E’ il mercato, nessuno scandalo
(domande a Carlo Alberto Zanella e a Michil Costa)
di Enrico Martinet
(pubblicato su La Stampa dell’8 febbraio 2023)
Montagna ferita, etica tradita da ostriche e champagne, oppure risposta di mercato? Insulto e business? Forse è il vento del nostro tempo. Ma il CAI non ci sta, punta l’indice contro quei rifugi che non lo sono più. Sono oltre ai 2.000 metri in Alto Adige (ma anche nelle Alpi occidentali) e si sono trasformati: non ospitano più alpinisti, ma turisti in cerca di emozioni del palato. «Non chiamateli rifugi, non danno da dormire. Definendoli così si creano malintesi con i clienti dei rifugi veri che così pretendono le stesse cose», dice Carlo Alberto Zanella, presidente del CAI dell’Alto Adige. La polemica è servita tra i piatti, anzi tra le proteste di clienti che si lamentano scrivendo ai giornali locali. «Già – dice Zanella – una lettera che ho letto sul giornale on line Alto Adige mi ha indotto a sollevare la questione. Non ho nulla contro questi locali, fanno turismo, ma non sono rifugi».
Accade così che nei rifugi gestiti dal CAI i clienti chiedano piatti da gourmet.
Fabio Targhetta, gestore del rifugio Col Alt, a 2000 metri in Val Badia: «Ostriche e champagne? Giusto o sbagliato che sia, è quanto chiedono i clienti. Moda? Direi, mercato. Non mi pare scandaloso. Il CAI si lamenta, ma potrebbe applicarsi di più per il proprio servizio». È d’accordo sul fatto della denominazione non appropriata di rifugio, ma spiega: «È così dal 1938, anzi, allora si chiamava capanna Col Alto». E l’etica della montagna? Ride: «Ma no, gli impianti di sci portano su 15 mila persone l’ora. Vogliamo dunque ripartire dalle origini? Tutto è cambiato, dagli impianti alle esigenze del turismo. Più che badare allo “scandalo” dì una pasta all’astice, bisognerebbe guardare all’estate quando vengono allestiti parchi di divertimento in alta quota per far viaggiare di più gli impianti».
Zanella aggiunge: «Il mio timore è che nominandosi rifugi abbiano sovvenzioni e agevolazioni fiscali. Bisogna far ordine. I rifugi veri sono quelli che raggiungi a piedi. E a tavola si mangiano i prodotti della nostra montagna. Gli altri sono soprattutto sulle piste di sci e li chiamano rifugi per marketing. Mangiare a lume di candela in un rifugio… Vuoi mettere?».
Targhetta: «No, nessuna agevolazione, ci chiamiamo rifugi ma siamo come i ristoranti nei paesi, mille metri più in basso».
Il presidente del CAI nazionale, Antonio Montani: «Non vogliamo fare i moralisti. Bisogna però tirare una linea che è quella del rapporto tra coperti del ristorante e posti letto. Altrimenti non sono rifugi. In Alto Adige per ristrutturare rifugi si possono avere l’80 per cento di finanziamenti. La denominazione diventa importante, no? Il rifugio vuol dire conservare valori come socializzazione con la condivisione di tavoli e camerate. Molti cosiddetti rifugi invece di essere un punto di tappa sono diventati punti d’arrivo».
Un grande albergatore della Val Badia, Michil Costa di Corvara, fa autocritica: «È colpa nostra per queste mense di lusso. Non è il mercato che chiede, ma noi che offriamo. Ci sono “rifugi” che presentano una carta con duemila etichette di vino. È il “Life style”, non più l’ospitalità classica, fa parte del cinema. La montagna è la domenica della vita, l’uomo in festa separato da quello che c’è fuori dal ristorante. Natura usata per scopo ludico. Bisogna contingentare i flussi turistici e non consumare più il suolo».
