Nel regno himalayano del Bhutan, incastonato tra India e Cina, dove si tutela l’ambiente perché migliora la qualità della vita delle persone.
La ricerca della felicità
di Stuart Butler
(pubblicato su L’internazionale n. 1337 del 13 dicembre 2019)
“La casa è di mio padre, ma quando lui non c’è me ne occupo io. Adesso è un bel po’ che è andato via”. Mentre parla, Chozam tiene tra le mani fili di cotone e un pezzo sempre più grande di kira (la stoffa usata dalle donne bhutanesi per gli abiti tradizionali) che sta tessendo su un vecchio telaio. Si interrompe per un momento e con la mano indica vagamente verso nord: “Sta meditando in una delle caverne a circa quattro ore da qui, in cima alla montagna”.
Seguendo la sua mano vedo la montagna impennarsi bruscamente dalla valle I del fiume. Aggrappate alla parte più bassa del pendio ci sono poche case di pietra che hanno finestre di legno dipinte con colori brillanti. Dalle travi dei tetti spuntano spighe di mais ingiallite dal sole, e intorno a ogni casa ci sono piccoli campi terrazzati alla bell’e meglio. Dopo l’ultima costruzione torna a dominare la natura, con boschi di rododendri grandi come querce, tra fiori rossi e viola acceso che si mischiano a conifere dal fusto dritto. Dalle chiome pendono festoni di muschio spagnolo simili a milioni di barbe di pescatori aggrovigliate. Dalla valle in su si vedono solo alberi, che pian piano scompaiono tra scarpate brulle e petrose e lontane cime innevate. Sembra un incontaminato panorama himalayano. La signora Chozam guarda le montagne con aria pensierosa. “Non tornerà più. Resterà lì fino alla morte”.

Stretto tra India e Cina, il minuscolo regno himalayano del Bhutan (è grande più o meno come la Svizzera) rappresenta un punto di equilibrio tra le due potenze regionali, a livello politico e sociale. Fino agli anni cinquanta il regno era inaccessibile al mondo esterno ed era uno dei paesi più arretrati del pianeta. L’aspettativa di vita era 33 anni, c’erano solo due medici in tutto il paese e il PIL pro-capite era l’equivalente di appena 46 euro. Non c’erano elettricità e linee telefoniche. Non c’era un servizio postale. Non c’erano strade né automobili. Da allora, però, le cose sono cambiate.
Il fatto che il padre della signora Chozam abbia scelto di rimanere a meditare in una caverna sperduta fino alla morte non deve sorprendere: trascorrere lunghi periodi di meditazione solitaria è una pratica comune in Bhutan. Già prima di arrivare qui avevo conosciuto diverse persone che avevano concluso da poco la meditazione. Ovviamente, non parliamo della classica oretta prima di fare colazione. Da queste parti quasi tutti s’impegnano a passare tre anni, tre mesi, tre settimane e tre giorni (3.333 è considerato un numero di buon auspicio) confinati in una caverna tra i boschi sulle montagne. Per tutto il periodo ogni contatto con il mondo esterno è vietato.
Qualche giorno fa ho conosciuto un monaco che era appena tornato da uno di questi periodi di meditazione. “La cosa che mi ha più colpito quando sono rientrato al monastero sono stati i telefoni”, mi ha detto. “Sì, c’erano anche prima che partissi, ma adesso i giovani monaci non fanno altro che guardare il telefono e giocare ai videogiochi!”.
Ma perché la gente va a meditare? E cosa provano i familiari che rimangono a casa? A questa domanda risponde Chozam: “Mio padre ha 62 anni. È stato in una caverna per tre anni, è tornato per qualche mese e poi è ripartito. Ora è via da nove anni. Naturalmente ero triste quando se n’è andato; tutti eravamo tristi. È come essere in lutto. Ma allo stesso tempo siamo orgogliosi. Non sta meditando per se stesso, ma per la felicità e per la pace di tutti gli esseri senzienti. Chi va a meditare lo fa per il bene di tutte le persone e di tutte le creature sulla Terra. È motivo di grande orgoglio per una famiglia quando qualcuno dedica una parte della sua vita a questo scopo. Un giorno andrò a meditare anch’io, ma ancora non è il momento. Qualcuno deve preparare la cena per i bambini!”.

