Il concetto che l’uomo, cercando di sfuggire al fato, alla fine lo agevoli è vecchio come il mondo. Celebre è la canzone Samarcanda di Roberto Vecchioni.
In questo gustoso racconto del 1990, Alberto Paleari (nota guida alpina dell’Ossola) riesce con arguzia ad inserire tale principio in un contesto arrampicatorio.
Rileggere questo testo a distanza di circa 30 anni innesca un velo di tenerezza. Vi sono alcuni riferimenti comprensibilmente datati, perché figli di un tempo ormai andato: il telefono in auto non è più uno status symbol nell’attuale era degli smartphone a tutto spiano. Lo stesso “free climbing” è, oggi come oggi, roba vecchia, visto che siamo assillati anche dalle gare di arrampicata su strutture totalmente artificiali.
Però un concetto di fondo resta immutato: quando le più impensabili paure affastellano il cervello, si tende a reagire trincerandosi in un fortino. Basterà? Buona lettura (Carlo Crovella).
La Trave
di Alberto Paleari
(pubblicato su Roc, annuario di arrampicata della Rivista della Montagna, ottobre 1990)
Invecchiando, il ragionier Monti dello studio “Monti e Valli”, commercialisti associati…
(Invecchiando? Si può dire “vecchio” un ragioniere a cinquat’anni?).
Entrato dunque nell’età di mezzo, il ragioniere (e alpinista dilettante) Giancarlo Monti cominciò a sentire il peso delle responsabilità: lo studio, la casa, la moglie, i figli, i bot, i bit, cioè le stesse responsabilità che aveva anche l’anno prima, ma l’anno prima non sapeva neppure che fossero responsabilità. A cinquant’anni era ormai un arrivato: ufficio centralissimo, segretarie che sembravano essere state scelte fra le Blue Bells, Thema antracite con il telefono e via discorrendo…
Chissà perché, ad un certo punto il ragionier Monti fu preso da un’ansia, dalla paura di non farcela, da un’agitazione che lo teneva sveglio di notte, da angosce che non confessava neppure al suo compagno di cordata, socio e doppiamente cognato (avendo sposato le rispettive sorelle), il dottore in economia e commercio Guido Valli.
La prima vittima del malessere di Giancarlo fu l’attività alpinistica. «Miracolo!», disse la moglie di Giancarlo (e sorella di Guido) la prima domenica in trent’anni che il marito e il fratello non andarono in montagna. «Finalmente vi siete stufati!», disse la moglie di Guido (e sorella di Giancarlo), che però non si era affatto stufato e non riusciva proprio a capire la diserzione del socio, cognato, amico e compagno di cordata.
«In trent’anni non sono mai andato ad un concerto, non ho mai visitato una città d’arte, non ho mai fatto un viaggio, sempre solo in montagna» si giustificò l’amico, «tutte le domeniche a spellarmi le ginocchia sulla pietra come un ragazzino».
La verità era che aveva paura: paura di cadere, paura di farsi male, paura che la corda si rompesse, che la roccia si sgretolasse, che i chiodi uscissero, paura di finire in un crepaccio buio e freddo, paura della tormenta che acceca e di chissà cos’altro.
«La verità è che sei diventato un fifone» gli diceva Guido, «altro che concerti! Non te n’è mai fregato niente dei concerti!»
Dopo aver passato tre domeniche a guardare le partite di calcio alla televisione, Giancarlo decise di parlare schiettamente a Guido: era vero, non se la sentiva più di affrontare i ghiacciai e le grandi pareti, troppi pericoli (valanghe, temporali, frane, crepacci, congelamenti, assideramenti); ma avrebbe volentieri provato il free climbing di cui aveva letto che, svolgendosi su paretine alte venti metri e piene di chiodi, era più sicuro che giocare a bocce.
«A cinquant’anni!» esclamarono le mogli, sorelle e cognate che avevano sentito la conversazione, «con i vostri ginocchi da lavandaie, gomiti da tennisti, talloni d’Achille e colpi della strega?».