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Il CAI sta cercando di dare una direzione sempre più concreta al ‘domani’ dei rifugi: “Questo significherà dover spiegare a molti perché non ci si possa fare la doccia ogni giorno, ma ciò non ci spaventa. Molto più preoccupanti sono quei ‘circhi equestri’ che hanno iniziato a prendere piede e che in montagna non hanno ragion d’essere: il rifugio è bello perché ti rendi conto di quante cose non ti servono nella vita“.
“I rifugi del futuro? Essenziali e sostenibili”
(il CAI verso una nuova “certificazione ambientale”: “No agli sprechi e ai ‘circhi equestri’ in quota”)
di Sara De Pascale
(pubblicato su ildolomiti.it il 9 febbraio 2023)
Guardare al futuro è sinonimo d’innovazione. Farlo, non significa tuttavia escludere la tradizione o tradire l’irrinunciabile anima di strutture che da lungo tempo abitano il mondo (e le sue montagne). A partire da questi presupposti, il Club Alpino Italiano sta cercando di dare una direzione sempre più concreta al ‘domani’ dei rifugi: “La volontà è quella di creare una certificazione ambientale dedicata ai punti d’approdo in quota, guardando all’ambiente“, anticipa Giacomo Benedetti, vicepresidente generale del CAI a Il Dolomiti.
Si parte “dallo smaltimento dei reflui e si arriva al consumo di energia o di acqua, elementi di vitale importanza per consentire a un’attività di proseguire – esordisce Benedetti – Le nostre sono riflessioni partite già da anni, che abbiamo cercato di concretizzare attraverso bandi e finanziamenti ma che ora vorremmo finalmente mettere nero su bianco, elaborando un vero e proprio protocollo con regole e caratteristiche che i rifugi dovrebbero avere“.
“Le certificazioni esistenti sono infatti calibrate principalmente sulle realtà di fondovalle e pianura – fa notare il vicepresidente – In quota, la storia cambia ed è per questo che vorremmo intervenire, elaborando una certificazione ambientale più completa e strutturata. Per certi versi, i rifugi li potremmo definire delle ‘bombe ecologiche’ poiché, anche se non più inquinanti di altre strutture, sono inseriti in contesti molto fragili“, prosegue.
Individuare indicatori ‘reali’ ma soprattutto giusti per strutture che sorgono in quota, che permettano di controllare che “tutto sia come dovrebbe essere ma soprattutto far sì che tutti i rifugi possano divenire luoghi sempre più attenti all’ambiente e virtuosi“. Per farlo, sarà necessario “rimodulare le certificazioni esistenti” senza dimenticare i cambiamenti climatici in atto.
“Ad oggi possiamo dire di essere ben a conoscenza dei problemi che ci sono: gli argomenti di cui parliamo non sono nuovi. La nostra struttura operativa si riunisce periodicamente: ci vorrà del tempo tecnico per mettere su carta i ragionamenti fatti, perfezionandoli – sottolinea ancora – Non è un lavoro da poco, ma voglio pensare che entro quest’autunno saremo riusciti ad abbozzare gran parte del progetto con tanto di ‘range’ dedicati prettamente alle strutture di montagna“.
Il rischio di non intervenire con un progetto ‘ad hoc’ potrebbe essere “anzitutto la chiusura di molti rifugi a causa della carenza di risorse“, avverte Benedetti. Così era accaduto a luglio del 2022 al rifugio Gonella ai piedi del Monte Bianco che, esaurite le fonti di approvvigionamento idrico, aveva dovuto dire ‘addio’ alla stagione estiva: “Vorremmo prevenire piuttosto che ‘curare’ – aggiunge il vicepresidente generale del CAI – Puntiamo a rifugi sempre più autosufficienti e con costumi sempre più bassi. Un traguardo utopico? Forse, ma direi che la direzione che vogliamo prendere è proprio quella“.
