La solitudine di Gian Piero – 2 (RE 014b) (2-2)
(continua da https://gognablog.sherpa-gate.com/la-solitudine-di-gian-piero-1/)
Certamente Motti è stato recepito come alpinista e anche di notevole valore. Nel suo tempo c’è stato chi ha fatto anche di più, ma questo non gli toglie nulla. Non stiamo certo a fare il computo di chi vale di più o vale di meno. Anche perché sappiamo perfettamente che l’alpinismo non è uno sport, dunque è inutile fare classifiche. Ed era anche scrittore, ha scritto dei pezzi formidabili che hanno lasciato il segno, per non dire dei libri. In verità il libro è uno solo, infatti I falliti è la raccolta, postuma, dei suoi scritti più importanti. Il libro suo è Storia dell’Alpinismo, vero caposaldo ancora oggi.
Ma soprattutto è stato filosofo. I pochi di cui si circondava, beh, lo vedevano come il Maestro. Anche io, e non mi vergogno assolutamente a dirlo, anzi, ne vado fiero. Come tutti i veri maestri non ha mai fatto pesare questo genere di rapporto. Il maestro vero non ti chiederà mai di darti lezioni: sarai sempre tu a chiederglielo. Chi meno parla è in realtà chi ha più da dire e chi più dice è colui che ha meno da dire: è una frase fatta, ma va bene per descrivere la situazione discepolo-maestro. Motti era un vero maestro: chi aveva sete di verità e di altri mondi e voleva evadere dalle nostre prigioni, nelle sue parole non trovava evasione ma vero e proprio toccasana, senza sapere perché. Era come un piccolo miracolo che si verificava, e lo dico sapendo che qualcuno pensa che io esageri. E’ ovvio che stava a te non farti plagiare da una personalità di quel tipo. E’ facile che gente un po’ carente di una propria individualità abbracci nuove suggestioni, come gli Hare Krishna occidentali che vedevamo ogni tanto cantare per le strade: nati cattolici, non mi convincevano molto. Ci sono sempre le eccezioni, ma è un abbracciare o seguire acritico di un qualcosa che ci attrae ma nel quale non entrerai mai davvero se ti limiti alle lodi e ai canti esteriori. Quindi sta a te avere la forza di conservare accesa la tua candelina (la tua coscienza, la tua ragione, il tuo io). Senza quella candela si spegne tutto, perciò deve rimanere accesa, anche se tremolante. Sta a te dunque trovare la tua strada, che sarà comunque diversa. Non puoi fare in modo o fingere che sia uguale a quella di un altro, tanto più se questo è un maestro. Lui stesso tenterà di impedirtelo, se è un vero maestro.
In Motti c’era anche una parte goliardica e più leggera, anche se è difficile ricordare episodi precisi, dato il tempo che è passato. Eravamo giovani e forti, dunque si parlava parecchio di donne, di sesso e di quella femminilità che a volte era molto fisica e a volte sfiorava le fattezze eteree del dolce stil novo di Dante e Petrarca, con grande agilità il discorso prendeva le pieghe più diverse. Poi c’era l’alpinismo, c’erano i gossip su quello o quell’altra. Ricordo, ma questo era proprio ai primi tempi, che entrambi ci ripetevamo che non ci fregava un cazzo del Sessantotto, ma neppure dei comunisti e dei fascisti. Semplicemente non condividevamo quel fermento, ci sembrava solo perdita di tempo. Ricordo che lui a un certo punto, mentre stava guidando, se ne era uscito con la battuta che noi eravamo del Partito della Bistecca, quello che davvero si era presentato alle elezioni del 1953. Ricordo che ci facemmo una risatona, sapendo benissimo quanta falsità ci fosse in quell’affermazione, una vera e propria auto-provocazione. A volte si stava in silenzio senza avvertire alcun disagio. Già solo il fatto che avevamo vissuto assieme quel momento sotto all’Aiguille Noire rendeva superfluo il dialogo. Se assieme si tace è perché si sta contemplando il mistero. Non dando mai l’impressione di volerti fare da maestro, la battuta era facile, come pure le storielle e le cazzate varie. Nelle sessioni più intense l’80 per cento delle parole erano sue, ma non ho mai sentito come insufficiente il mio 20 per cento. Avevo tutto lo spazio di cui abbisognavo in quella dialettica. Anche nei discorsi più magici ci si poteva aspettare la battutaccia, lo sberleffo. Purtroppo non ho memoria per le barzellette: rido, rido e dimentico dopo qualche ora.