Come avevano sempre fatto, Monti e Valli non le ascoltarono neppure, ma andarono subito all’edicola a comperare “Spit”, la rivista del climber. Con “Spit”, nella loro casa (vivevano in una grande villa con due appartamenti e due piscine) entrarono i pantacollant fucsia, i rinvii, le ballerine (intese come scarpe e non come Blue Bells), le molle, i pesi, la trave da allenamento, un’intera farmacia di pomate antinfiammatorie e nuvole, nuvole, nuvole di magnesite.
Andarono ad arrampicare in falesia, o in palestra, come si ostinava a chiamare Guido quelle roccette in mezzo ai boschi che a volte faticavano ad uscire dalla cima degli alberi.
Anche i commercialisti faticavano a uscire dalla cima degli alberi; anzi, a volte faticavano persino a raggiungere il primo spit al quale Guido si attaccava sempre “per principio” (se c’è un chiodo, è stato messo per attaccarsi, altrimenti si poteva benissimo salire assicurati dall’alto).
Giancarlo invece, che era l’ideologo della nuova filosofia arrampicatoria, lottava fino all’ultimo per non attaccarsi, però alla fine si attaccava anche lui, ma non per principio, per necessità.
Anche in falesia Giancarlo continuava ad avere paura. È vero, qui non c’erano la tormenta e le valanghe, ma come erano lontani gli spit! Ogni volta che riusciva a moschettonare e a passare la corda nel rinvio era una resurrezione, ma poi bisognava salire: con lo spit alla pancia andava ancora bene, ma quando quello cominciava ad essere al ginocchio, all’altezza dei piedi o sotto i piedi, le gambe iniziavano a tremargli, e per arrivare allo spit successivo spesso mancavano ancora un paio di metri.
Quasi sempre Giancarlo non se la sentiva di percorrere quel paio di metri e cedeva il comando della cordata all’amico più coraggioso che, essendo stato un grande artificialista, con gancetti, uncini, piccoli friend, nut millimetrici infilati nella rugosità della roccia, cliff, staffe e altri aggeggi di sua invenzione riusciva a superare quei due o tre metri e approdare al nuovo ancoraggio.
Giancarlo aveva comperato nel negozio di articoli sportivi della sua città una trave, che è un arnese fatto di una resina speciale in cui sono scavati i vari tipi di appigli più comuni e cioè: reglettes, pincettes, bossettes, poignées, bidoigts, monodoigts, eccetera eccetera, tutti appigli francesi che però si trovano anche sulle rocce italiane. La trave va messa sopra lo stipite di una porta e poi, forza, se siete capaci tiratevi su.
L’aveva applicata alla porta del bagno con grande disperazione della moglie alla quale non piacque quella specie di trofeo grigio che rovinava le linee postmoderne della toeletta.
Invece di chiamare un muratore, si ostinò a volerla attaccare con le sue mani, usando i tasselli di plastica e le viti in dotazione, sporcando dappertutto e riempiendo la parete di fori inutili: era sempre stato negato per ogni tipo di lavoro manuale. Appena l’ebbe piazzata la mostrò a Guido e si esibì in una trazione di pochi secondi sulle reglettes da un centimetro.
Tra Giancarlo e la trave fu amore a prima vista, un vero ‘coup de foudre”: “c’è chi cerca l’avventura sugli ottomila, chi la cerca sulle pareti nord, chi sulle falesie e sulle vie lunghe un tiro di corda in riva al mare, chi la cerca sui massi di Fontainbleau, chi sulle palestre artificiali alte una decina di metri; io l’ho trovata su questa trave alta venti centimetri e lunga un metro, sulla quale posso sbizzarrirmi a inventare tutti i passaggi, tutte le posizioni, tutti i movimenti di una lunga arrampicata» disse qualche giorno dopo all’amico, «e senza alcun pericolo per di più».
Guido non capiva. Per lui esistevano le montagne vere e proprie e le palestre di roccia, riusciva a concepire che sulla trave ci si potesse allenare alle vere montagne, ma non che vi si potessero scoprire l’avventura e la poesia.
L’incidente capitò la domenica successiva: con la mano destra in un buco per tre dita, Giancarlo lanciò l’altra mano da una reglette posta all’estremità sinistra della trave a una bella manetta all’estrema destra. Urlò di soddisfazione per essere riuscito nel lancio, ma nello stesso momento il tassello destro, improvvisamente gravato di tutto il peso del ragioniere, con uno scricchiolio cedette.