Sarà quindi necessario individuare delle soluzioni che consentano di ridurre ad esempio il consumo di acqua, garantendo ai rifugi di tenere aperto quale che siano le condizioni meteorologiche o le temperature. Allo stesso modo sarà necessario “studiare bene la questione dell’approvvigionamento elettrico, da garantire non soltanto con l’utilizzo del fotovoltaico, che comunque rappresenta una valida soluzione“.
Una “visione futuristica”, quella del CAI. Un futuro che abbraccia l’ambiente e la sostenibilità ma che non scorda di tenersi stretta la tradizione: “Essenzialità e sobrietà sono le caratteristiche che una struttura di montagna dovrebbe avere. Il superfluo e le proposte ‘commercialmente’ interessanti pensiamo invece andrebbero lasciate ai luoghi di fondovalle: altrimenti si rischia di rendere ‘tutto’ uguale e, soprattutto, di privare i rifugi alpini della loro componente più preziosa: la loro anima“.
Alle soluzioni ‘green’, nella lista dei ‘punti’ dedicati ai “rifugi del futuro”, secondo il vicepresidente Benedetti sarebbe necessario affiancare anche “la differenziazione fra ristorante o albergo e rifugio, che non devono essere confusi, tantomeno in termini di opportunità – conclude – Ok a cene e spettacoli ma fino a un certo punto, perché il meccanismo dei ‘servizi aggiuntivi’ non soltanto rischia di ‘scippare’ l’anima dei luoghi di montagna ma incide anche in termini di energia consumata, oltre che a livello di inquinamento (ad esempio acustico o luminoso, NdR)”.
“Insomma, la nostra volontà è quella di puntare all’innovazione, abbracciandola per migliorare e permettere ai rifugi di continuare a vivere preservando l’ambiente. Questo, inevitabilmente significherà dover continuare a spiegare ai molti che approdano in quota perché non ci si possa fare la doccia ogni giorno, ma ciò non ci spaventa. Molto più preoccupanti sono invece quei ‘circhi equestri’ che hanno iniziato a prendere piede in alcune zone e che non hanno ragion d’essere in montagna: il rifugio, è bello perché ti rendi conto di quante cose non ti servono nella vita“.
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Con Riccardo Giacomelli, Presidente della Struttura operativa Rifugi e Opere Alpine, e Piero Carlesi, Presidente del Comitato Scientifico Centrale, abbiamo cercato di valutare l’impatto del riscaldamento globale sui rifugi d’alta quota e il valore dei Rifugi-Sentinella nel monitoraggio dei cambiamenti climatici.
L’impatto dei cambiamenti climatici sui rifugi e bivacchi d’alta quota
di Pietro Lacasella
(pubblicato su loscarpone.cai.it il 6 febbraio 2023)
Il terreno si slaccia, si disgrega, si disintegra. Un crescente tepore consente alle rocce e ai detriti di svincolarsi dalla morsa del freddo per assecondare la forza di gravità. Piombano quindi verso il basso, a volte compiendo interminabili voli acrobatici: centinaia e centinaia di metri lungo i fianchi delle montagne, in una corsa che di solito si esaurisce con uno schianto mostruoso.
In alta montagna, i cambiamenti climatici non stanno causando esclusivamente la fusione dei ghiacciai, ma anche quella del permafrost, ovvero di quel terreno che, per almeno due anni consecutivi, rimane a una temperatura inferiore o uguale allo zero. Il riscaldamento globale, com’è facile intuire, sta progressivamente guastando la compattezza di questi terreni, accrescendo il rischio di crolli, di frane e di improvvisi cedimenti, ma anche esponendo le strutture arroccate sui picchi più vulnerabili a una condizione di precarietà.
In molti hanno ancora negli occhi le immagini aeree del bivacco Alberico-Borgna o, meglio, di quel che ne rimaneva dopo il cedimento della terrazza di blocchi su cui era posato il bivacco, nei pressi del Col de la Fourche a 3682 m. In quel bivacco, il 9 luglio del 1961, le cordate guidate da Walter Bonatti e dal francese Pierre Mazeaud si incontrarono e decisero di unirsi per effettuare insieme il tentativo di scalata del Pilone centrale del Freney. Sotto i colpi dei cambiamenti climatici non è quindi scomparsa una semplice struttura, bensì un importante luogo della memoria, nel quale era custodita una delle pagine più celebri e tragiche della storia dell’alpinismo.
