La solitaria danza con la vita di Casarotto
di Roberto Mantovani
(pubblicato su In Movimento, 8 giugno 2017)
In montagna cercava la grande avventura. Quasi sempre da solo. Per Renato Casarotto, vicentino, classe 1948, uno dei più forti scalatori sulla ribalta mondiale negli anni ’70 e ’80, il gioco dell’alpinismo consisteva nell’immaginare una via, prepararsi in maniera meticolosa e poi tentare la salita, senza nemmeno immaginare cosa gli avrebbe riservato il viaggio verticale.
Quella di Casarotto è una storia alpinistica incredibile che oggi sfuma nel mito. La sua data d’inizio è significativa: primavera 1968. Solo che al posto delle piazze parigine lo scenario iniziale è una caserma del Cadore. Per Renato, infatti, l’incipit coincide con i mesi del servizio militare. Inquadrato come esploratore alpino nel Battaglione Cadore, comincia a misurarsi con la roccia. Su difficoltà di secondo e terzo grado, ma con zaino e fucile sulle spalle. Quasi subito, il vicentino si scopre una buona predisposizione per le scalate, e in pochi mesi ripete molte vie classiche in Dolomiti. Dopo il congedo, però, torna al vecchio lavoro in carrozzeria. È un concorso in Ferrovia ad aprirgli un’altra strada. Per qualche anno fa l’operaio alle Officine Grandi Riparazioni di Vicenza. Nel tempo libero, scopre con gli amici la paretina di una ex cava sotto i Colli Euganei. E di colpo la passione per l’arrampicata torna a farsi sentire. Su quelle rocce, il gioco consiste nel ripetere, sino allo sfinimento, difficili sequenze di movimenti in traversata a pochi metri da terra. Ma fuori città, a portata d’auto, ci sono le Piccole Dolomiti. E presto Renato sale anche lassù.
S’impegna per ripetere in arrampicata libera le vie aperte da Raffaele Carlesso e Gino Soldà, i due capiscuola degli anni ’30, l’epoca d’oro del sesto grado. Le scarpette da arrampicata ancora non esistono, si scala con gli scarponi rigidi e l’attrezzatura è quella che è. Ma il gioco è bello lo stesso, soprattutto se si rifiuta il compresso della progressione in artificiale.
Le prime solitarie
In capo a qualche mese, Renato è pronto a cimentarsi con le grandi pareti. Gli servirebbe solo più tempo libero. Così frequenta un corso per diventare infermiere, sempre nelle Ferrovie, e viene assegnato alla stazione di Vicenza. Il massimo. La possibilità di chiedere congedi giustificati gli permette di prolungare la permanenza in montagna.
Renato Casarotto, Milano, marzo 1979. Foto: Publifoto
Con un’intensità impressionante, aiutato da doti atletiche non comuni, senza mai saltare un solo gradino della lunga scala che ha deciso di percorrere, Casarotto macina itinerari a ripetizione, apre varianti e vie nuove. Poi, il 4 luglio 1971, s’imbarca in un’esperienza nuova. «A un certo momento, dopo aver ripetuto tante vie difficili con questo o quel compagno, ho sentito il bisogno di fare un salto di qualità. Capivo che potevo andare oltre, che avevo una riserva di energia a disposizione». Così decide di salire da solo la via Carlesso al Soglio Rosso, in Pasubio: 350 metri, con due lunghezze di sesto grado. «Avevo già percorso quella via con un amico, e non volevo rischiare stupidamente: non mi piace giocare d’azzardo con la vita. Mi sono portato una corda. Non avevo un’idea precisa di come l’avrei utilizzata per salire in autoassicurazione. Ho pensato che nei punti difficili potevo legarne un capo a un chiodo e poi metterla a tracolla e bloccarla, facendomi una specie di imbragatura. Era un sistema rudimentale che mi richiedeva una fatica bestiale nelle manovre. Ma quella volta ha funzionato. E non ho avuto paura; anzi, ero in sintonia perfetta con la roccia. È stata una grande avventura». Può sembrare incredibile, ma il passaggio all’arrampicata solitaria per Renato non è affatto un trauma. «Fino a quel momento» spiegava, «ero sempre salito da primo di cordata anche quando arrampicavo con gente molto brava. Non mi sentivo abbastanza sicuro appeso alla corda di un altro. Per quel motivo, forse, non ho avvertito un gran salto passando all’arrampicata solitaria».
