La struttura parallela del CAI
di Carlo Possa (pubblicato su www.mountcity.it il 22 dicembre 2015 e ripreso per gentile concessione)
L’editoriale del presidente generale del CAI Umberto Martini, pubblicato su Montagne360 di dicembre 2015, confesso che mi lascia un po’ perplesso. Uno dei temi più dibattuti, prima e durante il Congresso nazionale del CAI di Firenze, è stato quello del rapporto tra volontariato e professionismo, e in particolare la proposta di creare una struttura parallela con finalità più economiche ed imprenditoriali. Sia nell’ampio dibattito che ha preceduto il Congresso, che negli interventi che si sono succeduti a Firenze, questa proposta – come peraltro era prevedibile – non sembra avere raccolto grande entusiasmo.
Franz Kafka (1905)
Ora, nell’editoriale di dicembre, il presidente Martini scrive che “da diversi interventi è emerso il timore che a una non meglio definita ‘struttura parallela’ potessero essere affidati compiti dell’espletamento di attività che attualmente e meritoriamente vengono organizzate e svolte con l’impegno volontario di soci”, quasi a dire che chi ha espresso timori (in realtà in molti casi si è trattato di contrarietà) abbia frainteso il ruolo di quella “non meglio” definita struttura parallela.
Vorrei ricordare che la non meglio definita struttura parallela è stata invece definita benissimo e con chiarezza (e così chiamata) dallo stesso presidente generale nella sua relazione all’Assemblea dei Delegati di Sanremo e nella relazione morale pubblicata da Montagne360 nel giugno del 2015. “E’ necessario creare una struttura parallela e professionale di gestione che si occupi della produzione di beni e servizi ‘profit’, da quelli immobiliari a quelli culturali, che oltre a far conoscere e diffondere presso il pubblico il ‘brand’ CAI come marchio di qualità legato alla montagna, contribuisca tramite l’autofinanziamento ad alleggerire il bilancio da quelle voci che in modo diretto o indiretto attualmente gravano sui soci”.
Così le parole – nero su bianco – del presidente Martini. Sorvoliamo sull’infelicissimo uso del termine struttura parallela (evocativa di organizzazioni e operazioni molto lontane dallo spirito e dalla storia del CAI), ma che cosa si volesse intendere mi sembra chiarissimo. Chi ha espresso timori o contrarietà ha capito benissimo il progetto di “modernizzazione” del CAI.
Perché – come avevo scritto nel mio contributo alla discussione in vista del Congresso di Firenze – un conto è parlare di servizi, un conto è parlare di attività, o di assetto vero e proprio dell’associazione CAI. Offrire migliori servizi (legali, amministrativi, ecc.) ai soci e alle Sezioni sarebbe una cosa bellissima. Lo può fare una società di consulenza esterna, con cui aprire un rapporto professionale? Benissimo, facciamolo subito. Pensiamo solo se ci fosse una struttura esterna di professionisti in grado di individuare possibili finanziamenti europei, nazionali o regionali per il CAI. Sarebbe utilissima. Ma qui siamo nel campo dei servizi.
Altra cosa è creare una struttura parallela all’associazione. Nell’idea del presidente Martini si è prospettata una rivoluzione dell’attuale assetto del CAI. Per risolvere problemi reali si correrebbe il rischio fortissimo e pericolosissimo di snaturare l’assetto istituzionale del CAI (e anche i suoi oltre 150 anni di storia). C’è il rischio, come giustamente è stato scritto, di dare vita ad una bad company dove lasciare l’associazione, il volontariato, le assemblee dei delegati, i “casini” delle Sezioni, e una good company, dove allocare una buona fetta della parte economica, i rifugi, il merchandising.
Chi conosce il mondo delle associazioni sa che questo è un percorso che spesso finisce male, con un distacco sempre più marcato tra la parte associazione e la parte impresa, con la prima sempre in affanno a controllare la seconda (finché ci riesce). Sono questi i timori e le contrarietà che sono emersi, e mi sembra in maniera non minoritaria, sia prima sia durante il Congresso. L’editoriale del presidente Martini non mi sembra affatto che allontani i timori espressi, anzi, sembra riaffermare decisioni già prese.
Un’altra perplessità riguarda il tema dell’eccessiva burocratizzazione del CAI. Ormai è insopportabile. Le pastoie burocratiche (così le definisce Martini), che il CAI stesso ha alimentato, stanno in molti casi impedendo alle Sezioni di svolgere il loro ruolo istituzionale. Ci sono Sezioni che non riescono ad organizzare i Corsi; ci sono soci che preferiscono svolgere una attività di promozione verso la montagna fuori dal CAI; diventare “titolato” nel CAI oggi è ormai più complicato e specialmente oneroso che diventare un professionista della montagna.