Felicità naturale
Quando il paese ha cominciato ad aprire le sue porte e si è affacciato al resto del mondo chiedendosi come mettersi al passo, ha cercato le risposte nella sua profonda fede buddista. Il risultato è stato una minore attenzione al PIL (che comunque è cresciuto enormemente, così come l’aspettativa di vita e tutti gli altri indicatori di sviluppo) a favore di altre priorità, come la salute e la felicità del paese e di tutte le creature che vivono all’interno dei suoi confini. È come se lo stato avesse seguito le orme del padre di Chozam. La felicità interna lorda (FIL), secondo la definizione ufficiale del governo, rappresenta l’equilibrio tra benessere materiale e mentale. I pilastri del FIL sono quattro: sviluppo socioeconomico equo e sostenibile; buon governo; tutela e promozione della cultura; salvaguardia dell’ambiente.
Mentre in quasi tutti i paesi si tutela l’ambiente perché fornisce gli elementi essenziali della vita (acqua, cibo ed energia), l’obiettivo ufficiale del governo bhutanese è proteggerlo perché “contribuisce all’estetica e ad altri stimoli che possono giovare direttamente alle persone, che godono di colori e luce vivaci, aria incontaminata e silenzio nei suoni della natura”.
Sotto molti aspetti l’etica ambientalista bhutanese è un’evoluzione del principio buddista della sacralità del paesaggio. I buddisti credono che le foreste, i fiumi e le montagne debbano essere lasciati così come li ha creati la natura. Questo senso di inviolabilità dell’ambiente è talmente radicato che le montagne più alte del Bhutan non sono mai state scalate. E mai lo saranno: l’alpinismo (al contrario dell’escursionismo) è stato dichiarato illegale in Bhutan nel 2003 con l’espressa motivazione di preservare la santità delle vette dove dimorano gli dei.
Zero emissioni
Il concetto della sacralità del paesaggio implica che in Bhutan un albero sia più di un semplice albero: è un simbolo di lunga vita, compassione e bellezza. Inutile dire che i bhutanesi amano moltissimo gli alberi. Nel 2015 il paese è riuscito a piantare 5omila nuovi alberi in appena un’ora (battendo un record) e quando nel 2016 è nato il figlio della giovane e adorata coppia reale, lo stato ha celebrato l’evento piantando decine di migliaia di alberi. Ma soprattutto, grazie alla politica del Fil e al rispetto buddista per tutti gli esseri viventi questo è un luogo che dà grande importanza alle sue foreste. Per legge, il paese deve avere almeno il 60 per cento di superficie forestale, per le generazioni future. In questo momento addirittura il 71 per cento del territorio è coperto da foreste (e il restante 29 per cento, lungi dall’essere destinato allo sviluppo urbano o agricolo, si trova in gran parte al di sopra della linea degli alberi ed è costituito da incontaminati paesaggi alpini).
In quanto a tutela ambientale il Bhutan è molto avanti rispetto a gran parte dei paesi asiatici, e non solo. Nel 1999, molto prima che diventasse una moda, fu tra i primi paesi a vietare parzialmente i sacchetti di plastica (oggi li vieta del tutto). Il regno si è dato l’obiettivo di raggiungere il 100 per cento di coltivazioni biologiche entro pochi anni e, soprattutto, è l’unico stato al mondo con un livello negativo di emissioni di CO2 (anche se con la crescita dello sviluppo e della domanda di automobili diventerà sempre più difficile mantenere questo standard; l’obiettivo è restare quanto meno a un livello di emissioni zero).
Entro il 2030 il governo si è impegnato a trasformare il Bhutan in un paese a rifiuti zero. Quasi la metà del territorio è classificata e quindi tutelata come parco nazionale o area di interesse religioso. Questo fa del Bhutan il quarto paese più protetto al mondo. I parchi sono gestiti con grande efficienza e ci sono leggi severissime contro il bracconaggio e il disboscamento.