Abbiamo già parlato prima del Vallone di Sea in quanto teatro delle Antiche Sere. Parlavamo spesso delle sue valli. La Val Grande era la sua montagna da ragazzino, quando vedeva le cime per la prima volta, quando sentiva i racconti di caccia nella trattoria da Cesarin. Gli si stava aprendo un mondo senza che ancora avesse letto nulla né fatto alcun programma su quella che sarebbe stata la sua vita. L’arrampicare all’inizio era proprio distante e la Val Grande esprime proprio la montagna del primo amore, al di là del fatto che anche là poi aprì delle vie, sul Bec di Mea, sul Bec di Roci Ruta, sulla Punta Mezzenile e altre. La Valle dell’Orco è invece abbinata, sia nel suo vissuto che nel nostro ricordo, a quello che poi è diventato il Nuovo Mattino. Anche se Tempi moderni non è stata propriamente la primissima via fatta con i nuovi sentimenti, è fuori di dubbio che quello fosse il momento e dunque quella via è diventata subito simbolo. L’apertura di Tempi moderni al Caporal ha segnato un’intera generazione. In Valle dell’Orco hanno agito anche altri nomi importanti, come Danilo Galante, Mike Kosterlitz, Gian Carlo Grassi, Ugo Manera e altri ancora. Io stesso, assieme a Guido Machetto, Miller Rava e Carmelo Di Pietro, proprio in quella domenica dell’ottobre 1972 in cui fu aperta Tempi moderni, aprivo sul vicino Scoglio di Mróz un itinerario del tutto equivalente. Insomma il fermento c’era ed era concentrato proprio nella Valle dell’Orco. Il discorso tecnico si stava svolgendo lì.
Diciamo, per ridere, che il Caporal è stato un po’ il Capitan dei poveri… Qui intervengono i diversi dislivelli: dai 900 metri del Capitan ci si riduce ai 200-250 del Caporal o del Sergent. Ma non c’era alcun complesso d’inferiorità, anche perché lo scopo principale rimaneva il rinnovamento e poco importava se non c’erano vie da 30 lunghezze di corda. Le strutture della Valle dell’Orco erano ideali per rappresentare la nuova visione e la novità in campo arrampicatorio. In Francia c’erano stati già degli esempi, le falesie del Verdon, della Chartreuse e del Vercors erano perfette per simboleggiare le scalate senza la vetta, per il raggiungimento di un altopiano. I soloni dell’alpinismo italico qualificarono subito quest’attività come “sterile esercizio atletico”: ma nulla più di ciò era lontano dal vero. Il pericolo rimaneva, eccome. Il povero Danilo Galante morì assiderato proprio nel bel mezzo dell’altopiano del Grand Manti, un luogo solitamente bucolico che in quel momento era tutt’altro. Free climbing non voleva dire assenza d’avventura, anzi. Voleva dire atteggiamento mutato nei rispetti della vetta e soprattutto del registro delle vie e dei successi. Voleva dire attenzione al come si faceva un’impresa: e allorché i mezzi di salita si semplificavano, l’avventura stessa ne era esaltata, l’esatto contrario di ciò che era appena successo in alpinismo con l’uso indiscriminato dei mezzi artificiali al solo scopo di avere un successo.
I due mondi, quello dell’arrampicata e quello dell’alpinismo, si stavano separando, ma ciò è stato progressivo, non istantaneo. Negli anni del Nuovo Mattino ero amico di un altro personaggio, anche lui assai significativo del nuovo modo di andare a scalare. Questi era il milanese Ivan Guerini. Un personaggio assai singolare, che ho frequentato a periodi. Di otto anni più giovane di me, aveva le idee molto chiare. Nella sua baita in val di Mello, nelle settimane senza tempo che vivevamo allora, ci scontravamo di continuo. Il mio alpinismo classico, per lui “vecchio”, e la sua esplorazione quasi idealistica delle montagne più dimenticate quando non sconosciute. Importante fu il riferimento al “gioco” che Ivan aveva introdotto: è sua la famosa guidina di arrampicata Il gioco-arrampicata in Val di Mello. La sensazione della separazione dei due mondi, alpinismo e arrampicata, l’ho maggiormente avvertita con Guerini che con Motti. Ricordo che ogni tanto ci stuzzicavamo con provocazioni sagaci. Un giorno lui mi disse: «Sai cosa c’è? Sai perché non riuscirai mai a capire di queste novità? C’è che tu sei un “accademico” (qui Ivan si riferisce proprio alla mia appartenenza al CAAI, da lui giudicato il massimo esempio di senilità mentale)». Mi sono divertito da pazzi a questa battuta, perché era vero che io fossi un accademico, ma anche che allora il club fosse prono nel rispecchiare fedelmente l’alpinismo come istituzione; la sua “squalifica” era una provocazione che sanciva il mio stare a metà.