Un’invernale che spiazza tutti
Nel dicembre del 1972, con alcuni compagni, Casarotto vive la sua prima avventura invernale. Percorre la via Solleder alla parete est del Sass Maor, nelle Pale di San Martino. Un anno dopo, nel pieno della stagione fredda, porta a termine una solitaria sul Baffelàn, nelle Piccole Dolomiti. Niente di estremo ma, ad anni di distanza, quell’ulteriore esperienza sulla roccia ghiacciata appare come l’incipit di un progetto che avrebbe preso consistenza nelle stagioni successive.
Nel frattempo l’attività di Renato si intensifica. E cominciano stagioni alpinistiche davvero irripetibili. All’inizio dell’inverno 1974, Casarotto lascia di stucco il mondo dei dolomitisti. In cinque giorni, dal 19 al 23 dicembre, viene a capo della prima invernale solitaria della via Simon-Rossi sulla parete nord del Pelmo, alta 850 metri. Un itinerario elegante, di notevole livello tecnico, complicato. La parete è stracarica di neve, certi diedri sono costellati di stalattiti di ghiaccio, alcune affilate come spade. Lo scalatore vicentino procede con cautela ma non si ferma. «Ormai il mio sistema di autoassicurazione era quasi a punto. Usavo la corda, due nodi autobloccanti, lo zaino come elemento frenante dinamico in caso di caduta: procedevo come in cordata, solo che dovevo andare su e giù per la parete tre volte». Per contro, per lui la solitudine non è un problema. Arrampicando da solo, Renato si sente realizzato e sereno, e soprattutto riesce a dare il meglio di sé.
Il Fitz Roy. Sullo spigolo di destra, contro il cielo, è il Pilastro Goretta
Stagioni irripetibili
Ormai Casarotto è considerato uno dei migliori alpinisti del momento. A metà degli anni Settanta ha già un curriculum impressionante ed è stato anche due volte sulle Ande. Il 1977, per lui, è un anno cruciale. In marzo, assieme all’agordino Bruno De Donà, apre una via nuova sul diedro sud dello Spiz di Lagunaz, nelle Pale di San Lucano, e parla di passaggi di VII grado (è la prima volta che in Dolomiti si parla di una difficoltà tanto elevata). Poi, dal 5 al 21 giugno, rimanendo da solo in parete per 17 giorni, apre un via stupenda nel bel mezzo della parete nord dell’Huascaràn Norte 6768 m, nella Cordillera Blanca del Perù. Lungo una muraglia alta più di un chilometro e mezzo, concava, battuta dalle valanghe e dalle scariche di pietre e di ghiaccio. Casarotto la percorre nel suo settore centrale, il più strapiombante ma anche il più riparato dalle valanghe. Da lassù, l’unico legame di Renato con il mondo è il collegamento radio quotidiano con la moglie Goretta, che lo attende al campo base. Il risultato finale è strabiliante: nessuno, fino a quel momento, è mai riuscito superare passaggi di sesto grado a quell’altitudine e in quelle condizioni ambientali. Sembra di essere ritornati ai tempi di Hermann Buhl. E non si tratta di un’esagerazione, se pensiamo che a distanza di quarant’anni quella via non è mai stata ripetuta.
Una preparazione bestiale
Sul Huascaràn Renato dà prova di una resistenza fuori dal comune. Ma è difficile immaginare il difficilissimo lavoro preparatorio cui si sottopone, da alcune stagioni, lo scalatore veneto. Tutti i giorni, nell’intervallo del pranzo, e la sera, prima del buio, Renato arrampica fino allo sfinimento sulla roccia della Gogna, a Vicenza. Il sabato scala senza pausa nella falesia di Lumignano. E inoltre fa ginnastica in palestra, corre in salita. Ma di lì a qualche stagione l’allenamento si intensificherà ancora: 700 metri di dislivello ogni mattina, con uno zaino di 20 chili sulle spalle e gli scarponi doppi ai piedi, e poi la corsa e le ripetute in salita, per terminare infine con un paio d’ore di arrampicata al limite delle difficoltà.
