La via per Loredana

La via per Loredana
di Adelio Alquà
Foto di Gianmaria Mandelli e Gianni Magistris
(pubblicato su Lo Zaino n. 20, febbraio 2024)

Alle otto di mattina eravamo alla base della nostra parete. Sotto di noi si allungava il ghiacciaio dell’Albigna, grigio, ghiaioso, desolato. Di fronte, sull’altra sponda, si ergeva nel sole la complessa mole color malva della Sciora di Dentro, più oltre spumavano l’obelisco dell’Ago e la caratteristica incudine della Pioda di Sciora. Nessun segno di vita; nessun rumore, non un alito di vento. Io sgranocchiavo malvolentieri le solite schifezze, seduto su un rialzo nero di granito assediato dal ghiaccio, che avevamo raggiunto con qualche sforzo, risalendo con i ramponi ai piedi degli scivoli piuttosto ripugnanti. Era l’attacco che avevamo scelto.
Nell’insieme il luogo si presentava a dir poco inospitale; benché fossi ben cosciente di essere a poco più di due ore dal rifugio Allievi e dal rifugio dell’Albigna, un inquietante senso di lontananza dominava il mio spirito. I miei due compagni tacevano, ognuno intento a srotolare una corda; il resto del nostro materiale, stucchevole come una natura morta, giaceva in mucchio tra gli zaini afflosciati.

“E non è questione di essere sboccati, ma – Diobono! – la parete nord del Pizzo del Ferro Orientale è davvero in culo al mondo”.

Si era deciso che partivo io. Era inutile indugiare oltre. Il sole qui non ci avrebbe mai raggiunti. Mi appoggiai frontalmente con le due mani alla parete in un punto qualsiasi lì intorno, e dopo aver lanciato un’occhiata a Mandelli che manovrava il mezzo barcaiolo, senza dire una parola, mi sollevai sulla punta dei piedi e cominciai ad alzarmi sulla parete. La tensione che avevo accumulato ben presto si sciolse come neve al sole ed io smisi di pensare.

Quando, il giorno prima, nel pomeriggio siamo arrivati in Valle è accaduta una cosa strana che mi ha fatto riflettere. Stavamo scegliendo il materiale che dovevamo portare con noi; avevamo svuotato gli zaini e ogni cosa stava lì nella polvere del piazzale in una grande confusione. Per il materiale comune a decidere era Mandelli; alla fine cominciammo a mettere le cose nei nostri sacchi e il resto nel bagagliaio. Avevamo ormai già lo zaino in spalla quando Gianmaria si accorge di aver dimenticato a casa gli scarponi. «Ma no, non è possibile… Sì, è vero!… Questa mattina ho dovuto fare una scappata al lavoro… Ecco! Colpa della fretta, e va da via èl cü, ho lasà a cà i scarpuni…». Noi gli lanciamo degli sguardi allibiti: senza scarponi non vai alla base della Nord del Pizzo del Ferro! “Mandelli non è uno da dimenticarsi quel che serve”, penso io, senza osare guardarlo negli occhi, perché non veda nei miei quel che mi passa per la testa, “Non è una semplice dimenticanza…Gianmaria non è convinto; forse non è in piena forma…Voleva un rinforzo, ed eccomi qua. Sono contento due volte che me lo abbia proposto: per la stima e per l’opportunità”. Poi, l’inconveniente si risolve grazie a una pensata del Gianni: torniamo a San Martino nel negozio del Mimmo Fiorelli e lui si compera un bel paio di scarponi nuovi che presterà a Gianmaria per quella tre giorni. E ora via, questa volta si parte davvero.