Motti considerava il cammino da lui intrapreso come il cammino di tutti, la stessa meta ma per strade individuali diverse. Si rivolgeva solo a coloro che pensava potessero intraprendere coscientemente un progetto del genere. Ma qual era il suo itinerario? Possiamo dire che si fonda su alcune basi filosofiche e psicologiche, ma anche sulle visioni che Gian Piero ha avuto. Parliamo delle visioni in Val Grande di Lanzo e di quelle successive, ma parliamo anche dei sogni che faceva. Attività onirica ch’egli stimolava, con la massima attenzione ai sogni del mattino. Quando era a casa a Torino, si alzava sempre abbastanza tardi, tra le 9 e le 9.30, proprio perché sosteneva che l’orario migliore per i sogni era quello mattutino. Quando l’umanità che lo circondava (non ovviamente quella di Tokyo) iniziava a produrre, o era pienamente inserita in un’attività scolastica o commerciale, quello era il momento in cui la collettività inconscia poteva inviargli i segnali più chiari e più facilmente elaborabili.
Quanto alle basi filosofiche c’era un aggancio a Platone e alla sua teoria delle ombre. Platone sosteneva che ciò che viviamo come realtà non “è” di per sé, ma esiste soltanto perché è una proiezione, una specie di film, di fatti che “sono” in un altro piano, quello spirituale. La materia è la proiezione dei fatti spirituali su uno schermo. E noi viviamo su questo schermo e ci sembra che questa sia l’unica realtà. Con Platone dunque, e con il neo-platonico Plotino, Motti spiegava la nostra almeno iniziale incapacità di comprendere altro che il piano dello schermo, perché è lì che noi siamo proiettati. Il “cammino” dell’individuo è il riconoscere gradualmente di essere una figura proiettata il cui unico compito di vita è quello di auto-riconoscersi come proiezione di una realtà e quindi ritornare alla sua fonte più o meno coscientemente.
Non vorrei essere troppo semplicistico, ma Motti voleva mettere in pratica la teoria di Platone. Motti sapeva fin dall’inizio che questo cammino suo avrebbe potuto avere un solo genere di fine, che è poi ciò che è successo. Una fine non voluta ma accettata e data da lui per ineluttabile. I cammini degli altri sono tutti differenti, anche se ugualmente faticosi perché si svolgono in mezzo a campi di forze enormi nei quali ci riconosciamo veramente minuscoli. Paure, terrore, a volte estasi. Questo genere di spavento è il più grandioso che l’uomo possa provare. Anche Carl Gustav Jung ha percorso questo cammino. Quando scrisse Risposta a Giobbe, al posto degli dei e del mondo che per Platone era reale, Jung sostituì Dio stesso. Era Javeh che spingeva Giobbe, tramite i maltrattamenti, le vessazioni, le continue prove e richieste di fede assoluta, a smuoversi da una fede supina, ben coricata sullo schermo, ad alzarsi e camminare con fatica e dolore verso il grande scopo dell’uomo stesso, il ricongiungimento con la divinità. Scopo che non è solo dell’umanità, perché alla fine si è obbligati a pensare che in contemporanea al nostro cammino vi sia un proporzionale auto-riconoscimento della divinità. Dio senza l’uomo non sarebbe nulla.
La serenità con la quale Gian Piero accennava al suo destino era tale che si creava una situazione dove nulla poteva essere fatto o tentato per cambiarlo. Se ci fosse stata angoscia, anche solo preoccupazione, timore o rimpianto di certo ci sarebbe stata una reazione. In quel modo era impossibile.
Non eravamo di fronte a un poveraccio che sta per buttarsi dalla finestra e allora tu cerchi di trattenerlo anche con la forza. Eravamo di fronte a una lucidità così imponente, ripetuta e non occasionale, da squalificare in partenza qualunque gesto che non fosse di muto stupore. Certo, chi non l’ha provato può parlare di egoismo. Invece era accettazione di una realtà che ci sovrastava. Un sacrificio ineluttabile e inesprimibile altrimenti, che va oltre alla perdita di una vita umana o di un amico. Sentivamo l’emozione della futura perdita, ma la serenità che emanava era gigantesca. Quindi non abbiamo fatto nulla, nessuno dei pochissimi noi. Era un processo che non si poteva interrompere.
Non era affatto risaputo che lui aveva già orchestrato la propria morte almeno altre due volte, tra l’altro con le medesime modalità, ma che per qualche motivo all’ultimo si era fermato, pensando solo che non fosse ancora il giusto momento. Sono andato a Torino per il funerale, al cimitero monumentale di via Novara: c’era tanta gente, in quel primo pomeriggio di sole soffocante. Pino Dionisi aveva in mano un arbusto di rododendri, colti proprio quella mattina in montagna. La sensazione di tutti era di grande perdita, più del solito però. Abbiamo perso papà e mamma, e tanti amici, ma quella volta era speciale. Per me il dolore della perdita era mitigato solo dal pensiero che lui ce l’aveva fatta. Mi ripetevo: “Ce l’ha fatta!”. Ero felice che avesse raggiunto l’obiettivo, so che è difficile da spiegare. Però era così, una grandiosa commistione tra accettazione e dolore vero.
