La rivolta che (forse) verrà
di Roberto Pecchioli
(pubblicato da ereticamente.net il 24 febbraio 2019)
Spessore 3, Impegno 3, Disimpegno 3
Warren Buffet, uno degli uomini più facoltosi del mondo, ha ammesso che nell’ultimo trentennio si è combattuta una guerra di classe e l’hanno vinta i ricchi. E’ così, ma Buffet omette di citare altri vincitori, i fiancheggiatori della classe dominante, i gruppi intellettuali accademici, culturali, dell’intrattenimento e dello spettacolo che hanno organizzato la società dei consumi, dei diritti e dei desideri, le sedicenti élite ritratte spietatamente da Christopher Lasch. Al loro seguito, sono vincitrici parziali, strumentali, una serie di minoranze divenute centrali nello schema ideologico e di potere che ci pervade. Dall’altro lato, la trascurabile maggioranza degli esseri umani, per utilizzare una felice espressione di Ennio Flaiano.

Trascurabile e trascurata sino a rendersene conto e diventare la spina nel fianco delle oligarchie, che per osteggiarla e combatterla hanno dovuto gettare la maschera, rivelando profondo disprezzo per i popoli e per la stessa democrazia. Ricordiamo i Peanuts, le celebri strisce a fumetti americane di Charles Schulz, le quali, attraverso le storie di un gruppo di bambini, rappresentano assai bene il sistema di valori, le idiosincrasie, i tic intellettuali del progressismo borghese occidentale. Charlie Brown sbotta: io amo l’umanità! E’ la gente che non sopporto. In un’altra striscia ammette di soffrire di claustrofobia del mondo. Serge Latouche lo definì furore universalistico. In un altro fumetto toccò a Linus, il ragazzino con la coperta, cordone ombelicale eternamente al collo, emettere un’altra imbarazzante sentenza: il mondo si divide in buoni e cattivi. I buoni stabiliscono chi sono i cattivi.
I buoni, costituiti in tribunale permanente con diritto di sentenza inappellabile e immediata esecuzione della pena, sono loro, l’oligarchia, i vincenti, gli hipster, finti, ridicoli anticonformisti della classe ricca, odiatori del popolo. Non possono più celarlo, né aspettarsi di orientarne le idee senza reazioni come nel recente passato. Con toni sprezzanti di fatale irritazione Hillary Clinton scagliò in campagna elettorale contro le classi popolari la spregiativa definizione di “spazzatura”, i poveri di razza bianca. Analogo giudizio era sfuggito al presidente francese François Hollande, che chiamò “sdentati” i suoi oppositori di basso reddito che, guarda un po’, si permettevano di non votare a sinistra. Buon ultimo, il presidente emerito della nostra sgangherata repubblica Giorgio Napolitano, indispettito per l’insuccesso nel referendum del 2016 che segnò l’inizio della parabola discendente di Matteo Renzi, prodotto di laboratorio dell’iperclasse, attaccò la sovranità popolare che da presidente aveva giurato di custodire.

Adesso questa umanità spazzatura invisa alle élite sembra destarsi. Ha riempito i comizi di Donald Trump nella provincia americana, è in prima fila nella rivolta dei gilet gialli francesi repressa con furibonda violenza dalla République della libertà e della fraternità, vota Salvini in Italia, Orban in Ungheria – ma è giustamente contraria alla sua riforma del lavoro – contesta Angela Merkel e l’ordoliberismo a spese dei ceti bassi, attraversa la Spagna ultra progressista con l’auge di Vox a difesa dello Stato nazionale e all’attacco delle follie del politicamente corretto. In Inghilterra ha imposto la Brexit, in Polonia e in altri stati dell’Europa centrale è al governo.