Ci aspetta una sfacchinata di tre ore fino all’Allievi; il sole è già tramontato dietro la costa alle nostre spalle, e noi si marcia nel fresco. Lungo il fiume, gli ultimi turisti che incontriamo ci guardano passare con quell’espressione stranita che hanno sempre negli occhi al vespro quando incontrano qualcuno che va dalla parte opposta alla loro; gli si legge un misto di invidia e di compassione, mentre noi cerchiamo solo di rubare un ultimo sguardo sensuale alla più carina delle loro compagne per portarcelo appresso. È rimasta indietro, e, neanche ci avesse letto nel pensiero, ci regala un furtivo sorriso, prima di affrettarsi a raggiungere la compagnia che è scomparsa dietro un’ansa del torrente.

Prendiamo a sinistra per un sentiero che sale ripido; dopo poco incontriamo un ponticello. Lì il torrente, che spuma, scroscia fragoroso balzando giù dall’alto nell’angusto passaggio. È come un avviso ai naviganti. Ogni volta lo si ascolta con una certa emozione. Quando arriviamo alla croce, davanti a noi si apre una vasta prateria, corsa da una brezza sostenuta che mi gela il sudore sulla pelle; in alto, a sinistra, sopra l’ultimo bastione appare il rifugio, grigio e austero come le cuspidi di granito che lo circondano.

“La parete, senza darlo a vedere, con calma si raddrizza: la roccia si pulisce, la mente si concentra, i movimenti si fluidificano”.

L’Allievi non è la solare Gianetti, e il crepuscolo accentua la puritana severità del luogo
Sullo slargo davanti all’entrata ci accolgono il limpido scroscio della generosa fonte e lo strascicato lamento del tignoso gestore. Intanto, come il sipario sulla scena, sta calando la sera sul primo atto della nostra rappresentazione. Ma, dopo cena, dopo il fugace e obbligatorio giretto all’esterno per “rimirar delle stelle al fioco lume” le nere sagome delle pareti incombenti, viene la notte che è lunga da passare, a girarsi e rigirarsi nella branda, avvolto in una coperta che pare fatta d’ortica tanto punge e pizzica. E il pensiero continuo del giorno seguente è come il volo di una mosca in cucina, a momenti la scorgi, a momenti non la vedi più, ma il suo ronzio non smette.

“… mi sento leggero come un astronauta, volteggio nello spazio intorno alla navicella privo di gravità…”.

Atto secondo. Scena prima. Nella cinerea luce dell’alba, otto ore più tardi, varchiamo l’angusto Passo di Zocca e scendiamo verso l’Albigna, in territorio svizzero. Tra tanta solitudine minerale, l’echeggiare delle nostre voci falsamente baldanzose suona davvero posticcio. E non è quistione di essere sboccati, ma – Diobono! – la parete nord del Pizzo del Ferro orientale è davvero in culo al mondo. Ciò forse spiega il perdurare della sua illibatezza. Noi siamo qui per cantarle l’epitalamio.

Vado su per una placca lavorata non troppo ripida, la direzione è vaga, i movimenti sono impacciati, la roccia è sporca. Anche lo zaino, che impiccio! Mi sento come un pinocchietto scolpito nel legno. La parete, senza darlo a vedere, con calma si raddrizza; la roccia si pulisce, la mente si concentra, i movimenti si fluidificano. Punto a un diedro che sta dritto sopra di me e sembra proprio che mi chiami per nome: «Adelio, vien su che ti aspetto». «Speta veh, che vengo», gli faccio io. Intanto penso che ha proprio l’aria di essere una parete socievole, aveva ragione Mandelli; solo un poco che ci si sia familiarizzati, nonostante quel broncio severo che ha mostrato appena ci ha visti venire, ha da essere una compagnona. D’altronde le Nord, si sa, soffrono di melanconia, hanno il cipiglio scuro proprio come certi uomini, che per abitudine o incapacità non sorridono mai, e vengono perciò tanto spesso fraintesi. Da sotto mi raggiunge la voce di Gianmaria: «Cinque metri…». Sosta: due chiodi, cordino, asola, moschettone, uno intero e un mezzo barcaiolo. «Veniamo… Prima la rossa». Il cielo è blu cobalto, là in fondo splende il sole, l’ansia è svanita. I miei due compagni mi raggiungono in fretta; chiacchierano a voce alta. Si va avanti così per tre o quattro tiri.
Mandelli chiede di passare in testa. Ci scambiamo il materiale mentre Gianni scatta delle foto. Dopo un breve consulto si decide di continuare in obliquo verso sinistra. E’ un peccato, perché la fessura che si raddrizza sopra di noi promette del filo da torcere; Magistris però ha ragione: è inutile andarli a cercare i guai, quando la vita ti insegna che sono loro, prima o poi, a venire da te. Mandelli prosegue per altri tre tiri, fin sotto una gronda aggettante che ci sbarra la strada. Sembra messa lì apposta per dar ragione al Gianni!