Certo può sembrare impossibile, ma è successo. Comunque Gian Piero l’ha fatto dopo otto anni: il suo cammino tanto è durato. Già all’inizio ne era cosciente, nel 1975. La domanda di coloro che vanno oltre all’orrore che ispira il suicidio è: perché era necessario? Perché era ineluttabile? Questa risposta forse non si può dare, come se a una risposta fossimo tutti chiamati singolarmente senza nessuno che ci suggerisca. A me viene in mente Gesù Cristo: era proprio necessario che morisse sulla croce tra spaventosi tormenti? Era così necessario per la nostra fede, per espiare il peccato originale? Si arriva a questo piano, un piano di fede, molto soggettivo.
So bene come tanta gente non comprenda come un uomo del genere, intelligente, brillante, preparato abbia potuto accettare quella modalità per otto anni. La sua non è stata una scelta, ci si è trovato in mezzo e ha risposto a una chiamata molto autorevole. Lo conoscevo prima e lo conoscevo dopo: è stato letteralmente ineluttabile, non modificabile. Le sole varianti erano la forma, i tempi. La montagna in tutto questo è sempre stata sullo sfondo, comunque continuava a suggerire metafore con la sua presenza. Le già citate tre righe sulla Rocca Bianca e sulla Rocca Nera ne sono un lampante esempio: tra l’altro sono montagnette sopra Torino, non stava parlando dell’Everest. E’ un altro segno di quanto lui si sia portato la montagna dentro. Sceglieva questo genere di montagne per poterle meglio interiorizzare. Altri colossi come il Monte Bianco o l’Himalaya, nella loro grandiosità, non possono raffigurare bene questo viaggio. Sono troppo rivestiti di ingombrante oggettività e deputati a ricordare soprattutto l’avventura dell’eroe che va e che le percorre. Fuorvianti come il vecchio alpinismo.
Quando è arrivata l’arrampicata sportiva, Gian Piero ha cominciato a parlare di una Grande Madre che ingannevolmente aveva attratto gli arrampicatori come avesse dovuto sostituire un padre che si era allontanato. Ripeté questa raffigurazione più volte. L’arrampicata sportiva ne risultava demonizzata, per via di questa madre, cattivella e fintamente protettrice, che soltanto il Sole Nero poteva contrastare. Cosa è il Sole Nero? E’ la parte sconosciuta del Sole, l’altra sua faccia, sostanzialmente il nostro inconscio collettivo, direbbe Jung. In questo scenario l’alpinismo perde qualunque suo significato pratico. Anche per questo motivo Motti ha trascorso molti periodi, anche lunghi, senza fare nulla in montagna o in falesia. Era in quelle occasioni che andava a fare i giri nel deserto con la sua Toyota. Una volta, in via eccezionale, non è andato da solo bensì con la mia prima moglie, Ornella, per un mese. Cercava solitudine, cercava ispirazione, cercava il luogo fisico dove certe visioni potessero mettersi in contatto con lui. Una forma di meditazione in luoghi speciali. Non vorrei insistere, ma l’arrampicata davvero era diventata solo un’occasione per stare con qualcuno dei suoi ben pochi veri amici. Ricordo che l’ultima volta che andammo assieme (3 novembre 1982) fu proprio sulla Rocca Nera di Caprie, su una via aperta da lui stesso con Ugo Manera, la via dei Tempi Antichi. Quindi non ha mai smesso davvero di arrampicare: e non contiamo le volte che scalava sui massi. Per lui era la stessa cosa, la grande parete e il sasso erratico. Movimento del corpo con attenzione alla psiche, allo spirito e non al gesto atletico teso a esprimere un grado sempre più elevato. Diceva, perché cercare di fare l’ottavo e il nono grado (allora quelli erano i massimi…) quando per farli hai bisogno del chiodo che ti protegge la caduta? Tanto vale mettere una corda dall’alto e salire assicurati. Non esitava a demonizzare quindi l’arrampicata sportiva, il pericolo di cadere nella rete della Grande Madre, nel gesto edonistico, nel piacere o nel risultato tecnico. Tutto ciò secondo lui allontanava dalla giusta tensione verso l’alto, propria del vecchio alpinismo originale, la cui presenza certificava, per contrapposizione, la giusta tensione verso il basso, cioè verso la propria interiorità. Questo meccanismo è condiviso, forse un po’ più inconsapevolmente, anche da molti altri, per esempio Walter Bonatti, quando dice che più si sale più si riesce a sognare lontano. Cosa vuole dire “sognare lontano” se non vedere più approfonditamente in se stessi? E questo a dispetto del fatto che Bonatti fosse proprio all’opposto di Gian Piero.
Ogni tanto qualcuno mi chiede cosa mi manca di lui. Potrei rispondere la vicinanza, l’amicizia… Però, più che altro, mi auguro che sia riuscito ad ottenere ciò che lui sentiva essere nato per fare. Perché, francamente, non ne ho la certezza. Ciò che mi manca è proprio questa sicurezza. Vorrei che il suo sacrificio fosse davvero servito.