Anche gli altri tasselli a uno a uno si ruppero causando la caduta del climber che, per salvare la trave, nel volo continuò a tenerla fra le mani senza pensare a ripararsi e, picchiata la testa contro lo spigolo di marmo del monumentale bidet postmoderno, ci restò secco.
Ora nel bagno, proprio sopra il bidet, c’è una piccola croce di ferro battuto simile a quelle che si vedono sulle vie di roccia e sulle cime delle montagne. Sotto la croce, una scritta commemora la scomparsa dell’alpinista.
Accanto ai saponi e ai deodoranti intimi, in un vasetto di vetro che forse fu della marmellata, una mano pietosa ha infilato un garofano di plastica.
30
Io sono un ragioniere e sono un alpinista, scarso e limitato, ma sempre alpinista sono, non per capacità ma per amore. Molte volte ho avuto paura, quando mi sono trovato in situazioni difficili guardando in basso mi sono chiesto ” cosa ci faccio qui, perchè mi sono cacciato in questo guaio, questa è l’ultima volta. Poi a casa seduto sul divano penso ” quando non riuscirò più ad essere lassù sia per il tempo che passa o per una malattia quanti rimpianti avrò, riuscirò a perdonarmi?. La domenica dopo riparto perchè la “tavoletta” non può bastare.
Nel Viaggio del “Viaggio di Oreste P.” si trova pure il brano Maria, di cui l’altro giorno mi sono dimenticato. Eccone un estratto:
“[…] Ti ricordi, Maria? Avevi paura della vecchiaia ma non della morte. Io invece ho cominciato a pensare alla morte e ad averne paura a dieci anni, e ancora oggi che ci sono arrivato non sono pronto, non ho capito. Non ho capito mai niente, della vita, delle donne, dell’amore […]. Ho sempre avuto simpatia, comprensione, affetto, per i drogati, i falliti, gli ubriaconi, i suicidi, i perdenti, i deboli. Ho sempre avuto compassione per quelli che si sono arresi alla vita, per quelli che si sono lasciati andare, per gli smidollati, per quelli che da giovani promettevano cosí bene… Erano miei fratelli, li capivo, erano come me…”.
Caro Alberto, che ti devo dire? Questa è la vita: si nasce, si vive, si muore. Qualcuno di voi ci ha capito qualcosa?
… … …
Ecco come Tiziano Terzani conclude In Asia, antologia dei suoi scritti su quel continente: “[…] sempre più mi domando se, dopo tanta strada fatta altrove, in mezzo a tante genti diverse, sempre in cerca d’altro, in cerca d’esotico, in cerca d’un senso all’insensata cosa che è la vita, questa valle non sia dopotutto il posto più altro, il posto più esotico e più sensato; e se, dopo tante avventure e tanti amori, per il Vietnam, la Cina, il Giappone e ora per l’India, l’Orsigna non sia – se ho fortuna – il mio vero, ultimo amore”.
Terzani volle poi finire i suoi giorni ad Orsigna, dimenticata valle dell’Appennino Pistoiese.
P.S. Scusate il mio intervento fuori tema, ma non potevo perdere l’occasione.
Ringrazio tutti per la benevolenza. Il senso del racconto è quello rilevato da Carlo e Lorenzo: il destino del ragionier Giancarlo Monti era quel vasetto della Nutella col garofano di plastica a cui ha tentato in tutti i modi di sfuggire. Non avrei mai pensato di essere accostato ai Pink Floyd, grazie Marcello, sono il mio gruppo preferito un giorno sì e uno no, in concorrenza coi Rolling Stones, ma anche l’uso dell’iperbole ha dei limiti. I Pink Floyd sono troppo!
Un racconto breve che merita di essere letto. Uno spunto per riflettere sui valori che ci spingono ad affrontare certe discipline!
Non ci sono piú i provveditori di una volta…
😂😂😂
Coraggio Fabio non sono solo i commercialisti ad avere un’anima! Pensa che il Provveditore agli studi della provincia di Imperia ha chiodato e liberato le vie più difficili di Finale (scusa se è poco).