Ha già provato tre chiodi Mandelli; il suo martello appeso all’imbrago con uno spago penzola nel vuoto; la stretta fessura che incide la gronda è friabile. «Tegnèm be alla paret, che preuvi amò ‘na volta!», sibila rauco a Gianni che manovra le corde. «Sta troia la se lasa mia ciudà!». Io e Magistris ci guardiamo interdetti. «Gianmaria ve giò, che pruèm püse ‘n là!». «Cala!». Ci spostiamo un tiro a sinistra un poco più in basso; Mandelli martella quattro chiodi qualche metro sotto lo strapiombo, è la nuova sosta.

Mentre Gianmaria pena appeso nel vuoto sotto la gronda, io mi guardo intorno: siamo nel cuore di pietra della parete, col poco materiale che abbiamo con noi, ritirarsi sarebbe un bel problema. Quando il tuo problema ha un’unica soluzione, tutto diventa più facile. Intanto Mandelli picchia un bel chiodo in una fessura; il chiodo canta: è saldo! Il compagno guadagna mezzo metro, ne picchia un altro: deng, deng, deng: «Dai Mandell, che te se fò!», grida il Gianni. Ma la stridula bestemmia che sfugge a Gianmaria smorza le nostre illusioni: «Ghe vurarèss un extrapiatt! Si lé a fa vialter dü, cristu!? Movess damm corda, se tiret indree…?». Sono momenti questi che chi scala conosce bene; non ci si fa mica caso alle male parole; si è tutt’uno col primo di cordata, solidali; lo si vorrebbe tener su, sollevare addirittura, sospingere con la forza della propria intenzione. Un improvviso strappo della corda e Gianmaria scompare sopra la gronda; poi la corda si arresta, procede, e si arresta ancora…Io e Gianni restiamo in silenzio, col fiato sospeso. Nessuna voce; nessun fremito della corda accasciata contro la roccia, inerte. All’improvviso, uno strappo e il grido tanto atteso, che sembra venire da chissà dove. Entrambi con furia martelliamo i chiodi della sosta. Due si piegano nella fessura in un abbraccio fatale; resteranno lì a futura memoria. La loro ferrea caparbietà ci scatenerà contro le rampogne del capo.

“Ci scambiamo il materiale mentre Gianni scatta delle foto”.

Resto in testa, sono carico come una pila nuova. Con altri due tiri raggiungiamo la cresta, e per quella con una veloce cavalcata siamo all’intaglio della vetta. Ci affacciamo sulla Valle del Ferro; scoppia di luce al confronto, nonostante siano le otto di sera. Alle nostre spalle l’Albigna è già immersa nell’ombra; laggiù, al suo termine, sospeso in una fluorescenza azzurrina intravvedo il lago color alabastro. Di qua, dove ora ci stiamo calando uno alla volta appesi a una doppia, si apre l’alta Valle del Ferro, vasta e petrosa.

La via per Loredana sulla parete nord del Pizzo del Ferro Orientale 3200 m.