Nel maggio del 2019 un rapporto dell’Onu ha lanciato l’allarme: nel mondo ci sono un milione di specie animali e vegetali a rischio, e l’ambiente naturale sta regredendo a una velocità senza precedenti. Il motivo? Il bisogno di quantità sempre maggiori di cibo ed energia. Il rapporto spiega che questa tendenza può essere invertita ma che per farlo è necessario un “cambiamento che trasformi” ogni aspetto dell’interazione umana con il mondo naturale. Affinché le cose cambino, suggeriscono gli esperti dell’Onu, il mondo dovrebbe uscire dal “paradigma limitato della crescita economica”, ovvero smettere di usare il pil come misura chiave della ricchezza economica e passare a un sistema che misuri la qualità della vita e gli effetti a lungo termine dell’uomo sull’ambiente. Ci sono molte assonanze con la felicità interna lorda del Bhutan.

La danza delle gru
Un paio di settimane dopo l’incontro con Chozam, parto per un’escursione sulle alture che circondano la magnifica valle Phobjikha, nel Bhutan centrale. Sulla cresta di una collina sventolano fasci colorati di bandierine di preghiera. La mia guida indica un gruppo di alberi sulla collina di fronte. “Tra quegli alberi ci sono delle caverne per la meditazione”, m’informa.
Proprio in quel momento un verso rauco e distinto echeggia nel cielo. Uno stormo di gru dal collo nero vola in circolo, una, due e poi una terza volta prima di atterrare tra le paludi ai piedi del grande monastero di Gangtey. La guida sorride. “Sono tornate le gru”, dice con un certo compiacimento. “Vengono dal Tibet ogni autunno. Fanno sempre tre giri intorno al monastero. Fanno la kora (circumambulazione, una pratica religiosa). La gente sarà contenta. Tra qualche settimana ci sarà un festival per dare il bentornato alle gru nella valle”.
Nel 2016 l’allora primo ministro del Bhutan, Tshering Tobgay, concluse il suo intervento a una conferenza TED (Technology Entertainment Design) lanciando una sfida alla comunità internazionale: “Vi invito ad aiutarmi, a portare il mio sogno oltre i nostri confini a tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro pianeta. Dopotutto, siamo qui per sognare insieme, per lavorare insieme, per combattere i cambiamenti climatici insieme, per proteggere il nostro pianeta insieme. Perché la realtà è che siamo tutti coinvolti, tutti insieme”.
Meditare per il bene di tutte le forme di vita sulla Terra, proteggere il mondo naturale solo per il piacere intrinseco che può darci, organizzare un festival per dare il benvenuto agli uccelli migratori. Mentre le gru si ambientano e cominciano a mangiare, non posso fare a meno di pensare che questo paese ha tanto da insegnare al mondo.
Informazioni pratiche
Documenti
Per andare in Bhutan è necessario rivolgersi a un’agenzia autorizzata dal governo e chiedere il visto turistico, che costa 40 dollari statunitensi. Sul sito del Tourism council of Bhutan c’è un elenco delle agenzie. Il costo del viaggio è fissato dal governo bhutanese: 250 dollari al giorno a persona in alta e media stagione, e 200 dollari in bassa stagione (da dicembre a febbraio) e in quella dei monsoni (da giugno ad agosto).
Arrivare
L’aeroporto internazionale si trova a Paro, che è collegata dalle compagnie aeree bhutanesi Druk Air e Bhutan Airlines con Bangkok, Singapore, Calcutta, New Delhi e Kathmandu. Un volo diretto a/r da Roma a New Delhi parte da 469 euro con Air India. Da New Delhi a Paro costa circa 280 euro.
Clima
Il periodo migliore è da marzo a fine maggio e da ottobre a dicembre.
Leggere
Choden Kunzang, Il viaggio di Tsomo (ObarraO, 2016).
Non tutto è oro quello che luccica….