Alcuni suoi tiri ai Missili, valutati (prudenzialmente) 8b e 8c sono vent’anni che aspettano ancora la seconda ripetizione (eppure in tanti ci hanno provato, anche se non lo dicono).
Si chiama Luca Lenti ed è un classico esempio di “eroe silenzioso”.
Il racconto di Paleari, tornando “a bomba” è magnifico: ironico, scanzonato, corrosivo, sconcertante, a seconda di come lo leggi.
Saluti a tutti.
Leonardo Castagnoli
Agh!!! Marcello, con poche parole tu hai distrutto tutta la mia teoria “filosofica”.
Potrei obiettare che una rondine non fa primavera, ma è giusto riconoscere a Cesare ciò che è di Cesare. Insomma, pure i commercialisti hanno un’anima.
Grande racconto che ricordavo dai tempi de La Rivista della Montagna ancora edita Cda. Non so quante copie ho acquistato per fare dei regali di Il Giorno dell’astragalo. Visto che l’altro solo regalo seriale che faccio è The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, Alberto non potrebbe lamentarsi.
Comunque il mio commercialista fa l’8b.
Sono riuscito a ripescare dal mare magnum della mia biblioteca di montagna il libro che contiene la novella di cui ho detto prima. Si intitola Il viaggio del “Viaggio di Oreste P.”, antologia di racconti edita dal glorioso Centro di Documentazione Alpina di Torino nel 1989.
Ecco a voi i brani migliori, oltre a quello già citato sul Bietschhorn (beninteso, ricordate che ogni giudizio è sempre soggettivo):
– La sera che incontrai Willi Boskowski
– Svelato un piccolo mistero (la vera storia della Punta Esmeralda e della bellissima Esmeralda; ovvero, la prova provata che non è necessario essere logorroici per scrivere bene)
– Blood
– Un cauchemar, un incubo
– Il diritto all’ozio (qui a Ugo Manera fischieranno le orecchie…)
– John
N.B. A proposito, nella raccolta si trova pure Dove sta volando l’arrampicata nel Varesotto, che fa il verso a Dove sta volando l’arrampicata in Gran Bretagna, di Pete Boardman (pubblicato sul GognaBlog lo scorso 27 agosto).
P.S. Devo spendere qualche parola a proposito di Blood. È un brano in tono surreale, cioè nel tipico stile “paleariano” 😂😂😂. Quattro “turisti” (lessico Paleari, uno della combriccola), belli belli, arrivano in [censura] alla ricerca di nuovi territori di arrampicata e poi, mogi mogi, se ne ritornano a casa in mutande (o quasi) dopo una rapina a mano armata.
La storia è vera ma con particolari di fantasia (col nostro Paleari non si capisce mai dove finisca la realtà e inizino i voli pindarici). Ciò che ai miei occhi la rende speciale è che gli altri tre erano ignari reggiani (io vivo in quel di Modena). Tra costoro il mitico Carlo Possa, in quell’occasione dato brutalmente in pasto ai criminali. Però, se non avete mai conosciuto l’inventore della Pace con l’alpe, è inutile che mi dilunghi; leggete il suo libro ‒ che, guarda caso, si intitola La Pace con l’alpe ‒ e poi ne riparliamo.
P.P.S. Ora prometto che oggi ‒ fino a mezzanotte, ma non oltre ‒ me ne starò quieto. Altrimenti Gogna, spietato, sarebbe persino capace di censurarmi per “posizione di monopolio” ovvero per eccesso di commenti. 😂😂😂
P.P.P.S. Alessandro, qui c’è materiale per un’intera settimana di GognaBlog!
Giorgio, faccio ammenda. 🙂 me ne sono resoconto leggendo i commenti posteriori. Ed in questo senso il racconto traspare da una luce tutta nuova.
Si è dimenticato il fato, del senso di inaccessibilità con cui ne riempiamo il significato.
Ogni scelta razionale per quanto oculata intenzionata a gestire la vita lascia il tempo che trova di fronte al mistero di un tassello scivolato via.
Bravo Alberto.
sarà,
resta il fatto che “Spit” è un bimestrale in edicola da un paio d’anni.