Scrive il presidente Martini che questi regolamenti (spesso assurdi e contradditori – questo lo dico io) nessuno ce li ha imposti. Allora non capisco: se nessuno ce li ha imposti, perché ci sono? Si dice che gli Organi Tecnici Centrali si sono presi troppa autonomia. Ma sono organi appunto centrali. Chi li doveva controllare? Negli ultimi anni sembra che il CAI a livello centrale abbia operato per smorzare l’entusiasmo dei soci più attivi e per mettere i bastoni tra le ruote delle Sezioni che hanno voglia e capacità di operare.
Se gli Organi Tecnici Centrali hanno preso decisioni controproducenti, non se n’è accorto nessuno? Diciamolo chiaramente: il malumore delle Sezioni verso questa eccessiva burocratizzazione, verso una “regolamentite” spesso asfissiante, non è di oggi. E che gli Organi Tecnici Centrali non siano cosa “altra” rispetto al CAI lo dice lo Statuto Generale: al Comitato Centrale competono la scelta degli Organi Tecnici Centrali, la loro nomina o l’elezione dei componenti e del presidente, le funzioni di indirizzo, di coordinamento e di controllo.
O era sbagliata la strategia, o questa deriva centralistica era condivisa. Prima che il CAI diventi una organizzazione basata solo sui regolamenti, e non sulle Sezioni, sui soci e sulla loro voglia di impegnarsi, dobbiamo cambiare veramente il CAI, non con strutture parallele kafkiane, ma con una struttura centrale agile, dinamica e in piena sintonia con le Sezioni e i soci. Se vogliamo essere un CAI moderno e attrattivo, e non il castello di Franz Kafka, dobbiamo cambiare molto, e subito.
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Riporto alcuni stralci di un intervento che ho fatto sul finire del secolo scorso ad un convegno veneto friulano giuliano del Cai e che considero ancora attuali. “Nel 1963 la legge 91 sul riordinamento del Cai se da un lato conferma ruoli e prerogative che il sodalizio si era ampiamente conquistati sul campo, di contro lo sottopone alla vigilanza ministeriale e lo infarcisce nel suo massimo organo di rappresentanza di una burocratica pletora di funzionari statali. È questo uno dei primi sintomi della crisi di identità e di indipendenza del Cai cui si accoppia, sul finire degli anni 60, un problema di rideterminazione degli scopi istituzionali e uno di questi, se non il solo, viene ravvisato nella difesa dell’ambiente alpino. Naturalmente il perseguimento di questi obiettivi impone un più stretto contatto con le amministrazioni pubbliche locali e con il potere politico più generale, il che modifica consolidati metodi di comportamento dando spazio a persone che per vocazione ed attività hanno a volte poco a che fare con l’alpinismo. Il Cai entra così in una fase che si potrebbe definire sociale e assume comportamenti da ente pubblico: si burocratizza, diviene lento nelle decisioni e perde di vista i suoi originari scopi di istituto per abbracciarne altri di più ampi e per questo più indefiniti. Viene poi a mancare un certo tipo di entusiasmo che richiede intraprendenza, fantasia e coraggio: per questo il Cai ha bisogno del pubblico denaro e non è più in grado neppure di mantenere in efficienza quelle opere che in anni più difficili furono realizzate senza aiuti da pochi soci entusiasti. Allora io credo che sia necessario diventare meno gestori della quotidianità, del contingente e che occorra recuperare in progettualità, in idealità, riconquistare la gioia dell’utopia, delle scelte ardite, che potrebbero passare anche attraverso amputazioni dolore ma farci riconquistare in libertà. Bisogna allora ritornare all’interno dei nostri originari fini istituzionali, magari perdendone qualcuno che forse ci impiccia o ci porta fuori strada, anche perché bussano alla porta i cultori di nuove discipline che si praticano in montagna ed anche perché il Cai corre il rischio diventare un mastodonte che perde di vista l’alpinismo. Alpinismo che è libertà, fantasia, sport, appagamento estetico e anche rischio. Alpinismo che in fondo diventa carattere dello spirito, quindi praticabile in ogni età ed anche esportabile in altri ambiti. A questo riguardo un ruolo trainante e di stimolo avrebbe potuto svolgerlo, ma non lo ha fatto, il club alpino accademico che vive in un mondo un po’ chiuso, pubblica un annuario che pochi leggono e non sa comunque essere di guida. Per questo auspicando un Cai forse meno numeroso, meno impegnato in questioni e problemi ai margini dell’alpinismo, quindi più Club e meno gestore di servizi, vi ripropongo una preveggente intuizione di Bepi Mazzotti: ” l’alpinismo, raggiunta la perfezione tecnica, deve rivolgersi al miglioramento della sensibilità individuale. Impresa ardua, ma è certo che la futura evoluzione dell’alpinismo, e io aggiungo del Cai, dipende da questo perfezionamento”.