Pieni di ingenua baldanza ci abbracciamo e ci complimentiamo, mentre a balzelloni scendiamo i dirupi meridionali del Pizzo del Ferro Orientale fino al Passo Qualido. Oltre il passo, lasciata alle spalle ogni insidia, svoltiamo a destra sulle tracce del bivacco Molteni-Valsecchi, seguendo per un tratto il Sentiero Roma. I Pizzi del Ferro fan da corona a questo anfiteatro di pietra, degno soltanto di coloro che son disposti a faticare quattro ore buone, dal basso, per raggiungerlo, e non trovarci nulla. Senza che ce ne accorgessimo, era calata la sera. Aveva riempito il cielo viola di innumerevoli stelle. Un riverbero dorato illuminava l’orizzonte a occidente. Si sentivano solo le voci dei miei compagni che camminavano davanti, il fruscio dei nostri vestiti e il rumore cadenzato dei nostri passi. Gianni, all’improvviso, mi strappa al torpore in cui ero caduto:

– Senti Adelio, parlavamo adesso io e Mandelli che nome dare alla via. Tu hai in mente qualcosa? Qualcuno a cui dedicarla?

Ora, se io devo essere sincero, un pensiero l’avevo fatto, tra me e me, appena raggiunta la vetta, ma non l’avrei palesato. Perché ero nella condizione dell’ospite e, in definitiva, fosse dipeso da me, che della parete neppure sospettavo l’esistenza… Ma interpellato, non seppi frenarmi:

– Certo che avrei qualcuno a cui dedicarla. Loredana, son tre anni che è morta. Sarei davvero contento… È anche merito suo se sono qui… Lo sapete anche voi, come sono andate le cose.

“I miei due compagni mi raggiungono in fretta; chiacchierano a voce alta”.

Nella penombra che ci avvolge, son certo di scorgere negli occhi di Gianni un lampo di disappunto. Mandelli intanto taceva. Si son guardati un momento dritti negli occhi, poi hanno guardato me. Quando entrambi contemporaneamente aprono bocca, vedo sul loro viso, sento nella loro voce, leggo nei loro occhi, la sincerità delle parole che pronunciano: «Bene! Allora la via la dedichiamo a Loredana! E s’en parla pieu!». Poi Gianni ha proseguito dicendo: «Vurarà dé che ghe tuca vegné só ‘n’altra veulta per chi del Fiordalpe…»

Ora l’oscurità è totale. Accendiamo le frontali. Abbiamo lasciato il Sentiero Roma da un po’, brancoliamo tra pietroni e gande alla ricerca del fantomatico bivacco. Le luci delle nostre pile svolazzano invano di qua e di là come lucciole impazzite. Ormai la stanchezza la fa da padrona. Infine, adagiata su un piccolo poggio erboso, ci appare la tozza sagoma del bivacco. Esclamazioni di gioia accompagnano la scoperta. La raggiungiamo, ansiosi di gettarci sui giacigli. Gianni impugna la maniglia della porta; questa resiste; Gianni spinge con più forza: niente. Allora si avventa. L’intera casupola di latta freme e rimbomba, ma non cede. Oimè è sbarrata! Ma no! Da dentro qualcuno impedisce che si apra. Oibò, chi è il marrano, grida il Gianni, scagliandosi con rinnovata energia verso il pertugio, che geme e scricchiola, ma tiene duro. Una voce alterata, una voce straniera, fuoriesce dall’ermetico antro. Chi è là, ribatte il Gianni, aprite perdio, o scardino la porta! Finalmente si apre di un palmo; esitante, si sporge una testolina bionda di zucchino acerbo, che in qualche modo, mettendo insieme un vocabolario di almeno tre lingue spariate ci fa intendere, che dentro c’è – Gesùmio! – nientemeno che una donna biotta. Che importa, grida il Gianni, anzi, è meglio, dunque aprite. Io e Mandelli, che abbiamo capito tutto, cerchiamo di calmare i bollenti spiriti del compagno e, al contempo, facciamo sicuro il crucco che siamo uomini d’onore, ma stracchi, e che dunque, in nome delle consuetudini della cavalleria alpina, ci deve far accomodare anche noi. Ad altra notte rimanderete il vostro sollazzo. Si rivesta dunque la donzella, mentre noi nell’attesa ci scaldiamo un tè ristoratore.