Non mi piace una società che vieta qualcosa in nome degli dei, anche se è frugale e rispettosa dell’ambiente…comunque auguro tutto il meglio ai bhutanesi.
Anche c’è anche qualcosa che non mi torna: come fanno a sopravvivere senza contatti con l’esterno? Hanno caverne con un sistema di sostentamento automatizzato all’avanguardia oppure c’è un errore nella traduzione?
@6: ah, se mi offri tu il viaggio, partecipo con infinito piacere, non dubitare. Io sto qui a sbattermi 10 ore al g in ufficio (per difendere il fatturato professionale, non per aumentarlo) perché ho i “doveri” del budget familiare da onorare ogni mese. Bollette, tasse universitarie, assicurazioni, pane e latte… altro che viaggi di qui o di là (e neppure giornate infrasettimanali in montagna): sto rinunciando a ogni possibile spesa voluttuaria. Per questo sono molto sensibile ai rischi del quadro economico (vedi articolo covid): i riflessi coinvolgono tutti. Tuttavia non vivo “male”, mi piace lo stile che ho sempre seguito (oculato, parsimonioso, bugianen). Certo che si vive bene in Italia, è l’altra faccia del grigiore della Germania luterana (mia figlia ci ha vissuto per due anni e, andando a trovarla, ho sperimentato di persona): però lassù sentono in modo genuino il dovere verso la collettività. Hanno uno spirito di squadra che è l’esatto opposto del gatto napoletano da te citato. Da mezzo calvinista quale sono, non so cosa preferire, sinceramente.
Per Crovella. Carlo, in fondo non si vive (molto a lungo) poi così male qui nel Paese dei Campanelli. Appena sarà finito il Covid si può sempre fare un viaggetto nel Bhutan da ottobre e dicembre prossimo, come ci suggerisce il promo. Certo 250 dollari al giorno a testa obbligatori non è poco, ma cos’è il denaro di fronte alla felicità e alla purificazione dell’anima dalle brutture della vecchia Europa? In alternativa c’è l’Appenzeller, come suggerito da un altro articolo, ma il gruviera ( o la gruviera? ) della tranquilla Svizzera è meno cool 😎
La misurazione è fuorviante.
Dunque non il quanto ma il come.
Vivere un istante in serenità o nel malessere?
Chi voterebbe la 2?
Io sono da sempre a favore di una minor presenza umana, sia per l’impatto (diretto e indiretto) sull’ambiente sia per i fastidi che ci si dà l’un l’altro. Non mi addentro nuovamente sul meccanismo per accompagnare in futuro la dinamica demografica (un solo figlio d’ora in avanti), ma sono convinto che la specie umana prima o poi si dovrà “convincere” di tale opportunità, oppure scatteranno gravi cataclismi e/o guerre nucleari che ridimensioneranno sensibilmente il numero di individui sul pianeta. Il dilemma qualità/lunghezza della vita è vecchio come il mondo. Se non prendo farfalle, han fatto dire al personaggio di Achille che, a posteriori, avrebbe preferito vivere più a lungo anche se in modo mediocre piuttosto che poco tempo nel pieno della gloria. Chissà: questo resta il mistero più profondo dell’esistenza. Buona giornata a tutti.
La speranza di vita media nel Buthan è di 71 anni. Sarei già morto. Più felice? Nel dubbio mi astengo.
Tutto vero e sicuramente encomiabile. Ricordo che sul finire degli anni ’90 , anche in certi villaggi si trovavano gli internet cafè, quando da noi la maggior parte della popolazione ignorava cosa fosse internet!
Emissioni basse ok, ma zero la vedo dura (forse adesso con il Virus Corona) avendo l’aeropoto e diffondendosi l’uso delle auto, che dubito siano Euro 6.
Non per buttarla sempre sul sovapopolamento ma, per avere un’idea, la densità di popolazione del Bhutan è di 29 abitanti per km2 contro i 200 italiani.
Gli uomini possono fare la realtà che vogliono.
Non, se credono nella delega del volere.