Metadiario – 181 – La valle delle cascate (AG 1994-009)
(scritto nel 1994)
Il massiccio dell’Haut-Giffre è il prolungamento a nord-est delle grandi catene calcaree delle Prealpi francesi del Nord, cioè Chartreuse, Bauges, Aravis e Bornes. Alle aspre montagne dell’Haut-Giffre è stata concessa la dignità di Alpi, precisamente “Hautes Alpes Calcaires”, perché l’altezza media è decisamente superiore, fino ai 3099 metri del Buet.
Risalendo il corso del Giffre, che è un affluente dell’Arve, s’incontra Samoëns adagiato e sparso nella sua verde piana. Un tiglio piantato nel 1438 sorveglia una bellissima fontana del 1763 e il mercato coperto della Grenette (costruito all’inizio del XVI secolo). Continuando, dopo le strette Gorges des Tines, poco prima del bel paesino di Sixt, s’incontra la confluenza dei due corsi d’acqua principali: il Giffre des Fonds proviene dal Cirque des Fonds dando vita alla bellissima Cascade du Rouget, mentre il Giffre vero e proprio discende dall’ampio Plan du Lac. Quest’ultimo costituisce l’accesso visivo all’enorme Fer-à- Cheval, uno scuro circo di formazione glaciale, una barriera rocciosa a semicerchio alta centinaia di metri lungo la quale precipitano, a decine, cascate di ogni tipo e dimensione, provenienti da ghiacciai sospesi posti ben più in alto, a ridosso delle cime più alte.
Dal Plan du Lac, sul lato opposto al Fer-à-Cheval, si risale ancora il Giffre lungo il vallone del Fond de la Combe, un perfetto solco a U che porta quasi in piano al Bout du Monde, altra chiusura naturale, uno sbarramento imponente di rocce ed altre cascate.
Dal Fer-à-Cheval sul Pic de Tenneverge (a sinistra) e sul Cheval Blanc
Questo mondo selvaggio e ripido è caratterizzato dalle cascate e dai ghiacciai sospesi ma anche dalle particolari conformazioni geologiche e dalle forme assunte dal calcare. In più punti sono qui evidenti le “pieghe coricate”, strati di sedimenti calcarei che sottoposti a spinte mostruose si sono alzati e poi ripiegati su loro stessi; oppure i “campi solcati”, vaste superfici di calcare lavoratissimo a disegni curiosi ed imprevedibili. Sempre da queste parti è situato l’abisso Jean Bernard, la grotta più profonda del mondo (-1602 metri).
Tutti probabilmente sanno che esiste un manipolo di pazzoidi che amano avventurarsi sulla precaria solidità di una cascata di ghiaccio. Armati di attrezzature che farebbero invidia ai più specializzati super eroi, questi epigoni di Goldrake attendono con ansia che il gelo materializzi i più fantastici salti d’acqua e i loro sogni. La loro forza di immaginare è solo inferiore alla varietà infinita di forme e ambienti offerti ad ogni inverno dalle cascate gelate. Chi non si sente Goldrake si sente forse più affine ad un Capitano Achab e con i suoi moderni arpioni parte alla ricerca dell'”ultima cascata”, la sua Moby Dick, che immancabilmente sfugge stagione dopo stagione. Eppure, quando i primi cascatisti posarono gli occhi sulle costruzioni ghiacciate dell’anfiteatro roccioso del Fer-à-Cheval, per un attimo sembrò che la ricerca potesse trovare fine. Ovviamente era un’altra illusione che però li tenne impegnati per qualche anno. Quasi tutte le impressionanti colate, verticali per molti metri e spesso assai sottili, furono salite: imprese di altissimo livello tecnico e certo non esenti da notevoli dosi di rischio. E copertine di riviste specializzate mostravano foto da incubo con piccoli omini colorati appesi a incredibili sottilissime strisce di ghiaccio. Pensiamoli almeno un poco questi esploratori quando, comodamente distesi sul prato o di fronte ad una birra gelata, ammiriamo l’amazzonico spettacolo del Fer-à-Cheval.
Granges de Sans Bet (Cirque du Fer-à-Cheval, Savoia)
Un’ambientazione del genere ha sempre scoraggiato lo sfruttamento sciistico. Il territorio non ha la vocazione e di ciò si sono da tempo accorti gli abitanti di Sixt, che si sono limitati a qualche piccolo impianto di scarsissimo impatto nelle zone meno significative. Quindi chi vuol visitare queste meraviglie lo deve fare a piedi.
Anche per questo motivo, al di là di alcune belle possibilità di sci di fondo nella giusta stagione, tutta la promozione turistica si rivolge all’escursionista appassionato di luoghi intatti. E le cifre sembrano dare ragione ai “sizerets”, gli abitanti di Sixt: i turisti che arrivano al Plan du Lac sono circa 350.000 all’anno! Solo l’Eco-musée di Sixt vanta più di 50.000 visitatori all’anno.