Alla fine i due tedeschi distesero i loro sacchi a pelo sul polveroso pavimento di legno del bivacco e noi ci allungammo sulle reti delle brandine, che non avevano neppure uno straccio di materasso. La stanzuccia sapeva di cavolo rancido, di muffa e di languide carezze. Trascorsi la notte in un dormiveglia agitato; mi sentivo come in preda a una forte febbre. Avvolto in quel torpore, le emozioni della giornata appena trascorsa, come le scene di un film non ancora montato, scorrevano spezzettate e confuse nella mia testa. Non so quante volte mi rigirai su quell’affamato lettuccio; i cigolii della triste rete si mischiavano ai sospiri e ai borbottii dei miei compagni che, senza dubbio, come me, rivivevano nei loro sogni l’avventura del giorno precedente. Anche i due ragazzi dormivano, ma di un sonno più sereno del nostro, e nella densa penombra che riempiva l’interno di quella navicella, dove il destino ci aveva riuniti, potevo scorgere i profili delle loro testoline ricciute fuoriuscire vicine dai sacchipiuma. Finalmente giunse l’aurora, allungando le sue tenui dita di fata attraverso la finestrella sulla parete. Tutti e tre piuttosto pesti, dopo aver fatto cigolare per un po’ le reti dei letti con i nostri stracchi corpi, uscimmo nel molle umidore dell’alba. Eravamo gente che aveva superato i quaranta da un pezzo, e lo sguardo che lanciammo ai due giovani abbracciati sul pavimento la diceva lunga sul nostro sentimento di allora. Erano entrambi svegli; il ragazzo si alzò per richiudere la porticina alle nostre spalle biascicando un saluto con evidente soddisfazione: gli avevamo rovinato la bella notte che si erano promessi in quel luogo solitario. Ma la loro età era di per sé una rinnovata promessa per il futuro. Noi, fuori, riprendevamo pian piano coscienza della nostra condizione. Ci aspettava una bella discesa, tre orette abbondanti fino alla macchina. Ci preparammo un tè prima di partire. La sera di quel giorno saremmo stati a casa, tra quattro mura, nel cerchio dei nostri affetti. Ma dentro di noi si fronteggiavano due sentimenti contrastanti. Almeno due volte perdemmo il sentiero lungo la discesa, finendo nelle voragini tra i cespugli e le piode, a detrimento delle nostre caviglie, non risparmiando i sacramenti del caso.

Pizzo del Ferro Orientale, via per Loredana
Prima salita: Gianmaria Mandelli, Adelio Alquà, Gianni Magistris il 29 luglio 1995
Prima ripetizione: non si hanno notizie di ripetizioni
Esposizione: Nord
Difficoltà: VII e A2
Sviluppo: 500 m
Note: le protezioni che si potevano rimuovere sono state rimosse dai primi salitori, sulla parete sono rimasti pochi chiodi e qualche cordino. Per scelta non sono stati impiegati e nemmeno portati negli zaini spit o fix.
Relazione: presente nella guida Masino Bregaglia, Regno del Granito di Andrea Gaddi.

