Non ha mai smesso di crederci l’autore, attivista ambientalista della prima ora e dirigente toscano degli Amici della Terra, in una evoluzione del movimento verde europeo verso una politica razionale, pragmatica, riformatrice. L’evoluzione non c’è stata e, anzi, le istituzioni europee sono state negativamente condizionate da un’ideologia velleitaria e contraddittoria che porterà ad un inevitabile declino. Non rimane che lavorare per una svolta.
La svolta o il declino
di Sergio Gatteschi
(pubblicato su astrolabio.amicidellaterra.it il 12 luglio 2023)
C’è un grande interrogativo nella politica europea di questi anni, talmente vistoso da diventare imbarazzante, talmente grande da essere rimosso.
Perché, in un momento della storia in cui tutta la politica, l’opinione pubblica, l’establishment, le aziende, la pubblicità, il senso comune, riconoscono la centralità dell’ambiente, e non si vende più nemmeno uno spillo senza definirlo verde, o green, le associazioni ambientaliste e le rappresentanze politiche dei Verdi sono di fatto irrilevanti in tutta Europa?
Perché le questioni ambientali appaiono oggi più patrimonio del Papa o dei burocrati di Bruxelles che degli ambientalisti organizzati, superati sulla ribalta anche da isterici giovanotti che bloccano il traffico o imbrattano monumenti?
Per capirlo, occorre un passo indietro e tornare alle origini, quando l’ambientalismo irruppe nella vita politica del continente, come movimento politico e filosofico che non voleva accodarsi a ideologie precedenti, ma riconsiderare l’intera società alla luce di un rapporto rispettoso dell’ambiente. Cosa ne è rimasto? Molto poco, perché la innovativa terzietà e creatività non ha fatto mai veramente breccia nel grosso del movimento.
La politica del “più uno”
La maggioranza è stata colonizzata dal tradizionale movimento di sinistra antisistema e ha preferito valorizzare l’estremismo verbale e posizioni che l’hanno allontanata dalle persone di buon senso.
Invece di accompagnare la nostra società verso una crescita collettiva, l’ambientalismo organizzato si è auto isolato, senza riconoscere tutto ciò che di buono veniva realizzato, avversando in modo ideologico soluzioni tecniche e politiche efficaci per l’ambiente e l’economia per rivendicare costantemente un di più irraggiungibile.
Eppure, i dati sono chiari e a disposizione di tutti: un termovalorizzatore contribuisce alla gestione dei rifiuti di più e meglio di esportarli, o di mandarli in discarica; estrarre in Italia petrolio e gas ha un impatto ambientale quaranta volte inferiore all’importazione; rafforzare il trasporto su ferro, dai tram all’alta velocità, è vitale. E potremmo continuare a lungo, dalla Xylella ai rigassificatori.
Non solo: i dati, inequivocabili, ci dimostrano che l’inquinamento è diminuito in modo esponenziale in tutto il continente europeo, e che il mitico passato che viene invocato e mitizzato era un passato in realtà molto, molto più sporco dell’attuale presente.
Alle contraddizioni incomprensibili non sfuggono i verdi tedeschi che venivano lodati da più parti come pragmatici: chiudere le residue centrali nucleari in Germania ha rappresentato affidarsi al carbone, anzi alla lignite, e aumentare le emissioni di carbonio in misura tale da azzerare ogni altro sforzo…
In tutta Europa una impostazione utile e concreta non ha prevalso; non solo, la visione estremista, dirigista e punitiva dell’ambientalismo è stata fatta propria – senza troppe discussioni – dalla politica e dal sistema di potere fino a determinare le azioni di figure centrali della burocrazia europea, a cominciare da Frans Timmermans, Commissario europeo per il clima e il Green Deal europeo. E qui arrivano, e arriveranno, pagine molto dolorose per l’ambientalismo e le forze politiche che l’hanno sposato nella sua versione peggiore.
Divieto di installare caldaie a gas, divieto alla immatricolazione di auto a benzina e diesel, 100% di energia elettrica da fonti rinnovabili (solo eolico e fotovoltaico però…) subito, e via dicendo, sono provvedimenti di difficile realizzazione, molto costosi, che penalizzano l’industria europea, vanno a pesare sui bilanci delle famiglie e non solo degli Stati membri, e con risultati assai dubbi.