Il crollo dell’Alberico-Borgna ha contribuito a richiamare l’attenzione sulle conseguenze che l’innalzamento delle temperature potrebbe provocare sulle strutture installate a quote considerevoli. Tuttavia, come ricorda Riccardo Giacomelli, Presidente della Struttura operativa Rifugi e Opere Alpine del Club Alpino Italiano, bisogna stare attenti a non generalizzare: «Molto dipende dalla posizione della struttura. Tanti rifugi che si trovano sui ghiacciai – spiega Giacomelli – spesso sono installati su roccia o su sistemi di accumulo già consolidati. È quindi scorretto, a mio parere, portare avanti un allarme generale. Tuttavia – prosegue – al momento ci sono delle situazioni sotto monitoraggio. Fra queste c’è anche la capanna Regina Margherita: abbiamo affidato al Politecnico di Milano un’indagine conoscitiva per valutarne la stabilità. Stiamo compiendo queste analisi in via preventiva, a carattere di studio, poiché in alcune giornate stiamo riscontrando delle temperature sopra allo zero nonostante la capanna si trovi a oltre 4500 metri. È giusto però chiarire che la capanna attualmente è molto sicura e, anzi, sarà oggetto di interventi di consolidamento. Ci sono tuttavia altre strutture che presentano dei problemi, in particolare stiamo iniziando a controllare con attenzione i bivacchi perché hanno un sedime molto piccolo e spesso sono collocati in posizioni un po’ più estreme».
Rifugi Sentinella
Rifugi e bivacchi, se da un lato rischiano dunque di cadere vittima dei cambiamenti climatici, dall’altro possono aiutare ad analizzarli. È il caso delle cosiddette sentinelle dell’ambiente, ossia di quei rifugi dotati di centraline meteorologiche finalizzate a misurare temperatura, vento, pressione, umidità e inquinamento. Come ci ha spiegato Piero Carlesi, il nuovo Presidente del Comitato Scientifico Centrale del Club Alpino Italiano, «oggi come oggi è stata montata una sola centralina al rifugio Galassi. È però in programma, nell’ambito di un progetto nato in collaborazione con il CNR, l’istallazione di altre centraline, distribuite lungo tutta la Penisola per monitorare sia le Alpi che gli Appennini: al rifugio Mantova sulla vetta del Vioz, al rifugio Telegrafo sul Monte Baldo, al rifugio Città di Carpi nella zona di Misurina, al rifugio Rossi sulle Alpi Apuane, al rifugio Duca degli Abruzzi sul Gran Sasso e, infine, al rifugio Citelli sulle falde dell’Etna».
Quella della gestione diretta da parte dei soci della sezione CAI proprietaria è in genere una buona scelta, sul tema di fondo. In tal modo i soci non perdono il rifugio che sentono “loro” (come avverrebbe se venisse vanduto a privati), ma lo gestiscono “in economia”, secondo criteri spartani e destinati ad alpinisiti. Sono quelli che io chiamo i rifugi vintage.
sulla base della mia personale esperinza questo modello funziona quasi esclusivamente per sezioni piccole o relativamente piccole, dove il senso di appartenenza alla sezione è molto sentito dai rispettivi associati e che normalmente hanno uno o pochissimi rifugi. Le Sezioni grandi, dove spesso la totalità dei soci non si conosce in modo diretto, e che posseggono 10 o 20 o addirittura 30 rifugi (è il caso del CAI Torino) non rientrerebbero per definizione in tale ipotesi. Non resta che l’opzione operativa del contratto di gerenza ai rifugisti. Lì si “perde” il controllo (dal parte della Sezione proprietaria) circa quello che viene fatto all’atto pratico, sono d’accordissimo, ma non vedo alta ipotesi (se non quella di chiudere alcuni – molti – rifugi, ipotesi che mi vedrebbe abbastanza allineato, ma… bisogna oltrepassare le solite barriere del politically correct).