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La via per Loredana ultima modifica: 2024-03-31T05:29:00+02:00 da GognaBlog

18 pensieri su “La via per Loredana”

  1. @17 Federigo: allego traduzione:, anch’io sono anziano e ho scalato molto poco e solo in libera.
    1) va da via èl cü, ho lasà a cà i scarpuni…: e che tu possa fare alla maniera dei sodomiti, ho lasciato alla magione gli scarponi.
    2)Tegnèm be alla paret, che preuvi amò ‘na volta!» “Sostienimi ben aderente alla parete, che faccio un altro tentativo.
    3). «Sta troia la se lasa mia ciudà!». Questa scrofa non mi permette di apporre il chiodo
    4)«Gianmaria ve giò, che pruèm püse ‘n là!».Gianmaria, scendi che si prova più in là!
    5) Dai Mandell, che te se fò!: forza Mandelli che ce la fai!
    6) «Ghe vurarèss un extrapiatt! Si lé a fa vialter dü, cristu!? Movess damm corda, se tiret indree…?» Sarebbe necessario un chiodo etrappiatto! Cosa state lì a fare, voi due, Cristo!? Muovetevi, datemi corda non starete mica tirandovi indietro?
    7) E s’en parla pieu! : E non se ne parla più.
    8)Vurarà dé che ghe tuca vegné só ‘n’altra veulta per chi del Fiordalpe…»Vorrà dire che gli toccherà venire su un’altra volta per questa via del Fiordalpe (non sono sicuro di aver ben interpretato)
     

  2. Ho diversi anni e non ho mai scalato ma il
     racconto della via di Loredana mi è piaciuta molto, sono toscano quindi le parole in dialetto non li ho capite! Complimenti al narratore!

  3. individuato un tracciato  che sicuramente meriterebbe ripetizioni qualora almeno le soste fossero spittate 

    ma cosa c’incastrano le soste spittate??

  4. Ho salito l’attiguo sperone Nord (via Cesana) oltre 40 anni fa confidando nel buon intuito del primo salitore e nella conformazione vagamente somigliante alla Nord delle Jorasses. Avendo le stesse origini del brillante relatore non mi è difficile comprendere le perfette frasi dialettali e confermo lo scomodissimo accesso. In quel tempo la condizioni della vasta parete era molto diversa da quello che si vede nella foto del tracciato, con i canaloni ben rivestiti di ghiaccio e neve che davano alla montagna una impronta più severa. Purtroppo lo sperone si rivelò piuttosto deludente, sia per la sovrastima delle difficoltà espresse dalla neonata guida Masino/Bregaglia, che per la discontinuità e qualità della roccia più scadente che nella vicina Bondasca. 
    Tuttavia faccio i complimenti a Mandelli & C. per aver individuato un tracciato  che sicuramente meriterebbe ripetizioni qualora almeno le soste fossero spittate come largamente in uso nel bacino dell’Albigna.

  5. E’ stato un vero piacere leggere questo romantico e colorato racconto!

    Complimenti agli autori per la scrittura ricca e fluida.

  6. Cela ne doit pas être facile d’attraper les prises quand on est léger comme un astronaute !

  7. Raramente, molto raramente, ho letto un racconto di un’ avventura alpinistica così interessante, coinvolgente e ben scritto: grazie per averlo pubblicato e complimenti all’autore!

  8. Bella via, e bellissima l’amicizia di corda( con le frasi in dialetto top)
     

  9. Gian Maria Mandelli è stato istruttore al corso INA di parecchi anni fa di un mio amico

  10. Questa parete ricorda vagamente la nord delle Jorasses. 
    Bel racconto. 

  11. Queste finestre di sano andar per dolomie e graniti tolgono il temporale Pasquale e portano il sole;della fantasia, dell’ avventura e dell’amicizia che si crea in cordata e che scusate se è poco ha pochi rivali!e fa rivivere tutti i bei giorni passati in parete simili a questo del ben descritto racconto.
     

  12. Bellissimo racconto, complimenti! Auguri a Loredana. PS ogni tanto avrei apprezzato una traduzione 🙂 

  13. Bravo Adelio. Mi ricordo di te e di quell’anno. Da quella tua ferita è nata una bella via. E non solo. 

  14. Gran bel racconto e magnifica salita, grazie.
    E mi piacciono anche la filosofia pratica:
    “è inutile andarli a cercare i guai, quando la vita ti insegna che sono loro, prima o poi, a venire da te”

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