Anche perché non ci possono essere eredi. Non ci sono stati e non possono esserci. Primo perché la statura di quest’uomo è, non dico irraggiungibile, ma per certo tocca le galassie; secondo, perché lui stesso non ha posto le basi per avere alcun erede. E’ stato refrattario a qualunque tipo di scuola (e non parliamo di “setta”, che ha sempre un significato dispregiativo). Nessun gruppo di pensiero o di azione. Non gli importava nulla neppure del Nuovo Mattino inteso come “movimento” sociale. Non potevano esserci dei seguaci o degli eredi. E, d’altro canto, dopo tutti questi anni (dal 1983 ne sono passati tanti) non direi che ci sia stato qualcuno che sia andato così in profondità. Ma potrebbe essere che in altri campi o sfere d’azione qualcuno si sia impegnato in questo genere di attività: arte, pensiero, musica e poesia con uomini aperti e di buona volontà, non con lo stesso cammino, non con la stessa conclusione. Non è compito mio testimoniare o indagare. Ciò che è bello è tale non perché raffigura ciò che vediamo o udiamo ma perché lascia intravvedere ciò che è oltre. Enrico Camanni ha tratteggiato Gian Piero anche come artista. Che non ha creato oggetti, sculture o pitture che rimangono concreti nel tempo. Ma ha creato idee, nuovi modi di interpretare la realtà: nel piccolo, cioè nell’arrampicata e nell’alpinismo, ma anche nel grande, ovvero nel nostro essere umani e nello scoprire che scopo abbiamo. E’ una forma di arte.
E’ fuori di dubbio che l’essere partito dall’alpinismo e quindi essere rimasto in un campo più ristretto abbia limitato la portata del pensiero di Motti. Il motivo è che altrimenti sarebbe stato troppo pericoloso, un rischio inaccettabile per la maggior parte del pubblico entrare in quel mondo. Un’estrazione più generalista avrebbe provocato dei disastri. Mentre chi ha già affrontato quelli che sono i pericoli e le difficoltà dell’alpinismo ha maggiori probabilità di sopravvivere psicologicamente. Non si può fare la storia con i se e con i ma, però arrivo a dubitare che lui stesso, se non avesse avuto l’esperienza dell’alpinista, avrebbe raggiunto quelle altezze. Il filosofo è uomo d’intelletto che formula idee nuove o riformula idee vecchie in altro modo e ti apre dei mondi. Ma qui invece c’è stata un’esperienza fisica, Motti ha davvero incarnato un’aspirazione. E’ andato oltre alla sfera intellettuale. Perché l’alpinismo? Perché è una delle poche attività che ancora permettono l’avventura oggi. Una volta bastava andare in guerra (di propria volontà ovviamente) per avere esperienze di grande avventura. Per la nostra generazione non è stato più così, perché per fortuna non ha avuto guerre. Per Motti non poteva essere tanto diverso da ciò che è stato. Poteva essere, invece che alpinista, un esploratore artico o un velista eccezionale. I velisti di allora avevano a disposizione una quantità di avventura smisurata, anche se oggi non è più così. In realtà credo però che solo l’alpinismo abbia nel mondo un grande numero di adepti dell’avventura. Quanti sono gli esploratori polari o i velisti che non vanno in giro per diporto? Si contano sulle dita di una mano. Gli speleologi sono di più, ma c’era bisogno che la novità appoggiasse su un numero ben maggiore di appassionati, e solo l’alpinismo oggi fa al caso. A parte che l’andare in grotta è soprattutto visto come attività di gruppo e i solitari sono l’eccezione.
Non
ho ancora accennato all’articolo Zero the hero, assai
provocatorio, un insulto che Motti rivolse a coloro che lo criticavano.