Qualcuno si ricorda dei gilet gialli, la rivolta popolare che si è scatenata in Francia contro gli aumenti del prezzo dei carburanti; più in generale, qualcuno si è già accorto che le destre europee fanno dell’anti-ambientalismo un argomento vincente nelle loro campagne elettorali?
Purtroppo, non si leggono analisi un minimo autocritiche sui veti apposti, sulla guerriglia continua – fatta arbitrariamente in nome dell’ambiente – contro ogni provvedimento, che si tratti di una pista aeroportuale, dell’Ilva o di un rigassificatore.
Dobbiamo continuare così? Ovviamente no.
Dove è una visione che esca dai vecchi schemi, che abbandoni una volta per tutte la rappresentazione macchiettistica del malvagio capitalista con la tuba, poi evolutosi nelle multinazionali, poi finanza internazionale che, ovviamente, è anche un cattivissimo inquinatore?
Una visione realistica dei problemi ambientali e di loro soluzioni concrete e positive non ha mai smesso di essere presente, gli Amici della Terra in Italia ne sono un esempio, come lo è una vasta collettività di esperti, attivisti e operatori, ancora capace di discutere, e ansiosa di esprimersi negli scarsi spazi di informazione rimasti. Da una visione simile occorre ripartire.
A che prezzo “decarbonizzare” la società? E come farlo?
La prima considerazione è riconsiderare l’urgenza con cui si pretende che vengano realizzati i provvedimenti per realizzare gli obiettivi – giusti, non siamo certo a metterli in dubbio – di decarbonizzazione.
Una urgenza che travolge il buon senso, che non è giustificata dai fatti, e serve solo a cercare di far sentire il cittadino europeo colpevole di ogni disgrazia. Non fai bene la differenziata? Non vai in bicicletta? Non hai pannelli solari? Allora è colpa tua se ci sono alluvioni, siccità, riscaldamento globale, la fine del mondo. E queste condanne senza appello colpiscono l’immaginario, tanto da generare il fenomeno dell’”ecoansia” tra i giovani, ovviamente bianchi e benestanti.
Non sembra invece tanto difficile da capire che una simile battaglia per salvare il clima del pianeta dalle emissioni di CO2 sia già ampiamente persa, e che noi europei siamo, in questa fase storica, in pratica ininfluenti al riguardo.
Oggi l’Europa contribuisce alle emissioni climalteranti per meno il 7,3%, alla pari con il 7% dell’India, mentre la parte del leone la fa la Cina, il 33% del totale nel 2021. Da sola, la Cina supera la somma delle quattro economie che la seguono: Stati Uniti (12,5%), Unione Europea (7,3%), India (7%) e Russia (5%). Pechino punta a raggiungere il picco di emissioni «prima del 2030»: significa che non smetterà di aumentarle per diversi anni ancora.
Dal momento che le economie emergenti non hanno nessuna intenzione di ridurre le loro emissioni, e lo rivendicano anche, gli investimenti di Europa e Usa non bastano. Quindi, non esiste una urgenza europea tale da devastare il paesaggio e l’economia, tanto per essere chiari, o per autoimporsi obiettivi impossibili, come il 100% di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, oltretutto identificate solo in eolico e fotovoltaico.
Possiamo, e dobbiamo, proporre un ambientalismo che tenga conto della realtà e dei dati di fatto, quindi, che rivaluti ciò che di buono è stato fatto ed esiste, e che rilanci l’iniziativa per l’ambiente in modo che sia ancorata a dati di fatto incontrovertibili, non si lanci nella ricerca del sensazionalismo, proponga azioni concrete e fattibili che non siano punitive per gli strati più poveri della popolazione, si ancori con forza al mondo del lavoro ed alle sue esigenze.
Quale mix energetico
I dati attuali riportati dalla Statistical Review of World Energy 2023 mostrano che la domanda globale di energia è aumentata dell’1% nel 2022 e che la crescita record delle energie rinnovabili non è riuscita a spostare il dominio dei combustibili fossili, che rappresentano ancora l’82% dell’offerta.
Molti sedicenti ambientalisti fanno finta di non conoscere questi dati, per cercare di imporre una soluzione “tutta elettrica da rinnovabile” che soluzione non è, nemmeno nell’Europa che ambisce essere la prima della classe.