Assistito solo dalla moglie e con lo stesso stile del Huascaràn, nel 1979 Renato mette a segno un altro colpo da maestro. Nel cuore della Patagonia scala in solitaria il difficile pilastro nord-est del Fitz Roy. Ma non si limita alla sua cima. Scende all’intaglio tra il pilastro e la parte sommitale del Fitz Roy e, inaugurando un percorso assai impegnativo, sbuca sulla vetta principale. A quel tempo, l’alpinismo patagonico è ancora bambino, e muoversi da soli sulla cordigliera equivale a un viaggio nell’ignoto. In due mesi e mezzo, Renato incontra solo dodici giorni di bel tempo. Tutto il resto è verglas, neve, umidità, tempeste, corde fisse che nel giro di una notte si disfano per l’incessante sfregamento sulle rocce causato del vento.
Robert Schauer sale verso il campo 4 del K2. Dietro di lui si erge lo sperone nord-occidentale del Broad Peak Nord
Dal Monte Bianco alle Alpi Giulie
Poi ancora solitarie e scalate di rilievo sulle Alpi e fuori Europa. È una vita intensissima, quella di Casarotto. Con risultati che scagliano l’alpinismo a gran velocità verso il futuro. Dall’1 al 15 febbraio 1982, Renato realizza un’altra fantastica solitaria. In totale autonomia e senza alcun collegamento con il fondovalle, il vicentino sale in successione – senza mai averle percorse prima – la via Ratti-Vitali sulla parete ovest dell’Aiguille Noire de Peuterey, la Gervasutti-Boccalatte al Picco Gugliermina, e infine il Pilone Centrale del Frêney. Una grande course mitica, a tutt’oggi irripetuta. Che si conclude in vetta al Bianco nel bel mezzo di una bufera infernale che lo costringe a un bivacco di fortuna e a una pericolosa discesa alla cieca sul versante francese.
All’inizio dell’inverno 1983 Casarotto si sposta nelle Alpi Giulie. Dal 30 dicembre al 9 gennaio sale in prima invernale solitaria il temibile Diedro Cozzolino al Piccolo Mangart di Coritenza. Una via oltremodo difficile per via delle condizioni ambientali, con molta neve e ghiaccio persino al di sotto dei tratti aggettanti. Al rientro, scrive sul suo diario: «Dal punto di vista tecnico, oserei dire che d’inverno la parete del Piccolo Mangart di Coritenza è la più dura delle Alpi».
Renato Casarotto di ritorno dalla prima invernale solitaria della parete est delle Grandes Jorasses
Dall’Alaska al K2
Negli ultimi anni, buona parte dell’attività alpinistica di Casarotto si svolge lontano da casa. La sera del 28 giugno 1983 Renato giunge sulla vetta del Broad Peak Nord 7600 m. Ha impiegato una settimana per salire da solo lo sperone nord-occidentale che misura ben 2500 metri di dislivello e oppone grandi difficoltà di roccia, neve e misto.
Un’ora più tardi comincia a scendere. Manca poco al buio e sa che non riuscirà ad arrivare alla tendina dell’ultimo bivacco, a quota 7000. Cento metri sotto la vetta è costretto a trascorrere la notte in piedi, su un piccolo pulpito di roccia che strapiomba nel vuoto. È senza sacco-piuma e senza tenda, e deve muoversi in continuazione, per evitare di addormentarsi.
Poi, nell’aprile del 1984, un altro dei suoi capolavori. La Ridge of No Return al Denali (a quel tempo: Mount McKinley 6190 m). L’ultima grande cresta della montagna ancora da scalare: 900 metri di parete ghiacciata molto ripida per arrivare a cavalcarne il filo, 5 km di lunghezza in linea d’aria ma con uno sviluppo ben maggiore, in mezzo a un labirinto di cornici pronte a crollare sotto il peso della neve accumulata dal vento nei venti giorni precedenti di maltempo. Oltre all’equilibrio precario del castello di cornici, ogni tanto la cresta è attraversata da strani fori perfettamente cilindrici, ricoperti da una pellicola di ghiaccio che li rende poco visibili e che precipitano verso il basso. Renato impiega dodici giorni a terminare il percorso. Tocca i limiti della resistenza nervosa. Vive sentimenti di paura profonda, si muove in una specie di bolla che gli regala strane sensazioni, incubi, disagio, visioni.