Esiste, finalmente, un ritorno di fiamma di milioni di persone la cui identità è essere persone normali, condividere la civiltà e la tradizione nazionale, etica e spirituale in cui sono nati. Molti neppure sono consapevoli di quell’identità, introiettata e vissuta come si succhia il latte materno. Sanno però che ciò che sono non ha alcun diritto sociale, né vogliono pentirsi o vergognarsi di se stessi. Dicevamo che negli Usa li chiamano “spazzatura bianca”. Pur tra grandi differenze, alcuni tratti accomunano i due lati dell’Atlantico. Il loro auto riconoscimento, come spesso accade, è in negativo. Sono esclusi dalle politiche identitarie condotte a favore di certe minoranze (LGBT, stranieri, gruppi etnici) vengono accusati di ignoranza e violenza. Sono – siamo – un gruppo sociale dai grandi numeri e modesta influenza. Non godiamo del favore degli attivisti dei diritti umani, non si fanno ricerche sociologiche su di noi, siamo disprezzati e serviamo unicamente al momento di pagare il conto: il nostro e quello di troppi altri.

Siamo accusati ogni giorno per lo schiavismo di ieri degli anglosassoni e dei francesi, per il colonialismo dei bisnonni (quello di oggi è nelle mani dei “buoni” del Fondo Monetario, dell’Onu e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio), siamo responsabili per le diseguaglianze contro cui si invoca la “discriminazione positiva”. Fantastica formula, virtuoso ossimoro che giustifica quote obbligate di sussidi, posti di lavoro, funzioni dirigenziali, cariche politiche e altre misure a favore di gruppi definiti “sfavoriti” per sesso, razza, nazionalità, con l’evidente conseguenza di discriminare in negativo e concretamente tutti gli altri, la trascurabile maggioranza.
Tra i collettivi degni di ottenere sussidi, vantaggi sociali, posti di lavoro, esenzioni fiscali, la gente comune non c’è mai. Non è difficile verificare chi paga il biglietto sui mezzi pubblici e chi no, chi subisce le conseguenze di un’infrazione e chi resta immune. Basta partecipare a una coda presso un ufficio burocratico o una struttura sanitaria per rendersi conto che un numero crescente di “sfavoriti” ha diritti negati a troppi altri, la spazzatura della società che però sgobba e mette mano al portafogli per tutti. In più è circondata dal disprezzo, ed è questa evidente disistima delle classi alte e dei loro buffoni di corte intellettuali, giunta allo scherno a far scattare la reazione.

Si preoccupano delle derive razziste e xenofobe di alcuni e non hanno torto, ma non pensano mai, loro, i razionali, i riflessivi, di averle provocate con i comportamenti quotidiani e più ancora di utilizzarle, anzi invocarle come pretesto per eludere il dibattito, chiudere la bocca a ogni dissidenza. I totem del tempo, zeitgeist dell’Occidente terminale, sono il razzismo (male assoluto esteso a qualsiasi distinzione, ribattezzata discriminazione) e un’uguaglianza occhiuta e francamente ridicola, silenziosa sulla disparità più clamorosa, quella di reddito e risorse schizzata alle stelle a vantaggio della classe di Warren Buffet.
Assomigliano, le classi alte e gli intellettuali semicolti, al Conte Zio di manzoniana memoria: troncare, sopire. Ci accusano di tutto: non capiamo come funziona il mondo, quanto siano complesse le cose e quanto siamo fortunati di vivere la globalizzazione. Semplifichiamo troppo, concludono stizziti, ma fingono di non vedere la precarietà esistenziale e professionale, il rinchiudersi degli orizzonti di vita. Ci incolpano di avere paura – tutte le nostre miserabili idee sarebbero frutto di paura – ma non fanno nulla contro il timore di perdere quel che abbiamo e smarrire ciò che siamo.

Poco importa all’oligarchia se è necessario fare due o tre lavori instabili per guadagnarsi un reddito degno, lo stesso che avevamo 20 anni fa con un’occupazione stabile. Meno ancora interessa che non ci si sposi per mancanza di reddito o, se si fa il grande passo, si debba obbligatoriamente lavorare in due per mantenere un unico figlio e sperare di ottenere un mutuo. Sono perfettamente indifferenti alle ore di trasferimenti per raggiungere, dalle periferie dove ci hanno confinati, i luoghi di lavoro. Colpa nostra, la reazione alla rivolta dei gilè gialli ne è una prova. Nel frattempo dobbiamo condividere, noi, tanti poco felici, la metropolitana, il bus e il treno pendolare con altri precarizzati che non possono entrare nel centro delle città con le loro “obsolete” automobili e non hanno i soldi per cambiarle con quelle à la page, più “ecologiche”. Utilizziamo per necessità servizi pubblici, ma vediamo come gran parte delle nostre tasse è dedicata a sovvenzionare gruppi o comunità di cui non facciamo parte. Poi ci accusano di chiusura identitaria se ci lamentiamo di quelle che ci appaiono iniquità.
