La via meno battuta
Ho letto il libro di Matteo Della Bordella, La via meno battuta, fresco di stampa (Rizzoli, ottobre 2019). Mi è piaciuto. Tanto.
E, prima di scrivere qualcosa io stesso, sono andato a leggermi anche le recensioni di chi aveva letto il libro prima di me, almeno quelle competenti. Quando si scrive di un’opera, lo scopo è sempre quello di coglierne l’essenza, forse è meglio dire le essenze: o forse, più semplicemente, si tratta di dire al lettore perché ti è piaciuto un libro oppure non ti ha emozionato.
Nel primo risvolto di copertina ci sono molte frasi che condivido. Eccone almeno due: «Oggi, questo giovane talento ci racconta come l’alpinismo gli abbia cambiato la vita, rendendolo l’uomo che è diventato», oppure «Il suo racconto va ben oltre la cronaca sportiva: ci mostra come scalare significhi innanzitutto scoprire se stessi, inventare e inventarsi costantemente, imparare l’arte della perseveranza, dell’accettazione e della rinuncia. E ci ricorda quanto sia importante, in montagna come nella vita, avere il coraggio di ammettere un errore o di percorrere la via meno battuta».
Della Bordella ricerca davvero se stesso e, come tutti gli occidentali più romantici, lo fa immergendosi nella Natura, quella della Montagna più selvaggia. Ed è vero che si comprende come, con il passare degli anni, il ragazzino spaurito e timido sia diventato un uomo, passando attraverso numerosissime avventure e fatti che ti segnano la vita come quello della perdita in montagna del padre Fabio, fino a diventare, da pochi giorni (quindi dopo l’uscita del libro) papà lui stesso del figlio Lio.
La recensione di Vinicio Stefanello su planetmountain.com stabilisce che La via meno battuta «è davvero una sorta di “romanzo di formazione”. Un libro in cui, raccontando quello che gli è successo in montagna e di conseguenza tutto quello che gli ha insegnato la montagna, l’autore sembra ricercare un senso, non solo dell’alpinismo, ma un po’ del viaggio stesso della vita.
Perché, si sa, è proprio quel viaggio fatto di scelte, errori, sconfitte e a volte anche di qualche “vittoria” che mostra non solo chi siamo ma anche chi aspiriamo essere. A patto però che il racconto sia sincero. Che tutto di quell’esperienza dell’ascesa alla montagna, così alta e simbolica, venga alla luce».
Condivido pienamente il giudizio di Stefanello: Della Bordella si è messo a nudo. Ma non lo fa con il piglio che i più usano sui social. Lo fa a mente calma, riscaldata però dai mille ricordi di tante imprese. Lo fa senza eccedere con la parola “io”; lo fa esprimendo prima i suoi dubbi, lasciando che le sue certezze il lettore le possa vedere nello svolgersi dell’azione.
A me è piaciuto quel suo modo di raccontarti fino alle pieghe più intime la genesi di ogni progetto e quindi di ogni tentativo o successo. Ci sono i dati relativi alla montagna e alla via, alla logistica: ma ci sono anche le relazioni e i sottili equilibri con i compagni, anche quelli che avrebbero potuto essere della partita.
C’è in Della Bordella una capacità di analisi assai fine che, buon per lui, presto o tardi arriva sempre a una conclusione, a una scelta: e non si perde in quei dubbi che cercano di far smarrire chiunque distraendolo dai programmi conclamati.
Mi è piaciuto per esempio quando racconta di quando “per la prima volta si rese conto di essere stato egoista”. Nella marcia di ritorno a El Chaltén dopo una scalata impegnativa, il compagno Matteo Bernasconi cammina più lento, tanto che decide di fermarsi a bivaccare all’aperto piuttosto che continuare una marcia così faticosa per lui. Della Bordella, considerata la relativa vicinanza al centro abitato e la mancanza di qualunque pericolo, decide di abbandonare il compagno e di raggiungere da solo le comodità di El Chaltén. L’episodio non è importante, nel senso che la mattina dopo il Berna raggiunge anche lui la civiltà senza danni. Ma Della Bordella ci spiega quanto in seguito si sia vergognato del suo comportamento: e lo fa in quasi due pagine di analisi cruda.
Buona parte dell’impianto del libro è occupato dalla parete ovest della Torre Egger. Come lo stesso Matteo racconta altrove «era l’autunno del 2010, quando due giovani ragazzi poco più che ventenni si trovarono nella sede del CAI Lecco, per lasciarsi ispirare dai racconti dei Ragni più vecchi di loro e lanciarsi in un grande progetto. Quel progetto si chiamava Torre Egger, una delle più belle guglie della Patagonia, sorella minore del più celebre Cerro Torre. La sua parete ovest era ancora inviolata ed era la sfida perfetta che Matteo Bernasconi e Matteo Della Bordella stavano cercando». Anche il film The Egger project racconta nel dettaglio tutte le peripezie di Bernasconi e Della Bordella, che hanno tentato per ben tre anni di fila di salire questa montagna. Nei capitoli ci sono la sfida, la fatica, le snevanti attese, un volo impressionante ma anche divertimento, amicizia e spirito di squadra. Ma proprio quest’ultimo diventa argomento delicatissimo allorché alla cordata dei due Mattei si unisce un amico fortissimo e più giovane, Luca Schiera. Il tempo a disposizione per il Berna è agli sgoccioli: deve tornare a casa, ha dei precisi impegni di lavoro. Il tempo è assai poco per gli altri due che devono decidere se seguire il compagno, e quindi per quell’anno, dopo tanti sforzi, rinunciare, oppure tener duro e approfittare di quei pochi giorni prima del volo prenotato per fare un blitz che potrebbe essere conclusivo. Matteo e Luca così fanno, e si portano a casa la vittoria sulla parete ovest della Torre Egger.