A scxanso di equivoci voglio sottolineare pubblicamente che esistono moltissimi gestori di rifugi CAI che li gestiscono con la testa sul collo, mantenendo la linea tradizionale pur nel solco dell’innovazione comportamentale richiesta dal mercato. Quindi NON tutti i rifugi (CAI o non CAI) sono luoghi di perdizione. Onore al merito di questo categoria di rifugisti.
….o come il Locatelli, del cai Padova.
Un buon esempio è la gestione del Galassi del cai Mestre, da molti anni gestito dai volontari iscritti alla sezione,
Tutto giusto quanto affermato dal CAI: però sembra valga solo per gli altri, in realtà ci sono anche “rifugi” CAI che fanno le stesse cose. Vedi appunto l’Auronzo in Lavaredo. Cominciamo a cambiare denominazione a questo.
Triste, si. Deprimente. Questa farfanteria dell’UNESCO poi.. all’inizio pensavo che fosse un bene che decisioni ambientali venissero prese dall’esterno, invece si è rivelata una scatola vuota dal punto di vista ambientale. Una fabbrica di poltrone ed un via libera alle valorizzazioni.
Avevo scritto in passato per la questione della croce che volevano mettere sul Monte Baldo e GognaBlog aveva pubblicato un articolo per il quale ringrazio infinitamente. La croce sembra non verrà installata e questa per noi del comitato Amici del Baldo è una grande vittoria. Detto ciò scrivo dopo aver visto l’ennesima storia triste che affligge il nostro Monte Baldo… ormai viene utilizzato e sfruttato grazie ai bellissimi panorami e tramonti che ci regala, per fare aperitivo con dj e storie simili… altro che Suoni delle Dolomiti!! Questa storia si ripete sia dalla parte di Malcesine dove si sale senza far fatica con la funivia, sia dalla parte di San Zeno di montagna dove si sale con una seggiovia, che dopo anni che era dismessa quest’anno purtroppo è tornata in funzione… questo porta quintalate di persone ad arrivare in quota senza muovere un muscolo, per il solo scopo di bere fiumi di birra in bicchieri di plastica e divertirsi in un posto che fa figo per la storia di Instagram. E la cosa che più mi rattrista è che i nuovi gestori del Rifugio Chierego, permettano questo scempio, minimamente incuranti della flora e fauna che li circonda… stiamo parlando di una montagna che è candidata a diventare patrimonio UNESCO! Immagino che di storie così a GognaBlog ne vengano raccontate tutti i giorni… si parla tanto di sostenibilità ambientale ma è una speculazione per guadagnare ancora di più… soprattutto se il rispetto per l’ambiente non parte dai rifugi in quota come nel nostro caso… Qui il link del video pubblicato dal rifugio Chierego su facebook…spero di non averla annoiata troppo con questa storia.
Je voulais dire : vendre, mais seulement à usage d’habitation.
@19 Si vede che ricordo male, mi pareva che in precedenza ci dessimo del tu, come peraltro è consuetudine fra uomini di montagna, nonché sul blog. Cmq, segui pure le tue preferenze, ci mancherebbe. Ricordati solo che mi chiamo Crovella (con la “o”) e non Crivella. Buon proseguimnento!
Sign. Crivella, ho sempre dato del Lei a Lei come a qualsiasi altro cui mi rivolgo direttamente nei miei post. E continuerò a farlo, per cultura, per rispetto, per educazione.
Inoltre va fatta una precisazione su un risvolto che i frequentatori abituali del CAI (come me) danno per scontato mentre gli altri non percepiscono neppure.