Il combustibile dello scontento è la proletarizzazione della classe media che ha tanto faticato per migliorare la sua condizione, l’impossibilità di vivere nei centri delle città, lasciate ai turisti e ai ricchi nelle zone pregiate, mentre i quartieri più vecchi sono occupati da mascalzoni di ogni nazionalità. Intanto si spopolano le aree interne e quelle in cui vengono meno i servizi privatizzati. L’economia “uberizzata” delle piattaforme informatiche straniere ci invade e il vecchio proletariato precipita alle soglie della povertà, ma non abbastanza da essere raggiunto da quel che resta del welfare, destinato agli ultimi arrivati e agli ex emarginati. In compenso, grava sulle spalle del “popolo basso”, della ex classe media, della piccola e media impresa e di crescenti settori delle professioni, il peso di una spesa pubblica burocratica, ingiusta, asfissiante, para-mafiosa che pretende molto e non restituisce nulla.
Negli Usa, Amazon, l’impresa commerciale più grande del mondo, il cui proprietario, Jeff Bezos, è il più ricco del pianeta, non pagherà quest’anno un dollaro di tasse. Merito delle nuove leggi fiscali, ma soprattutto del vergognoso sistema di abbattimenti, deduzioni e caroselli aziendali che intossica i sistemi tributari dell’occidente. L’alternativa, dicono, sono i paradisi fiscali, ovvero gli inferni ove si ricicla il denaro provento dalle attività più indicibili. In Europa, i giganti tecnologici pagano meno di una piccola impresa. Un impiegato con reddito netto di duemila euro – un privilegiato – versa novecento euro mensili al fisco statale e locale, oltre ad altre centinaia per la chimerica pensione e l’assistenza sanitaria.

Pure, non siamo ancora spariti. Ci hanno respinti in una immensa periferia esistenziale, dalla quale dobbiamo ripartire per tornare in centro, riconquistare quel che è nostro. Siamo sopravvissuti al fuoco del disprezzo, del ridicolo con cui siamo trattati. Siamo l’unico gruppo etnico, noi spazzatura bianca, a cui non è permesso avere una storia. L’Europa è piena di gente che si sente esclusa nella sua terra, dimenticata nella narrazione collettiva dominante, invisibile benché maggioranza, ridotta al silenzio, all’impotenza politica e alla nullità culturale a colpi di accuse di razzismo, xenofobia, discriminazioni e delitti veri e presunti del trapassato da espiare come colpa collettiva e personale.
Da vittime, ci hanno trasformato in carnefici con obbligo di solidarizzare con chi ci disprezza. Sindrome di Stoccolma come salvezza: uscire da noi stessi, alienazione più estraneazione. Incredibile è anche la schizofrenia del libertarismo postmoderno: drogarsi è lecito, proibire non si può, ma i fumatori di sigarette vivono in un apartheid ostile. Il moralismo spurio permette ogni sconcezza nell’ambito sessuale, assolve qualsiasi oscenità, ma porta dodicimila abitanti della liberale, tollerante, colta New York, capitale del Paradiso invertito, a chiedere al Metropolitan Museum di ritirare un famoso dipinto di Balthus (Balthasar Kłossowski de Rola), Thèrése che sogna, perché osceno e cripticamente pedofilo. Nessuno chiede di nascondere l’incomprensibile pseudo arte astratta o di nascondere la pubblicità sessualizzata di migliaia di prodotti.