Le politiche europee dovrebbero basarsi, come sosteniamo da anni, anzitutto sulla ricerca dell’efficienza per ridurre i consumi a parità di servizi, dal patrimonio edilizio alla produzione industriale e agricola, ai trasporti. E, per ciò che riguarda l’offerta, su un mix di tutte le fonti (e di tutte le modalità) che garantiscano una riduzione graduale ma certa delle emissioni di carbonio.
Con la consapevolezza che l’uso dei fossili, in particolare del gas, accompagnerà la transizione ancora a lungo, il mix energetico non potrà escludere il nucleare, le biomasse, il recupero di energia dalla frazione residua dei rifiuti, la geotermia, l’idroelettrico, il solare, l’eolico, valutando caso per caso le soluzioni più appropriate.
Senza alcun pregiudizio, dunque, purché la valutazione dei costi e dei benefici per ciascuna fonte includa tutte le fasi del ciclo di vita degli impianti necessari, compreso lo sviluppo delle reti, lo stoccaggio giornaliero e stagionale dell’energia prodotta, l’estrazione, la lavorazione e l’approvvigionamento delle materie prime, il consumo di suolo e il danno rilevante al paesaggio: tutte le condizioni cioè che svelano perché non sia credibile una decarbonizzazione fondata solo su eolico e fotovoltaico e perché, nonostante i sussidi, queste fonti non si siano autonomamente imposte sui mercati.
Produrre energia e merci in Europa, aprire all’estrazione dei materiali rari
Credo che sia necessario mettere in atto politiche per mantenere e riportare sul nostro continente parti significative delle produzioni industriali strategiche che sono state delocalizzate in questi anni, a cominciare dalla produzione dell’acciaio. Se è vero che la questione climatica è globale, è un controsenso affidare la produzione di questi materiali a paesi che si basano su un mix energetico in cui la parte del leone la fa ancora il carbone.
Deviare gli incentivi disponibili sulla produzione (come, per motivi strategici, stanno facendo gli USA) porterebbe finalmente l’ambientalismo a un necessario patto con il mondo del lavoro.
Quindi, a diventare socialmente desiderabile e finalmente interessante per i lavoratori.
C’è anche un altro capitolo da considerare, vale a dire l’aspetto strategico della produzione nel modo globalizzato e interconnesso. Abbiamo visto tutti cosa significa essere dipendenti da paesi ostili nel campo delle forniture energetiche: lo stesso principio pesa moltissimo sulla produzione industriale, sulla ricerca scientifica, sul commercio, sulle linee di trasporto, sul controllo delle comunicazioni e dei dati. Appaltare alla Cina o ad altri la nostra decarbonizzazione, dai pannelli fotovoltaici alla costruzione di batterie, è un errore colossale ambientale e politico-strategico; così come lo è affidare alla Cina porti e infrastrutture, o il 5G.
L’ambientalismo deve accettare con chiarezza che non solo la produzione strategica, ma anche l’estrazione dei fossili necessari alla transizione e dei materiali rari necessari alla decarbonizzazione avvengano sul nostro continente. In Italia, possiamo dare il buon esempio: abbiamo cobalto, titanio, e altri materiali indispensabili alla transizione.
Saremo capaci di uno sforzo collettivo per produrre sul nostro territorio, per estrarre i nostri combustibili fossili (il che da solo abbatterebbe di molto le emissioni, ricordiamoci che l’importazione di fossili dall’estero emette 40 volte la produzione in loco), per aprire o riaprire miniere nel modo meno impattante possibile?
Non è una provocazione, è la proposta di un percorso ambientalista che gestisca sul serio la necessaria transizione globale verso la decarbonizzazione, e una richiesta di coerenza innanzitutto a coloro – ambientalisti e no – che pretendono di decarbonizzare il sistema affidandosi esclusivamente a solare ed eolico.
Servono prove di consapevolezza. Altrimenti, dell’ambientalismo non resteranno che molte chiacchere e tanto petrolio e gas (e nucleare) e materie rare importate dall’estero, sperando che nessuno dei nostri attuali fornitori segua l’esempio della Russia…
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7. Oltre a questo a mio parere inutile pippone, qualcosa da dire nel merito di quanto segue o se ci si pone qualche dubbio si passa automaticamente dalla parte dei fanatici ambientalisti?