I rifugi del CAI NON sono di un’unica proprietà, ovvero del CAI Centrale, ma sono di prorietà delle singole Sezioni. Ovvero: non ESISTE una Commisisone Rifugi Centrallizzata (presso Sede Via Petrella) che gestista tutti i rifugi del CAI. Invece ogni sezione ha i suoi rifugi (chi un rifugio, che due, chi, come il CAI Torino, circa 30…), costruiti per i più disparati motivi storici. Ogni Sezione è responsabile dei “suoi” rifugi e, anche se dovrebbero poi arrivare dei flussi finanziari che dalla Sede Centrale vanno alle diverse Sezioni sul tema rifugi, in realtà il peso finanziario e organizzativo (nonché giuridico) grava innnanzi tutto sulle Sezioni cui appartengono i singoli rifugi.
Pertanto un discorso del tipo “siete in tanti a livello complessivo (per la cronaca: né 400.000 né 250.000, ma 327.000: anche questo dettaglio occorrerebbe maneggiare se si vuole discettare di CAI), NON ha senso.
Non sono i soci totali che sostengono le spese dell’intero parco rifugi CAI e quindi non spetta ai soci globali, riuniti in una ipotetica Assemblea Nazionale (che per Statuto si chiama Assemblea dei Delegati e ha tutta un’altra impostazione), votare se vogliamo pagare di più o di meno per il “monte” rifugi.
Non funziona così.
Ogni rifugio quindi fa capo alla singola Sezione cui appartiene. Ne consegue, che, se ipoteticamente si facesse un referendum fra i soci DI QUELLA SEZIONE circa l’impostazione da dare a ciascun suo rifugio (ipotesi fantascientifica perché per norme interne NON funziona così), arriveremmo provocatoriamente ad avere una dispersione statistica figlia dell’opinione dominante in ogni singola Sezione. Magari la Sezione A propende per un suo rifugio “spartano” e, invece, la confinante Sezione B propende per un suo rifugio stile gourmet.
L’unica alternativa a lasciar tutto com’è (che alla fine prevarrà, purtroppo) è se una piccola squadra centralizzata (il Consiglio Centrale, per capirci) prende la decisione di obbligare tutti le Sezioni ad un certo stile di gestione dei rifugi, ciascuna per i rifugi di sua competenza.
Ma è qui che si incricca il meccanismo : nessun a autorità del CAI centrale si assumerà mai la responsabilità di scelte “politiche” (politiche in un’ottica interna del CAI) che costringeranno le Sezioni ad aumentare le quote di associazione annua a carico dei loro soci. E’ come farli “scappare”, i soci: ma chi mai prenderà decisioni di tale natura?
Peraltro credo che sarebbe ben difficile trovare e specificare dei criteri efficaci di “sostenibilità alpinistica” cui legare i contratti.
Quello che noto però è che i rifugi “gourmet”, come sono stati definiti, sono abbastanza invariabilmente dei luoghi che è ben arduo chiamare rifugi, a bordo strada o alle stazioni d’arrivo di impianti di risalita: al Margherita in determinati momenti c’è magari un gran casino, ma di gourmet ben poco.
Forse sarebbe sufficiente modificare la denominazione di rifugio, togliendola a quei posti che di rifugio han ben poco, come il mai abbastanza deprecato rifugio Auronzo
Prchè mi dai improvvidsamente del lei?
Non ho detto proprio quello che tu hai scritto nel 15. Ho detto una cosa leggermente diversa, non farmela riscrivere. Rileggi con attenzione il 14, è scritto chiaro.
Buona domenica, ciao
Quindi, lei mi vorrebbe dire che le cose stanno come stanno perché la maggioranza dei soci cai vogliono che rimangono così…..sconfortante.
Anche numericamente …diciamo 250.000 soci….decidono per tutti i milioni di frequentatori. Brutta storia sto cai.