Ricordo che Martini e tanti altri alti dirigenti non sono mai andati e non hanno intenzione di andare per monti (lo ripetono spesso) e se ci devono andare usano l’elicottero.
Ricordo anche che una associazione di 300.000 soci è enorme ed è un centro di potere significativo (il PD ha molti meno tesserati della metà di quelli del cai; a Bergamo fra 1/20 e 1/10, dimensionalmente siamo lì)
Mi sembra che tutti i gruppi, sottogruppi, scuole, commissioni e quant’altro nel cai siano da anni perfettamente allineate con lo “spirito” direi esclusivamente politico della direzione.
Quindi o stiamo, o stracciamo, o facciamo altro.
Benassi, se non riusciamo a cambiare nemmeno l’accademico (300 persone) introducendo solo giovani molto bravi e mettendo da parte molte candidature mediocri, penso che scuole, commissioni culturali, attività fondanti….. insomma competenze e capacità rimarranno secondarie rispetto alle conoscenze personali e alle amichevoli certificazioni.
Ma viviamo da italiani
Sono socio CAI dal 1979, istruttore di alpinismo dal 1984 e membro del C.A.A.I. gruppo orientale dal 2000 e sono stato per parecchi anni volontario di soccorso alpini.
Penso di aver dato parecchio al CAI e il CAI qualcosa ha dato a me.
Adesso con tutto questo mondo mi ci vedo sempre di meno.
Ripeto mi viene sempre più la voglia di strappare la tessera
Dipende da dove ci si pone per valutare questa proposta di “mondo parallelo”.
Se si è soci, di solito si vive l’associazione, come riferimento dove trovare altre persone
con cui condividere la propria passione per la Montagna e poi (non per tutti)
sentirsi parte di un realtà, con valori che ha acquisito in più di 150 anni di storia.
Se però si varca il confine che “da socio e basta” si entra “dentro” nel motore che
si occupa di organizzare le attività, ci si rende conto che la realtà è ben diversa.
Sappiamo che le regole non vanno d’accordo con termini come Fantasia, Libertà, che sono stati (e spero lo siano ancora per qualcuno) i motori che hanno spinto “andar per monti”
Però ai tempi non pensavamo che a insegnare a conoscere e amare la Montagna, si rischiasse di andare davanti a un giudice, non pensavamo che una sezione proprietaria di un rifugio, rischiasse di trovarsi nelle grane con Asl, Guardia di Finanza, ecc, non pensavamo che a gestire una sezione comportasse una massa di implicazioni burocratiche sempre più restrittive.
Sia chiaro è giusto definire le varie responsabilità quando ci sono, ma ricordiamo anche che questi istruttori/dirigenti/ sono VOLONTARI!
Voglio poi sottolineare come sia cambiato la figura di socio nel tempo. Prende sempre più spazio il socio che non ha il “senso dell’appartenenza” ma spesso identifica il CAI come una semplice agenzia di servizi.
Quindi occorre cautelarsi di fronte a richieste di danni di qualsiasi genere, vedi la sentenza di Milano
http://www.alessandrogogna.com/wp/wp-content/uploads/2014/07/Sentenza-n.-12900-del-2012-Corte-di-Cassazione.pdf
Per fronteggiare tutto questo, occorre avere strumenti adeguati, pertanto ben vengano proposte che cerchino di trovare una soluzione adeguata ai tempi che viviamo.
Certo è che i parlamentari amici della Montagna, invece che a scaldare le sedie ai vari convegni, avrebbero dovuto lavorare molto di più per difendere il ruolo istituzionale del Club Alpino!
forse sarà la vecchiaia che avanza e, chi è vecchio dice che i tempi andati erano i migliori, ma mi viene sempre più la voglia di strappare la tessera.
In fondo come qualcuno, qui ha già scritto, per andare ai monti, per cercare solitudine e avventura non c’è bisogno del CAI…….ANZI!!!