Non sono un commercialista ma contraddico (bonariamente) chi ha scritto prima di me! Questa è una meravigliosa metafora della vita e va presa come tale. Le esagerazioni nelle metafore ci stanno benissimo, servono per dare forza ai concetti, per ironizzare, sdrammatizzare, rendere il testo più leggero, divertente. Gran racconto quello di Alberto Paleari, attualissimo (a parte il cellulare in auto e la mancanza di un +10/20 anni nell’età), scritto come pochi sanno fare, estremamente godibile. E poi…vado subito a verificare i tasselli delle prese della mia mini palestra in garage, non si sa mai!
A complemento delle mie precedenti lodi sperticate, qui chiedo UFFICIALMENTE che sul GognaBlog sia pubblicata “La vera quota del Bietschhorn”.
Alessandro, non lasciarti scappare l’occasione di ingentilire un po’ quest’orda bruta che litiga sempre sul tuo blog. Telefona subito a Paleari e chiedigli il permesso. 😉😉😉
A mio parere, uno dei migliori scritti del nostro Alberto Paleari è “La vera quota del Bietschhorn”. Il racconto si basa su una leggenda svizzera (leggenda?) ed è presentato in una originalissima forma epistolare. Narra la storia di due innamorati: un famoso topografo (realmente vissuto) e la bella figlia del capoguida della valle.
Molto romantico, molto delicato, molto ben scritto.
Se avete occasione di leggerlo, ebbene leggetelo! Altro che perdere sempre tempo a discutere di gradi e non gradi!
Mi è piaciuta la descrizione di come invecchiando non si capisca bene se la maturazione, l’età, le responsabilità di lavoro e famiglia, … spingano le persone ad avere paura di ciò che fanno nell’ambiente naturale, seppure l’abbiano sempre fatto e non abbiano più voglia di insistere.Magari è la stanchezza mentale, o sono le maggiori limitazioni fisiche, o chissà che cosa, ma fatto sta che invecchiando spesso non si riesce più a mantenere quella specie di follia che aveva fatto conoscere tante cose nuove e mai viste.I 50, o i 60, o i 70, o i … anni, ma anche prima, come indice di cambiamento, secondo me, dipendono dalla natura delle persone più che dalla vita che fanno.Forse ora mi sono dato una risposta per non avere troppa paura di insistere a conoscere: continuare a sognare come dei bambini che al fato saggiamente non pensano.
Mi è piaciuta la descrizione di come invecchiando non si capisca bene se la maturazione, l’età, le responsabilità di lavoro e famiglia, … spingano le persone ad avere paura di ciò che fanno nell’ambiente naturale, seppure l’abbiano sempre fatto e non hanno più voglia di insistere.
Magari è la stanchezza mentale, o sono le maggiori limitazioni fisiche, o chissà che cosa, ma fatto sta che invecchiando spesso non si riesce più a mantenere quella specie di follia che aveva fatto conoscere tante cose nuove e mai viste.
I 50, o i 60, o i 70, o i … anni, ma anche prima, come indice di cambiamento, secondo me, dipendono dalla natura delle persone più che dalla vita che fanno.
Forse mi sono dato una risposta per non avere troppa paura di insistere a conoscere: continuare a sognare come dei bambini che al fato saggiamente non pensano.
Sì, anche a me lascia perplesso. Ma chissà che qualche commercialista affermato, che legge qui, non ci contraddica…
Racconto godibile, nel classico stile “paleariano”. Però quella volta il buon Paleari, forse preso dalla foga, ha esagerato con i suoi toni surreali.
Insomma, riflettete tutti: ci sono due stimati commercialisti di mezza età, con studio affermato, moglie e figli, bot e bit, segretarie in formato Blue Bells. È credibile che i due tizi, con i loro curriculum vitae, se ne vadano belli belli in giro per i monti? che facciano cordata? che non abbiano mancato una domenica in trent’anni? No, non è credibile.
Perché non è umanamente possibile.
… … …
Come diceva “quel tale” – piú o meno – è piú facile che un cammello passi per la cruna di un ago piuttosto che un ragioniere entri nel regno delle vette.
O no?