La sindrome di Stoccolma deve essere sepolta insieme alla minorità culturale che ci attribuiscono senza possibilità di replica. C’è una speranza, forse stiamo tornando, con la bandiera della nazione, della tradizione e dell’identità, alleate della giustizia sociale e distributiva. Intanto, dobbiamo costringere il potere politico a recuperare dignità, non rimanere inerme dinanzi all’economia dei colossi tecnologici, delle piattaforme di falsa disintermediazione dei servizi, Deliveroo, Uber, Airbnb e simili, nonché della finanza di carta, l’imbroglio massimo. Non basta, bisogna rivendicare la legittimità delle culture popolari ridicolizzate dalle sedicenti élites. Circa vent’anni fa, usciva negli Usa Redneck Manifesto, il libro manifesto dei “colli rossi” di Jim Goad, che rappresentava le ragioni e la rabbia degli esclusi del classismo delle oligarchie e accusava la sinistra politica di mantenere un discorso che escludeva i ceti popolari e operai bianchi.
L’arma più potente del nemico è il nostro disarmo morale. Agli albori della crisi dell’Impero romano, Giovenale scriveva che due sole cose ansiosamente il popolo desidera: il pane e i giochi. Panem et circenses. Più intenso è il desiderio (la nostra è l’era dei desideri) nelle epoche di crisi; lo comprese Blaise Pascal dal rifugio di Port Royal. L’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento (divertissement), e intanto questa è la maggiore delle nostre miserie (Pensieri, 171). Il sistema è specialista nell’organizzare la fuga di fronte ai problemi, ed è il più grande dei pericoli di un’azione eticamente orientata. Il rischio è quello di offrire risposte vecchie o escogitare scorciatoie valide solo per minoranze dotate di senso morale.

Le risposte anacronistiche sono il comodo rifugio in un neo collettivismo mortuario, ma va condannato il ricorrente istinto di chi finisce per servire, convinto di opporsi alla cosiddetta sinistra, l’unico a priori del liberismo, la concentrazione di mezzi, denaro e potere in poche mani private. Il sistema dell’accumulazione non vuole e non tollera alcun limite, morale, territoriale, religioso, culturale. Il liberismo è una spaventosa tabula rasa. Da questo deve partire la rivolta, o verrà divorata dal ventre immenso del Leviatano globale. Comunità più dimensione pubblica più socialità significa popolo in cammino. Il resto è la vittoria nemica, lo spettacolo che deve continuare, tra frizzi, lazzi, nani, ballerine e tanto sangue, il nostro. Business, as usual: affari, come sempre.
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Fincchè ci sarà sfruttamento dell’uomo sull’uomo non ci sarà una nuova umanità!queste ricette lette qui, che sembrano la novità, sono il primo passo per nuove catastrofi (ancora più di quelle in corso) umanitarie!
….il patrittismo è l’ultimo rifugio delle canaglie…
Giacomo, si potrebbe prendere spunto dall’Uruguay e da quello che ha fatto Mujica.
Si potrebbe dire Alberto che “io sono i miei soldi”, “io sono il mio potere”. Direi che sì, viene confuso il soggetto con l’oggetto, cioè il soggetto si identifica nell’oggetto.
Credo che di fondo le persone ricche e potenti siano delle persone con una grande paura.
Tutti abbiamo paura di qualcosa o di tante cose ma la paura più grande penso sia quella di soffrire, almeno per le persone normali, non aventi cioè dei disturbi mentali che le rendono insensibili a tale paura. In fondo anche la paura della morte è la paura di soffrire.
Ecco quindi che le persone accumulatrici di beni e potere altro non sono che persone aventi una paura smisurata di soffrire e cercano con l’accumulo di soffrire meno o di ritardare la sofferenza.
Con soldi e potere puoi vivere meglio, in una casa migliore, puoi usufruire dei servizi medici migliori, puoi gustare cibi migliori, puoi patire meno il caldo, il freddo, ecc.. Tutto questo però va a scapito dei rapporti umani perchè tutto viene incentrato su sè stessi, sulla propria esclusiva ricerca di stare meglio e di soffrire meno. Il fatto è che poi alla fine puoi soffrire anche di più perchè magari, anzi molto probabilmente, non hai amici veri, hai un marito o una moglie che guardano solo ai tuoi soldi e al tuo potere, non coltivi empatia, hai tanti nemici.