Critiche ingiuste, perché Gian Piero non è mai caduto nella trappola di
attacchi personali a qualcuno, al di là di qualche battuta o qualche
provocazione verbale. Di certo non provocava nessuno pubblicamente, non trovava
soddisfazione in questo: non lo faceva e basta. Erano tanti invece che lo
attaccavano, mai pubblicamente ma sempre dietro le spalle. Zero the hero
è un personaggio inventato dai Gong, una band francese di quel tempo,
sessantottini o ex-sessantottini, che faceva ottima musica. La musica era la
vera e propria colonna sonora del suo cammino. Pink Floyd, King Crimson,
Tangerine Dream: stavamo ore ad ascoltare quella musica, con i nastri di
allora, facili a incepparsi. Anche i Gong facevano la loro parte. Il
protagonista di queste loro “opere”, veri e propri musical tipo Jesus Christ Superstar, è l’eroe che non
ha nulla da raccontare, l’antieroe per eccellenza. L’insulto è stato pubblicare
un articolo assolutamente vuoto, la pagina bianca, con quel titolo e con quelle
figure dei tarocchi e con quelle note che sembravano assurde in mancanza di
testo. C’è comunque chi ha fatto l’esegesi di quelle note (e non sono stato
io), che in realtà sono una vera presa per il culo. Deridono il mondo che lui
non sopportava, la sfera del paranormale, della previsione del futuro a
pagamento. Sapeva perfettamente cosa sono i tarocchi, cosa è l’I Ching, sapeva
tutto sull’ossessione che l’uomo ha di conoscere il proprio futuro: ma a tutto
ciò non ha mai concesso un grammo del suo cervello. Inserire la figura
dell’Impiccato nel nulla è come dire “ti sto trattando da stupido”. Non credo
di sbagliare se dico che non ha davvero voluto andare oltre la provocazione,
cioè quel dire “siete talmente distanti da me che non vi degno neppure di un
qualcosa di serio”. Sberleffo rivolto a quei curiosi che sono tali soprattutto
perché interessati al gossip, cioè a tutto ciò che possono “rivendere” e non
all’eventuale interesse nell’oggetto. E’ stata la più eclatante, ma non certo
l’unica volta che ha preso in giro personaggi di questo tipo.
Altra espressione che si associa a Motti è Itaca nel Sole (vedi il film realizzato nel 2018). Itaca evoca la meta che aveva Ulisse. Dopo la guerra di Troia l’eroe Ulisse (altrimenti chiamato Odisseo) ebbe tante di quelle avventure nel tornare alla natia Itaca che Omero poté scrivere l’Odissea. Per noi sinonimo di avventure, di prove superate, un’odissea appunto. Niente di meglio di Itaca dunque per identificare la grande meta che perseguiva Gian Piero nel suo cammino. Percorso che la stessa umanità è chiamata ad affrontare, e che già Ulisse aveva superato in ben più di dieci lunghi anni. Il paragone continua azzeccato se pensiamo che per lo più Ulisse aveva a che fare con pericoli e prove che gli imponevano gli dei, non gli uomini. L’ambiente divino di Odisseo è lo stesso ambiente mitologico in cui tutti ci ritroviamo se appena prendiamo coscienza della nostra proiezione sullo schermo. Polifemo, la Maga Circe, le Sirene, le tempeste nulla hanno a che fare con le difficoltà umane: sono mitiche e quindi divine. Se pensiamo all’episodio delle Sirene, vediamo veramente Motti. Il racconto omerico di Ulisse, che si fa legare all’albero della nave e ordina all’equipaggio di non slegarlo mai, neppure alle sue successive suppliche, per poter ascoltare le Sirene senza impazzire è una visione grandiosa dell’uomo che deve conservare la sua candelina accesa ma non deve rinunciare ad esplorare i mondi che forse in un’altra dimensione sono suoi. Motti ha fatto la stessa cosa in un periodo temporale, si è incatenato ma sapeva in anticipo che le Sirene avrebbero cantato per lui per l’eternità.
La via Itaca nel Sole è stata aperta prima del 1975, non possiamo quindi dire che è l’esatta rappresentazione del suo viaggio. Però di certo lo ha anticipato.
Anche con la locuzione “nel Sole”, perché in quel momento, dopo I falliti, l’alpinismo era visto come ombra, molto saturnina. Il vecchio Saturno, Crono che si mangia i suoi figli. Ci voleva il sole a schiarirlo, a innovarlo. E’ il sole del Nuovo Mattino. Fine dell’assenza di creatività e della conservazione del proprio potere. Da notare che qui stiamo parlando del Sole che tutti vediamo, quello Bianco. Il Sole Nero, come abbiamo visto, era di là da venire, nel successivo passaggio. Dunque Itaca nel Sole, la meta che splende. La via è accanto a Tempi Moderni. In quelle due vie c’è una buona parte del suo cammino, quando ancora c’era la speranza di raggiungere l’altopiano, di contemplare finalmente la pace. Senza ancora poter immaginare le successive melliflue tentazioni della Grande Madre.
C’è un suo brano da I falliti: «Ma ancora non bastava. Bisognava toccare il fondo. Vuoi per un certo crepuscolarismo di balorda qualità, che ogni tanto affiora nei miei giorni peggiori, vuoi per una certa voluptas dolendi che ogni tanto esercita il suo fascino, assunsi la parte dell’uomo deluso e finito e cominciò una recita piuttosto grottesca». Qualcuno si è domandato se Motti abbia mai voluto ritagliarsi una parte: il compiacimento in questa voluptas dolendi può tradire una componente di teatralità?
