La terra delle leggende
Lettura: spessore-weight***, impegno-effort*, disimpegno-entertainment*
Avevo visto di sfuggita Grand Hôtel e Lago di Carezza durante un lungo viaggio in torpedone, una visita giornaliera a tutte, dico tutte, le Dolomiti. In preda alla nausea da corriera mi ero aggirato triste sulle affollate sponde del lago in un grigio giorno d’agosto 1958. Dal mio diario, 1959: “La mamma, la nonna ed io avevamo appuntamento con amici alla chiesetta di Barbide, Soraga, per andare a piedi al Lago di Carezza. Ma l’appuntamento fallisce, così andiamo soltanto io e la mamma. Per lei fu una sfacchinata orribile. Dopo tre ore arrivammo al lago, dove trovammo gli amici e la nonna. Non avevano fatto un passo a piedi. Ma mi vendicai: dopo aver mangiato, li convinsi tutti a scendere fino a Nova Levante dicendo loro che c’erano solo 2 km (in realtà 5, con le scorciatoie). Il pomeriggio era soffocante, fui maledetto e, nel centro di Nova Levante, aspettando la corriera, l’atmosfera era assai tesa”. Ma, a dispetto delle sgridate, certi angoli delle Dolomiti ti prendono per mano e ti accolgono in intimità segreta e suggestiva: re e principesse, maghi e guerrieri, streghe e nani ci camminano accanto e ci parlano. Gli antichi abitatori di quelle valli ladine hanno tramandato le loro leggende di padre in figlio, hanno animato di voci e popolato di fantasmi i boschi ed i laghi, i ruscelli e le cime, e hanno donato al loro bellissimo paese quell’atmosfera di fiaba che un animo sensibile avverte anche oggi: solo però nei luoghi che, per qualche ragione, più hanno conservato il proprio isolamento e quindi la propria dignità. Molti cercano la magia, sui libri, negli oroscopi, nei fenomeni paranormali. Consultano i maghi delle pagine gialle, cercando un conforto giocano con il loro futuro. Ma la magia è in noi e nella natura che ci circonda. Aristotele sosteneva che solo se si è vicini al mito si può essere davvero saggi: e cos’è il mito se non il mondo della fiaba, della leggenda e delle creazioni della fantasia? La negazione razionale di queste esigenze è ricorrente, sia nella storia della filosofia che nella vita di tutti i giorni: ad esempio, negli anni Settanta, una collana di fiabe per bambini annunciava avventure “della nostra epoca, senza streghe, maghi, principi”. Come sempre, il filone non ebbe molta fortuna, basta giudicare dalla quantità di personaggi fantastici che oggi affollano le serie televisive o i film di Disney. Sembra proprio che, soprattutto in un’epoca concreta come la nostra, il fabbisogno di magia ed incantesimi sia cresciuto a dismisura. Ciò che fa arrabbiare di più i pensatori concreti è che fiabe e leggende sembrano esistite da sempre, proprio perché se ne sono perse le origini e non si riescono a chiarire le condizioni in cui ne è stato abbozzato il primo intreccio poetico.
La Val d’Ega, “dell’acqua”, è la prima terra di leggende che, da Bolzano, s’incontra a destra dell’Isarco: all’inizio ci si trova incassati in un orrido di rocce rossastre (porfido), così verticale che solo nel 1860 vi fu costruita l’attuale strada. Un tempo si passava da Korneid (Cornedo) per una mulattiera lastricata ancora oggi parzialmente percorribile. Prima dello sfruttamento idrico il torrente doveva avere qui una furia selvaggia: oggi per noi spettacolare, una volta doveva essere terrorizzante. Lasciato l’orrido, la valle si apre appena, il verde dei prati e dei boschi ha il sopravvento, ma solo a Nova Levante (Welschnofen) si raggiunge la tipica dimensione dolomitica delle grandi foreste, dei pascoli e dei masi sparsi sotto alle bianche pareti che chiudono in alto la vallata. Poco prima di Nova Levante, a Ponte Nova, c’è il bivio per Nova Ponente (Deutschnofen), allargata su prati magnifici e al sole dal mattino alla sera, oppure a San Floriano (Obereggen), che una volta era l’insieme di qualche maso e oggi è un importante centro sciistico, specialmente per il fondo. Poco più a nord della Val d’Ega, ed ad essa parallela, è la Valle di Tires (Tiers). Non v’è alcun influsso ladino e questo lo si vede dalle costruzioni, rigorosamente rade e rispettose della superficie minima di ogni maso. Colpisce il numero di segherie attive sparse nel fondo valle vicino alle aggressive acque del Breibach. Sciliar (Schlern) e Catinaccio (Rosengarten) si innalzano con una catena di muraglie frastagliate, di pinnacoli e di creste. Viste dai pascoli dell’alta Val d’Ega, le