L’autore inizia così un lungo lavorio mentale, prigioniero di un travagliato gioco psicologico tra colpa e spirito pratico.
«Dopo la Egger con Berna non ci si era quasi più sentiti. La cosa mi dispiaceva, ma d’altra parte non avevo idea di come poter rimediare. Non sapevo nemmeno se fosse arrabbiato con me o no per come era andata e non osavo chiederglielo. Nelle relazioni con le persone spesso è difficile fare la prima mossa quando c’è da chiarire qualcosa o recuperare un rapporto, è senza dubbio più facile chiudersi a riccio, facendo finta di ignorare il problema andando avanti come se nulla fosse.
Le nostre vite ormai avevano preso direzioni diverse ed entrambi procedevamo dritti per le relative strade senza indecisioni: lui faceva ormai da anni la guida alpina a tempo pieno, lavorando tantissimo durante la stagione estiva, per poi prendersi periodi più tranquilli il resto dell’anno; io avevo abbracciato la strada dell’alpinista professionista, avevo aziende che mi supportavano stabilmente e cercavo di inseguire i miei sogni, facendo del mio meglio per raccontare e comunicare agli altri le mie avventure durante serate e conferenze.
Eravamo rimasti in buoni rapporti e qualche volta avevamo scalato in falesia insieme, tuttavia della Egger non avevamo più parlato, il discorso era chiuso e che ormai lui ci avesse messo una pietra sopra lo immaginavo, o per lo meno lo speravo: erano passati tre anni e mezzo da quella spedizione, ma nel frattempo erano successe così tante altre cose nella mia vita, e anche nella sua, che quei giorni sembravano lontani anni luce. Quello che invece restava ancora ben impresso nella memoria erano le emozioni vissute e il legame che si era creato tra di noi; quello proprio non riuscivo a dimenticarlo e avrei assolutamente voluto che ci legassimo ancora insieme per qualcosa di grande.
Mi domandavo come avrebbe reagito se gli avessi proposto ancora di fare qualcosa insieme, ma non osavo farlo, avrei voluto, ma non trovavo mai l’occasione giusta. […].
Era tempo di ampliare i miei confini e guardare più in là, sentivo che era giunto il momento di scoprire qualcosa di nuovo e magari provare ad alzare quell’asticella della sfida un po’ più su, così finalmente mi decisi a prendere in mano il telefono e chiamare Berna: «Senti, ma tu per quest’inverno hai già programmi? Torneresti in Patagonia?» gli chiesi dopo i soliti convenevoli.
«Non ho ancora programmi, ma tornerei volentieri Teo, ormai è troppi anni che manco!» mi rispose lui.
Pur non avendo ancora la conferma esplicita mi fu chiaro, non appena terminò la conversazione, che quelle parole significavano un sì e lo comunicai subito a David (Bacci, NdR)».
Matteo Della Bordella, novello Presidente dei Ragni di Lecco, ha ormai girato le montagne di tutto il mondo. La scelta dei suoi obiettivi è sempre legata non a ciò che tutto il mondo considera “problemi” alpinistici bensì alla sua estetica personale, devota all’energia con la quale un progetto ti penetra dentro, e senza concederti requie ti porta all’apoteosi con quei successi che i più non avevano intravvisto. Le vie meno battute, appunto.
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Mi fido di voi: leggerò il libro.
Ma se non mi piacerà, io protesterò.
leggere in un libro di montagna delle proprie debolezze e degli errori è raro.Matteo in questo libro riesce a coinvolgere il lettore senza mettere “io”davanti a tutto.Spero che da ora in poi metterà “Lio” e “Ari……”davanti alle proprie a volte difficili scelte.Libro da leggere senza nessun dubbio.
Ma poco dopo la egger non sono andati in tre in cordillera huayhuash, però senza riuscire a fare una via nuova?
Non capisco il discorso.
Sbaglio la tempistica?
Ho letto il libro, dopo aver visto il film. E che ci crediate o no, cercavo proprio la risposta allo stesso dubbio. Mi domandavo: e poi? Come è andata a finire la loro amicizia?
Le amicizie che si intrecciano in esperienza come quella lasciano un senso che non si può spiegare a parole. E quella accoppiata forte e irresistibile mi era piaciuta tanto. Mi ricordava amicizie mie, momenti vissuti, sensazioni, delusioni, rabbie, facezie, risate, silenzi pieni di parole.
Il film era monco.
Il libro ha risposto.
E il Berna, lo Schiera, il Matteo sono diventati i miei beniamini. Mi rivedo giovane (ad un livello tecnico infinitamente inferiore).
Mi regalano speranza.