurazione a spalla. Ovviamente – noblesse oblige – parte avanti Gino.
[…] Accadde cosí. Gino alza una mano, afferra un appiglio, poi lo vedo volare in fuori. Mi sorpassa alcuni metri sulla mia destra. Sparisce sotto di me. Una tensione incredibile mi sbalza fuori dal terrazzino. Mi trovo lí con i piedi nel vuoto, il fianco contro la roccia, appeso all’unico chiodo, le mani che sanguinano e stringono forte, i polmoni senza respiro. Qualche costola rotta, due dita fratturate, ma la caduta è bloccata. Però la stretta al petto non mi lascia respirare.
Per fortuna subito dietro di me c’è il “Rosso”. Mi libera dalla stretta. Chiamiamo: “Gino!”. Non risponde. “Non sarà…?” Non finisco la frase. Si sente salire dal basso piú che una parola un verso. “È vivo!”.
Miglioriamo l’ancoraggio e calo il “Rosso” fino a Gino. Lo raggiunge, se lo carica sulle spalle, spalle robuste. Da sopra sento che gli chiede: “Come va?”. “Mi fa male tutto”. “Forza Gino devi farcela!” e poi: “Forza, resta sveglio!”. E Gino che gli risponde : “Non preoccuparti per me, tu pensa a portarmi giú”.
Poco alla volta li calo assieme. Una giunzione di corde e sono alla base. La strada è vicinissima all’attacco. Laggiú c’è già pronta un’autoambulanza.
[…] Arrivati all’ospedale di Castelnuovo Monti sappiamo che Gino è in Rianimazione. Che ha avuto un collasso. Che i medici temono per la sua vita» (vedi Gino Soldà. Dalle Piccole Dolomiti al K2, di Tommaso Magalotti, Nuovi Sentieri Editore, 2011).
… … …
Soldà riportò fratture alle costole e a un braccio, oltre a una parziale fuoriuscita intestinale dal retto e altri traumi minori. La guarigione fu lunga, ma un anno dopo riuscí a partecipare a una gara di sci a Madonna di Campiglio riservata a guide alpine ed ex olimpionici, tra cui Zeno Colò. Si piazzò al terzo posto.
evidentemente era come tenerci un santino….ahahahaha
“Nel portafogli, invece della foto della fidanzata, ha una tabella di conversione delle difficoltà in arrampicata. È proprio un tipo strano.”
Ornella Calza che parla di Flaviano Bessone. Locanda del Rio, Feglino, 1982.
Di tutti questi luoghi ho frequentato solo la Pietra di Bismantova…
La via dei Lumaconi (che prosegue come “Zuffa-Ruggiero” fino alla sommità) è una via di 5- molto bella e affascinante, una delle più conosciute della Pietra. La via degli svizzeri facilotta e se ricordo bene (sono passati anni) anche un po’ sporca, non altrettanto bella..
Non ho mai avuto l’onore di provare invece la Pincelli-Corradini, troppo dura per me!!