ancor più tormentate architetture del Latemàr balzano su dal verde cupo di foreste di abeti che da sempre ospitano giochi d’ombra e di luce. La montagna che domina sia Nova Ponente che San Floriano è il Latemàr. Da questo lato (e quindi dal Passo di Pampeago) il Latemàr si lascia salire facilmente, pur tra colpi d’occhio grandiosi, in mezzo alle frastagliature della cresta sommitale del gruppo. Dove questo si mostra con maggiore imperiosità è proprio sul Lago di Carezza, ed è un’imponenza da cartolina. Detto fra noi, il Lago di Carezza conviene vederlo al mattino assai presto, preferibilmente a fine giugno: l’acqua, al massimo del livello, è assai più limpida, non c’è gente in giro, c’è il silenzio dei grandi avvenimenti. Ed eccolo, incastonato in un cerchio di abeti giganteschi come una liquida gemma di lapislazzulo: quello che i Turalignes, gli antichi abitatori di questi luoghi, chiamavano “Lec del Ergobando”, l’Acqua dell’Arcobaleno. La leggenda ladina racconta come lo Stregone del Latemàr vi avesse gettati e dispersi i frammenti dell’iride costruita per allettare e conquistare la ninfa Ondina, e vi avesse sepolti fors’anche i tesori che tante lotte scatenarono fra le diverse genìe dei nani. “Quei monti dolomitici sono il Rosengarten (il Giardino delle Rose), un nome che mai avreste associato al loro aspetto quasi spettrale. La luce del tramonto può tuttavia, per un momento, suggerirlo con le sue rosee tinte; ma queste passano e lasciano la montagna aspra e gelida” (J. Gilbert e G.C. Churchill, 1864). Quando la sera scende ed il roseto si spegne nell’ombra, un altro miracolo si rinnova: dalle caverne e dalle boscaglie sbucano i piccoli Salvani, si arrampicano sulle vette e cominciano a filare la luce della luna. C’era una volta un principe infelice perché voleva andare fin lassù: in sogno aveva conosciuto la principessa della Luna ed a lei erano tanto piaciute le rose di montagna che lui le aveva offerto. Perdutosi durante una caccia alle pendici del Latemàr, il principe incontrò in circostanze misteriose due anziani abitanti della luna che acconsentirono a portarlo con loro. Egli quindi poté conoscere davvero la principessa e sedurla con le rose di montagna. Ma siccome un terrestre a lungo stare sulla luna prima o poi diventerebbe cieco per il biancore eccessivo, ecco che i due si sposarono e lui portò lei sulla terra assieme ai bellissimi fiori della luna, le stelle alpine. Ma la principessa non poteva star lontano dal suo mondo pallido di luce bianca, si ammalò e stava per morire di nostalgia. Solo i Salvani potevano aiutarla, ritessendo ogni notte la rete di luce argentea dall’alto delle cime di quelli che d’allora in poi furono chiamati Monti Pallidi.
Latemàr non è sulla bocca di alcun abitante del luogo. In Val di Fiemme è usato il nome di Lastéi, mentre i contadini di Nova Levante chiamano la montagna Mittagspitze, cioè il comunissimo “Cima di Mezzodì”. È noto che i cartografi, appena potevano, escludevano le cime “delle Dodici” e registravano invece altri nomi attinenti. Ma al di là di un documento databile all’XI secolo, nel quale è nominata una Crispa de Laitemàr accanto ad un’altra montagna designata come Limidaralt, il toponimo ricompare solo in una carta del 1762 (De Spergs). È quindi un nome di origine assai incerta: mar, mares sono ritrovabili in tutte le Alpi in presenza di grandi distese di ghiaia o di frana; in veneto, laita è una rupe, in tedesco Leite significa costone, pendio; in latino latus è largo, grande. Un’altra interpretazione, forse un po’ forzata, si ha considerando da Limidar alt, confine alto, una possibile successione Limitàr, Litimàr, Laitemàr.
Carezza quasi certamente è l’interpretazione italiana di Karersee (lago di Kar). Kar significa conca, che potrebbe essere la conca boschiva sotto al Latemàr considerando anche però l’antica radice carra, presente in tutte le Alpi assieme a caire ed altre deformazioni, tutte con il significato di sasso, rupe. Le carte dell’Ottocento riportano Karessapass, Caretsa, Caressa per indicare tutta la zona a ovest di Costalunga, piena di acquitrini e prati umidi: il latino carex è la canna di palude. Rimane quindi un discreto margine di incertezza sulla provenienza del nome Carezza da Karersee.
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“Latemar…nel cuore..! Bellezza allo stato…Puro…!
Un incanto anche per me che il Latemar, riamato, ho amato.
Bella descrizione