In un certo senso tutto questo fa parte della contraddizione del vivere. Siamo animali sociali ma esseri individuali, difficile coniugare le due cose. Quando si rompe l’equilibrio e si entra nel patologico emerge tutta la drammaticità di un’esistenza alla quale diventa difficile trovare un significato.
A me pare un piagnisteo di pancia, privo di analisi e soprattutto di proposte. Saro’ certamente tacciato di essere allineato con le elite… Pero’, al di la’ delle accuse agli additati colpevoli, quali sono gli obiettivi della rivolta in concreto? Quale societa’ alternativa si vuole? Si dica cosa si vuole cambiare e come lo si fa.
Il problema è che molti identificato: IO HO (soldi/potere) con IO SONO.
Certo. Purché non si dia poi la responsabilità d’aver imbrattato il vestito a chi annaspa nel fango. Non assumere il sentimento di disagio e puntare tutto sul rischio di violenza, repressione, inquisizione e totalitarismi vari, invece di dedicarsi a qualche misura di mea culpa e progetti adeguati mi sembra sia proprio occuparsi delle macchie sul vestito prima che sia imbrattato.
Quando chi detiene il potere (sempre e solo pochi) si crogiola nel proprio smisurato benessere dimenticando che quest’ultimo è strettamente collegato a quello delle masse, qualcosa deve per forza accadere.
E’ stato sempre così, la storia può proporre tanti esempi al riguardo di cui il più eclatante credo sia stato la Rivoluzione francese.
Ci vorrebbe poco, perchè in fondo le masse non chiedono molto, ma anche questo poco sembra tantissimo per chi ha perso completamente di vista la realtà e vive in un mondo artificioso che tanto non potrà comunque salvarlo dalla morte e non è detto lo salvi pure da eventuali sofferenze che possono colpire chiunque, ricchi e poveri.
Concordo con Paolo quando dice che “il faticoso uso della propria intelligenza e la continua costruzione di una propria cultura dovrebbero essere il vero obiettivo personale e sociale”. l’Essere e non l’Avere dovrebbe essere l’obiettivo primario.
Chissà se prima o poi ci si arriverà, mah..
Io non capisco.
Mi sembra di sentire e di leggere sempre e dappertutto della disinformazione calcolata.
Da anni le masse diventano sempre più ignoranti (anche il QI medio sembra abbassarsi) e l’obiettivo che viene insegnato è il benessere del divertimento, mentre vengono “conditi” con una infarinatura d’erudizione acritica fornita dai farlocchi “guru” della rete mondiale, senza fare fatica per acquisirla: la gente insegue le brezze dei condizionatori, credendo di essere nelle correnti d’alta quota.
Penso che nella società del benessere, ma anche nelle altre, il faticoso uso della propria intelligenza e la continua costruzione di una propria cultura dovrebbero essere il vero obiettivo personale e sociale, penso sia l’unico sistema per cercare di affrontare e magari risolvere i problemi (Buffet, non è un beone che pensa unicamente alla partita, fa a botte, lavora solo per lo stipendio e viene quasi idolatrato anche dai media).
Non capisco perché.
In questo testo, insieme a poche cose condivisibili, si vedono lampi pericolosi.
C’è una speranza, forse stiamo tornando, con la bandiera della nazione, della tradizione e dell’identità
Attenti al nazionalismo, porta al governo chi, dicendo di voler difendere le classi svantaggiate, crea prima conflitti commerciali, poi forse perfino la guerra. Trump negli Usa, la Brexit che all’autore piace…
Non piace invece Buffett perché è troppo ricco (vero), ma almeno vuole che i ricchi come lui paghino imposte sul reddito progressive e le tasse di successione, Trump invece le tasse ai ricchi come lui le taglia di brutto: e questa sarebbe la cura?
Questo fiore è avvelenato, Lorenzo
Ecco il fiore che sboccia nel buio delle ombre della democrazia, del capitalismo finaziario, della globalizzazione, del neoliberismo, della criminalità travestita da imbonitori d’ogni risma, comica o declamatoria che sia.
Ecco il volto deturpato di ciò che era la serenità di un vivere umano.
Ecco il senso amaro del tradimento.
Ecco a cosa ambite sventolando la vostra bandiera del buon senso.