Falde acquifere contaminate, aria irrespirabile, maggiore incidenza di tumori e malattie respiratorie sono alcuni degli impatti sull’ambiente e sulla salute dello sfruttamento petrolifero nella Val d’Agri, in Basilicata.
Ecc. ecc.
Il link è al mio intervento precedente.
La degenerazione del movimento ambientalista verso il “gretismo” odierno era facilmente prevedibile e pressoché inevitabile, data l’assenza o inefficienza di robusti meccanismi di controllo interni al movimento stesso. Come ho ricordato in un’altra discussione, quando entrano in ballo fattori suscettibili di suscitare forti posizioni ideologiche, c’è sempre uno più puro che ti epura. In altri termini, il fanatismo e l’assolutismo finiscono pressoché sempre per avere la meglio su posizioni più ragionevoli ed equilibrate, semplicemente perché troppa gente si lascia facilmente sedurre da atteggiamenti bianco/nero, buono/cattivo piuttosto che da argomentazioni logiche. Il fenomeno diventa poi tanto più grave, quanto più lo stesso movimento originale, pur se eminentemente razionale, ha commesso l’errore fatale di cercare di allargare la propria base di supporto facendo leva su aspetti e azioni “de panza” piuttosto che di cervello. La storia ce ne fornisce innumerevoli esempi, e anche in Italia abbiamo avuto un caso da manuale con la deriva di certe posizioni di sinistra che sono sfociate nel terrorismo delle Brigate Rosse.
Pur simpatizzando con le idee dell’ Autore, temo quindi che sia ormai di gran lunga troppo tardi per far rientrare il genio nella bottiglia. Quella che era la ben giusta lotta per la difesa dell’ambiente è diventata non pure il campo di battaglia dei “gretini”, ma – cosa ben più grave – degli interessi di chi li manovra come burattini.
Quanto ai Verdi tedeschi, la loro testarda ostinazione nel bloccare qualsiasi ipotesi di un ritorno al nucleare, anche a costo di usare del carbone di scarsa qualità, nasce esclusivamente dal fatto che dopo la loro inclusione nell’attuale coalizione di governo, il partito ha completamente rovesciato le sue posizioni originali di pacifismo e antimilitarismo per diventare invece il più accanito sostenitore dell’imperialismo americano. Sui motivi di questa virata, si possono fare delle interessanti ipotesi, ma il fatto in sé è innegabile. Il rifiuto del nucleare rimane quindi l’unico punto di contatto tra la dirigenza del partito, e quella che era la sua base elettorale.
Caro Fabio,
trovo che pensare di salvare la pelle votando per un partito politico sia più paradossale, soprattutto di questi tempi.
https://altreconomia.it/linganno-per-chi-vale-il-petrolio-in-basilicata-il-webdoc-di-recommon/
Ecco, poi ci si chiede come mai in Italia molti sono colpiti dalla sindrome del Nimby. Sarà mica che hanno ragione?
1) Se l’ambientalismo fosse “intelligente” e “sostenibile” (parola di moda), cioè realistico, io lo voterei.
2) Se l’ambientalismo è integralista, irrazionale, insostenibile, io mi rifiuto di votarlo. Piuttosto voto il PCI (Partito Cementieri Italiani).
P.S. L’ultima frase è scherzosa, naturalmente. Ma il paradosso serve per far capire che i Verdi, partito addirittura a sinistra del PD (!), si pregiudicano il favore di milioni di italiani con la loro politica integralista, irrazionale, insostenibile, fanatica. Il tutto, ottusamente, a scapito della protezione dell’ambiente.
Cosí si ragiona sul pianeta Papalla. Scendete sulla Terra.
In altre parole quello che nasce dall’analisi di un laureato in filosofia e presidente dell’Agenzia Fiorentina per l’Ambiente, che scrivendo l’articolo confonde inquinamento e pulizia…
Sisì, è certamente “ambientalismo” utile…resta solo da vedere a chi!
Forse perché l’ambiente è uno, le idee condivise dai più ma disperse in mille rivoli di associazioni, partitini sorrette ognuna da un presidente, una segreteria un ufficio stampa che dicono tutte le stesse cose ma che non possono essere votate in maniera univoca e pesare nel piano politico. Dividi et impera è ben applicato, e senza coercizione, dal mondo finanziario. Unitevi e conterete
L’ambientalismo “utile” è quello “intelligente”, non quello “integralista”.