Da una parte si fustiga, dall’altra ammette un po’ di ‘recita’. Gian Piero era anche uomo come tutti gli altri, con possibili voglie di emergere, ambizioni. Qui siamo ai primi tempi, pre-1975, quindi possiamo giustificarlo con facilità. Ma anche qualche episodio in seguito possiamo vederlo in questa luce: quando ad esempio scompariva per uno o due mesi per poi riapparire come niente fosse stato, forse lì c’era teatralità. Quando Motti decideva di non parlare con qualcuno, beh anche quella decisione poteva essere considerata teatrale. Come l’autore di una piece che decide chi può assistere e chi no. Tu sì, tu no. Tu… solo il primo atto. Nella sua sincerità con se stesso, Gian Piero ne era perfettamente cosciente. Negli ultimi otto anni, la sua capacità di introspezione, spesso auto-ironica, veleggiava anche sulla sua normalità e sulla sua imperfezione. “Mi piacciono le donne” (beh, veramente l’espressione era più cruda) oppure “mi piace la buona tavola” non erano pronunciati con secondi fini, c’era solo la semplicità di chi non vede solo le sue profondità ma anche la propria apparenza e il proprio aderire allo schermo. Era molto ironico, sia con se stesso che con gli altri quando li pungeva. Dopo la battuta se ne fregava e tirava avanti. Come del resto facciamo anche noi, perché, se piangessimo nella contemplazione dei nostri difetti, finiremmo per non fare mai nulla.
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Gianni Vattimo, il filosofo del “pensiero debole”, in gioventú fu alpinista entusiasta. Approdato in età matura, una volta confessò a chi lo intervistava: “Potessi ritornare a quei tempi – poche storie! – darei via tutto il pensiero debole!”.
… … …
Sic transit gloria mundi. 😥😥😥
Riferendomi alla foto scattata da Guido Morello il 21 luglio 1973 : eravamo usciti dalla via nel tardo pomeriggio , quasi sera e si era scatenato un violento temporale. Mentre brancolavamo alla ricerca della via di discesa nell’incipiente oscurita’ una piccola luce nell’altipiano ci guidò fino alla “bergerie”, dove fummo accolti gentilmente da una famiglia di pastori . Notte all’asciutto sulla paglia , latte fresco appena munto a colazione. Gianpiero indossa un’elegante tuta da mungitore. Sembriamo personaggi usciti da un quadro del fiammingo Bruegel.
Poco tempo dopo Danilo Galante e Gian Carlo Grassi in quei medesimi luoghi non saranno altrettanto fortunati .
Hai detto bene Benassi. L’eccezionalita’ della prestazione tecnica in se’ non sempre è alla base dell’influenza esercitata da alcune persone, anche se a qualcuno questo termine non piace e non capisco perché. Forse sarebbe più accettabile maestro o leader, ma siamo sempre lì. A volte entrano in gioco altri fattori che possono anche sfuggire alla comprensione razionale.
appunto, non conta solo il grado.
Grazie per le belle parole a Fabio Bertoncelli . Quelle foto le ho inviate io ad Alessandro affinché le utilizzasse come più ritenesse opportuno per ricordare Gian Piero . In ogni modo sono d’accordo con te sul termine “influencer”.
Ritengo che Ugo Manera ed Alessandro Gogna siano le persone che meglio lo hanno conosciuto e quindi i più titolati a darne un immagine completa . Un ‘impresa non facile ! Ho trovato molto bello il tono con cui Alessandro ci ha ricordato Gian Piero : leale ed affettuoso, da sincero amico .
Condivido molto di quanto scritto in questo racconto , ma non tutto .
A chi sminuisce l’importanza della figura di Gian Piero nel quadro generale dell’evoluzione dell’alpinismo italiano consiglio di andare a leggere la critica di Massimo Mila nell’introduzione della Storia dell’Alpinismo . Inoltre vorrei solo ricordare tutti gli articoli di alpinisti francesi e americani tradotti e pubblicati sulle nostre riviste di montagna negli anni settanta che crearono un fermento di idee da cui sarebbe nato un deciso rinnovamento .
Tutto il resto è venuto dopo !
Roberto! Roberto Bianco!
Quella foto del 21 luglio 1973 rischia di sgretolare la religiosa riverenza che mi ero costruito nella mente dopo aver letto delle tue ascensioni a fine anni Settanta e inizio Ottanta sulla Rivista del CAI.
Consiglio: 1) farsi consegnare la fotografia; 2) strappare la fotografia; 3) chiedere a Gogna una sana censura della foto pure nel GognaBlog.
N.B. Con simpatia! Sappi che a quei tempi ti invidiavo piú di tutti gli altri. Eri secondo solo a Gervasutti. E scusa se ho detto poco…
21 luglio 1973. Gianni Mallen, Roberto Bianco e Gian Piero Motti dopo la via Seigneur al Gran Manti. Foto: Guido Morello.
OVVERO: Il cugino di Dustin Hoffmann, Gustavo Thoeni e GP Motti.