L’epilogo
Quella tremenda esperienza però non esaurisce la sua voglia di scalare. Il 15 marzo 1985, al termine di un inverno rigido e molto nevoso, Casarotto sale in prima invernale solitaria anche la mitica via Gervasutti-Gagliardone sulla parete est delle Grandes Jorasses, nella catena del Monte Bianco.
L’ultimo grande sogno di Renato, una via nuova in solitaria sul gigantesco sperone sud-sud-ovest del K2, naufraga un anno dopo a 300 metri di dislivello dalla vetta. Dopo tre tentativi interrotti dal maltempo, il rientro è inevitabile. Lì per lì la rinuncia non sembra un dramma. Ma il 16 luglio 1986, ai margini del ghiacciaio De Filippi e a una ventina di minuti dalla tendina del campo base, quando tutte le difficoltà erano ormai alle sue spalle, Renato Casarotto precipita in un profondo crepaccio.
Dai diari di Renato Casarotto
«In montagna, il mio zaino non è solo carico di materiale e di viveri. Dentro ci metto la mia educazione, i miei affetti, i miei ricordi, il mio carattere, la mia solitudine. In montagna non porto solo il meglio di me stesso; porto solo me stesso, nel bene e nel male».
Per ulteriore approfondimento, vedi:
https://gognablog.sherpa-gate.com/renato-casarotto-linsubordinato-parte-1/
https://gognablog.sherpa-gate.com/renato-casarotto-linsubordinato-parte-2/
https://gognablog.sherpa-gate.com/ricordo-di-renato-casarotto/
https://gognablog.sherpa-gate.com/i-due-soli-di-renato-casarotto/
Anche la “Cresta del non ritorno” è stata qualcosa dove Renato è andato oltre e dove forse ha vissuto delle esperienze che hanno del trascendentale . Dove forse ha raggiunto quel limite che l’avrebbe dovuto invitare a riflettere, forse ha darsi un freno in questa sua continua ricerca .
Dico sempre forse perchè magari ho detto delle bischerate.
Dalle..mie Letture..” Renato C. ” Rimane un grande Alpinista..
è riuscito , a anticipare con la sua classe..e la sua Forza
l’ Alpinismo Moderno….! Gran bel ricordo in queste parole….G.C.
Secondo me, per quel poco che l’ho conosciuto, era talmente avanti (in termini di tempi storici ) con i suoi progetti che, all’epoca faceva fatica a trovare compagni per condividerli….poi risoltone qualcuno ( vedi vie nuove con Giacomo Albiero, Pierino Radin e altri pochi) il passo avanti verso il proprio limite era realizzarli da solo…
L’intero numero di in movimento di giugno si può trovare in edicola oppure qui: https://store.ilmanifesto.it/collections/digital-goods-vat-tax/products/in-movimento-giugno-2017
A me dispiaceva che nella maturità se ne stesse sempre da solo.
Agli inizi però mi diceva che scalava con tante persone.
Non sono mai riuscito a farmelo spiegare.
Sì, parlava e se poteva era generoso, ma al massimo si faceva accompagnare agli attacchi, talvolta sembrava lo ricercasse, ma poi era solo lui.
Di cose straordinarie ne ha fatte parecchie ma il capolavoro dei capolavori è stato per me la salita della parte nord dello Huascaran. 17 giorni da solo in parete in quelle condizioni, una cosa che diventa difficile anche solo immaginare.
“Segno forse che le sue salite erano veramente rivoluzionarie.”
io toglierei il FORSE !
È singolare come Casarotto (che tutti mi dicono essere stata persona bonaria e piacevole) scateni ancora oggi in qualcuno fastidio e uno strano livore. Segno forse che le sue salite erano veramente rivoluzionarie.
Non so cosa intende dire Manotovani con “NON IMMAGINAVA” . Forse al fatto che il viaggio verticale l’avrebbe portato alla morte?
Non amo particolarmente questo modo di scrivere, è più o meno lo stesso con il quale sono state decantate le gesta di Simone Moro. L’inizio mi lascia poi alquanto perplesso, quando l’autore dice “…senza nemmeno immaginare cosa gli avrebbe riservato il viaggio verticale.”.
Casarotto non immaginava cosa gli avrebbe riservato il viaggio verticale?? Uno che si è sempre comportato con tanta meticolosità non immaginava?? Bah..