10 Carlo. Temo che continui a persistere in te un equivoco di fondo. I rifugi CAI sono già “di proprietà” del CAI. Vengono dati in gestione ma il CAI non perde la proprietà. Difatti quando il contratto di gestione termina, il rifugio torna indiscutibilmente nel pieno possesso del CAI.
Quello che intendi tu è quindi un’altra cosa. E la “gestione diretta”, appunto con degli stipendiati. Questa mia precisazione non è per spaccare il capello in quattro sul piano giuridico. Ma per sottolineare che la filosofia dingedtionr dei rifugi prescinde dal regime in cui la si svolge. È scelta strategica, non obbligata dal regime giuridico.
Infatti anche in caso di regime di contratto di gestione (com’è adesso) il proprietario (cioè il CAI) può subordinare la gestione a determinati criteri, per ed di “severità alpinistica”, chiamiamola così. All’opposto può accadere che anche in caso di gedione diretta (quella che intendi tu), si opti per una impostazione da hotel di montagna. Per cui non è il regime giuridico della gestione che determina lo stile dei rifugi, ma le scelte strategiche e ideologiche del CAI.
Per quel che conosco io, i rifugi definitivamente ceduti dal CAI a privati, anche a livello di proprietà, sono proprio quelli che diventano i più hotel di tutti: docce calde, chef stellato, aperitivo gourmet ecc. Almeno nelle Occidentali io registro questo.
Sul tema rifugi è vero che il CAI da diverso tempo ha preso la deriva di non opporsi ai trend consumistici, lasciando lasco il.conyrollo sui gestori, i quali richiedono tale libertà per far un po’ più di fatturato. Tutto ciò è effettivamente un problema, non dirlo a me che propendo per una montagna scabra e severa. A parziale giustificazione va riconosciuto che, a carico del CAI, le spese, aggregate, del patrimonio totale dei rifugi sono cosi ingenti che bisogna turarsi il naso e accettare dei compromessi per avere delle entrate da utilizzare per i costi dei rifugi. Parlo qui di costi di proprietà in senso stretto, cioè spese per lavori e manutenzione straordinaria, che sono molto superiori a quelli di un qualsiasi immobile in pianura.
In alternativa bisognerebbe fare una sensibile selezione, decidere quali rifugi “sacrificare” e quindi chiuderli definitivamente e concentrarsi solo sui rifugi di rilevanza per gli alpinisti. È una scelta ideologica che io sposerei, ma temo che non sia condivisa dalla stragrande maggioranza dei soci CAI, per cui è “politicamente” improponibile.
Molto dipende dagli obiettivi che si pongono le Sezioni proprietarie. Se come accade in vari casi di cui ho sentito parlare si alzano le quote richieste ai gestori, si scaricano su di loro gli investimenti e si richiedono solidità patrimoniali elevate a garanzia le conseguenze sono due. La prima è il fenomeno della concentrazione imprenditoriale. Vengono create società che prendono in gestione più rifugi in una zona e lavorano sulle economie di scala negli approvvigionanente e in generale nell’approccio ai costi e agli investimenti per la manutenzione/ammodernamento. È ovvio che una gestione più manageriale rispetto alla gestione “romantica” probabilmente garantisce una migliore efficienza ma si porta dietro spesso la seconda conseguenza. La spinta ad aumentare i ricavi e in quel business significa aumentare non solo i tassi di occupazione dei letti e i coperti, ma anche lo scontrino medio. E questo si ottiene offrendo servizi che giustificano un prezzo più alto. Insomma è il solito problema dell’economia scienza infelice: non puoi avere più soldi dai gestori e porre troppi vincoli “spartani” altrimenti i bandi vanno vuoti o rischi di reclutare persone improvvisate che vivono una stagione di avventura e poi ciao e devi ricominciare da capo. Quindi bisogna che la proprietà si chiarisca bene cosa vuole e poi faccia le sue scelte verso i gestori, oppure arrivi anche a mettere in discussione il modello gestionale usato finora in prevalenza. In qualche modo ci sono delle vaghe affinità col tema dei rapporti tra comuni e balneari, anche se in quel caso gli attori e soprattutto i volumi sono ben diversi.