Foto di Guido Morello, fratello di Tom (chitarrista dei Rage Against the Machine)
Caro Fabio, non pensavo che anche tu come altri avessi fantasie sado/maso a base di frusta.😃 Gira e rigira, cambiano le etichette, la lingua e gli ambienti ma sotto sotto il fenomeno è sempre quello: l’influenza che alcune persone con la parola, le azioni o la loro sola esistenza esercitano sugli altri.
Chi chiama influencer Walter Bonatti e Gian Piero Motti dovrebbe essere condannato a venti nerbate sulla schiena. Tutti i giorni. Per un mese. Dopo una settimana si ricomincia.
Mi offro come fustigatore, gratis. 😉😉😉
All’epoca si diceva: ne uccide più la depressione che la repressione. Qualche indizio, ma ora non importa più parlarne e Gogna giustamente non ne parla. Parla invece di qualcosa che va oltre la vicenda umana di un uomo complicato. Le montagne in se’ non esistono. Esistono gli uomini e le montagne. Parlare di scalate e di montagne è una scusa per parlare di uomini, delle loro proiezioni e delle relazioni tra loro. Ogni storia di alpinimo/arrampicata, anche la più apparentemente triviale e cronachistica, è una biografia o un’autobiografia, che parla di individui e di gruppi. Qui abbiamo un racconto intrigante sull’influenza interpersonale. Quel fenomeno, ancora in parte misterioso, che fa si che alcuni individui esercitino un’attrazione profonda su chi sta loro vicino, anche dopo molti anni e al contrario un rifiuto netto da parte di altri. La letteratura in proposito stimola molto meno la curiosità e la riflessione del racconto diretto dei testimoni/discepoli/osservatori/amici. Ho trovato interessante in proposito anche l’accenno alle differenze tra due influencer, come si direbbe oggi, Motti e Bonatti. Da approfondire.
“La vita è come un’ombra che cammina; un povero attore, che si agita e pavoneggia per un’ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa piú nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e di furore, e senza alcun significato” (W. Shakespeare, Macbeth).
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Ragazzi, vivremo in modo meno infelice se non ci porremo troppi perché.
Siamo fatti cosí.
Chi c’è e/o cosa c’è a questo mondo che vale più della propria vita?
vedo Motti come una persona molto complessa, tormentata che cercava di dare risposte alle mille e più domande che si faceva sul perchè di quello che era , su quello che faveva , sul perchè e sul come lo faceva. Non riuscire a darsi delle risposte nell’esplorare i labirinti della sua mente, da persona molto sensibile quale penso fosse, abbia talmente condizionato la sua intelligenza facendogli perdere quel minimo di razionalità spingendolo verso un finale tragico.
Ma sicuramente dico cazzate, visto che non l’ho mai conosciuto se non per quello che ho letto.
Volevo anche aggiungere che arrampicarsi in direzione di bucolici altipiani in luogo di vette aguzze dalla discesa complessa non meno della salita, in ambito alpino, mi sembra che sia stata “inaugurata” da Messner con le due impegnative salite, anni ’60, sulla parete sudovest del Sas ‘dla Crusc.
Premetto che non sono mai riuscito a comprendere a fondo il personaggio Motti come forse sono riusciti a farlo i suoi amici. La complessità della sua personalità può essere un’attrattiva così come stimolarne il disinteresse per insufficienza di energia. Come per una rockstar, la sua morte prematura lo ha trasformato (non dico elevato) in mito e tutti i cambiamenti che ci sarebbero potuti essere in lui, si sono interrotti improvvisamente facendolo ritirare dalla scena come un campione imbattuto. Non campione dello sport ma dell’essere Maestro. Chissà, se avesse vissuto ancora, se avesse potuto diventare più banale e quindi meno complesso, irregimentato da una donna nevrastenica con le tettone che lo dominasse o da una vita stanca. Chissà… Pensieri che si inseguono fantasiosi mentre osservo la bella foto di Manera di lui che scala lo spigolo ovest del Becco di Valsoera mentre si allarga in spaccata in un grande…diedro!
Spigolo e diedro: immagini di opposte strutture o speculari. Come la fede in Dio, nulla esisterebbe se non fossimo noi a dare un ordine alle cose. Se così non fosse, saremmo come gli altri animali, ma invece siamo quelli che Brecht definiva pieni di capacità e con un solo difetto: possiamo pensare.
bellissima anche la seconda parte, un ricordo oggettivo e insieme una riflessione su un’epoca ormai passata, con spunti che fanno pensare molto ancora oggi.
davvero un grande affresco, di fatti, persone e riflessioni. complimenti e ancora grazie.
e poi alcuni scatti iconici, come quello al tetto della Sbarua che ha accompagnato tutta la mia infanzia, come una chimera… così come quella storia dell’alpinismo che nel 77 componeva gli ultimi due volumi dell’enciclopedia della montagna ed era un mare in cui perdersi.