Siamo a circa 60 km di distanza da Albertville, ancor meno dai grandi centri di Chamonix e delle Portes du Soleil. Eppure questo è un altro pianeta: anche se assediata da uno dei più grandi “domaine skiable” del mondo, la regione è integra, con le sue 32 varietà di felci, 14 di genziane e 25 di orchidee. A centinaia sono i camosci ed anche gli stambecchi sono stati di recente reintrodotti. Spazi così profondi sono il regno dell’aquila reale.
Protetta in quanto Réserve Naturelle, l’area dell’Haut-Giffre si accosta alle altre istituzioni, le riserve naturali delle Aiguilles Rouges, di Passy, di Carlaveyron e del Vallon de Bérard, costituendo così il degno confine del tanto vagheggiato Espace Mont Blanc, di cui ancora non si vede nulla di concreto.
La storia delle nostre peripezie nell’Haut-Giffre è lunga ma merita di essere raccontata in breve. Già in primavera avevamo individuato nella Pointe de Sans Bet il belvedere più eccezionale sul Fer-à-Cheval, così verso la metà di giugno Popi Miotti ed io raggiungiamo la valle. La fotografia panoramica dev’essere fatta nel tardo pomeriggio, quando il sole del solstizio riesce a illuminare le grandi pareti di solito scure del circo glaciale. Perciò ce la prendiamo comoda, a partire dalla frazione di Le Crot, per una strada forestale che ad ampi tornanti e con pendenza regolare sale lungamente fino agli Chalets de Salvadon. La giornata non è per nulla limpida, grevi foschie stazionano sul Buet e sulle altre cime che ci dividono da Chamonix. “Sans Bet” pensiamo significhi “senza animali”, cioè posto dove non si pascola. Invece la cima è assai verde, ci domandiamo quindi perché. Scopriamo in seguito che sopra gli Chalets de Salvadon, ancora parzialmente innevati e deserti, una non alta falesia divide il vallone dalla montagna. Ciò spiega l’assenza degli animali. Risaliamo la falesia per un breve gradino roccioso facilitato da una corda e ci troviamo su un altopiano a doline e campi solcati assai aspro. Peccato che la nebbia ci abbia ormai circondati e ci costringa ad aspettare: nel frattempo fotografiamo con le lenti addizionali alcuni fiori bellissimi. Decidiamo di proseguire ma, anche dopo aver raggiunto la vetta, non siamo premiati e ci tocca scendere con poco materiale valido.
Il giorno dopo, per non perdere tempo, facciamo a pari e dispari a chi tocca risalire i quasi 1400 metri di dislivello: il più fortunato andrà a Plan du Lac per cercare di assorbire l’essenza del luogo, vedere i prati, i cavalli, avvicinarsi alle cascate in solitudine. La sfortuna tocca a lui, ma il suo sacrificio sarà inutile. Anche quel giorno non ci concede una bella visibilità.
Le cascate del Cirque du Fer-à-Cheval, anche a causa della stagione giusta, sono impressionanti. Sono circa una trentina, la più evidente di tutte scende con un unico balzo dai Cornes du Chamois, si chiama la Pierrette ma ha anche un altro nome: Fontaine de l’Or. Forse è proprio qui che il conquistatore del Monte Bianco, l’ormai anziano Jacques Balmat, nel 1834 venne a cercare l’oro di cui alcuni favoleggiavano e trovò la morte nessuno seppe mai come. Poco oltre, un altro balzo liquido gigantesco sgorga da un foro nella roccia: è la Méridienne, acqua proveniente dal Glacier de Prazon, inghiottita dalla miriade di condotti carsici che sfociano poi in quell’unico foro nella parte alta di un’immensa parete verticale.
Per i pastori era una meridiana perché a mezzogiorno esatto la luce del sole comincia a illuminare la cascata. Ed è in quel momento che miliardi di gocce luccicano, piccoli arcobaleni si formano e scendono per un tratto prima di dissolversi in un pulviscolo di vapore.
Dopo i nostri racconti entusiasti, tocca a Marco Milani e Federico Raiser tornare in settembre, con il giustificato timore che il sole non scaldi più le grandi pareti. Così i due salgono il vallone del Fond de la Combe fino al Bout du Monde e si dirigono verso gli Chalets du Boret e il Refuge de la Vogealle. La prima neve ha imbiancato i sentieri e le montagne e il primo giorno è speso nella nebbia in un nulla di fatto. Il secondo giorno, ancora al Boret. Tre ore di attesa con i piedi nella neve non li scoraggiano, salgono oltre, al rifugio, in tempo per avere l’ultimo tè della stagione dal custode che stava chiudendo. Una rapida schiarita li fa precipitare di corsa agli Chalets du Boret, in tempo per assistere alla definitiva chiusura del sipario. Tristemente si avviano verso valle, data anche l’ora tarda. Ma dieci minuti dopo si aprono d’improvviso gli ultimi colori del tramonto. Allora i due si scambiano una rapida occhiata, abbandonano gli zaini e di corsa risalgono al Boret, in tempo per riprendere il fuoco che si stava spegnendo sulle montagne.
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