Ciao Carlo, come qualcuno degli intervistati ha fatto notare, la richiesta è data dall’offerta e non viceversa.
Che si mangino piatti gourmet in montagna non è sostenibile da nessun punto di vista e piuttosto privo di valore.
Comment, Claudine, vendre les refuges de moyenne montagne?
On ne résout pas le problème en vendant à quelqu’un d’autre qui va faire, peut être, encore pire!
Perché se fossero di proprietà si deciderebbe la gestione e sarebbe finalizzata all’educazione e non a seguire il mercato o proporre pasta all’astice camere singole per attirare turisti consumatori. In dolomite ne conosco due così il torrani e capanna penia, in Slovenia sono la maggioranza. Stipendiare il gestore significa svolgere un lavoro senza scopo di lucro. E non ditemi che con 400mils iscritti non riuscite a cavar fuori 3 mesi di stipendio
@7 Mio quasi omonimo. Domanda: cosa intendi per rifugi di proprietà? Quelli del CAI sono già di proprietà del CAI.
Storicamente i rifugisti certamente italiani ma anche francesi e svizzeri prendono i rifugi in gestione al seguito di un contratto con la Sezione proprietaria. I rischi e le responsabilità imprenditoriali sono a totale carico dei rifugisti. Cosa cambierebbe ad averli come dipendenti del CAI? Incasseebbe il CAI dai fruitori, si’ certo. In compenso ogni minimo obbligo di legge graverebbe sul CAI proprietario-gestore diretto. Hmmm… non mi convince. Se da 150 e subbia anni si e preferito l’istituto della gestione un fondamento ci sarà.
Piuttosto il punto è tornare a un modello vecchio stile di rifugio, imposto dal CAI proprietario. Basta inserire la clausola in contratto.
Un refuge n’est pas un hôtel-restaurant.
On pourrait vendre les refuges de moyenne montagne,
et ne garder que ceux de haute-montagne.
A mio modesto parere basterebbe servire minestrone caldo, acqua fredda e dormitorio…..musica, auto, eventi e gente se ne andrebbero come neve al sole. Rifugio di proprietà e gestore stipendiato. Slovenja docet
Ciao Mauro, credo possibile che le sezioni non conoscano gli introiti dei rifugi, visto che sono fonte di guadagno.
Per il resto, naturalmente sono dell’idea di ridimensionare le tendenze di certi rifugi, che li rendono pari a ristoranti di valle, ma mi preoccuperei anche di ridurre tutto il contorno, come impianti, musica, eventi e afflusso di mezzi motorizzati.
Tornare ai rifugi vintage. Scomodi, spartani e solo per “alpinisti”. il resto, via!
Che i rifugi siano bombe ecologiche si sa da tempo, molto spesso le sezioni del CAI sono le prime ad averlo ignorato promuovendo addirittura progetti di ampliamento. In Francia mi pare che la deriva verso hotel di lusso non sia avvenuta, facciamoci qualche domanda. Le sezioni spesso hanno uno strano rapporto con i rifugi, ovvero se il rifugio “rende” il gestore accantona i ricavi e gode di una sorta di tacita zona franca fiscale e se improvvisamente qualcosa non va il gestore ricatta la Sezione che deve farsi carico delle spese e ridurre il canone in modo arbitrario. Le Sezioni non sanno e non pretendono di sapere quale siano i ricavi dei rifugi. In un contesto del genere le derive sono facili e si crea una concorrenza sleale sul territorio.
Dopo il “Vero Alpinista” è il momento del “Vero Rifugio”.
Parola di ingegnere strutturale…augh!
È giusto però chiarire che la capanna (Margherita) attualmente è molto sicura e, anzi, sarà oggetto di interventi di consolidamento.
La mano destra non sa cosa fa la mano sinistra.