Metadiario – 130 – La via Piaz al Campanile Toro (AG 1985-003)
Un giorno fui contattato da un alpinista che diceva di volermi intervistare a proposito delle prime gare europee di arrampicata sportiva in programma a Bardonecchia per l’estate. Questa fu l’occasione per fare conoscenza con Lorenzo Merlo e anche per andare con lui a scalare a Lumignano. In effetti ci trovammo bene e il 22 giugno 1985 ci recammo in Valle dell’Orco per salire assieme una grande classica, il Totem bianco alla Parete del Disertore.
Il 26 giugno invece andai con Davide Marnetto alla Corna di Medale: era il compagno ideale per salire Break Dance, un’arrampicata abbastanza temuta per le sue difficoltà. Questa via si svolge subito a sinistra della via che avevo aperto con Leo Cerruti, ed era stata aperta in più riprese da Ivano Zanetti, Giovanni Chiaffarelli e Umberto Villotta, con conclusione il 23 dicembre 1984. Era indubbiamente un itinerario evolutivo, una parola nuova nel panorama delle vie del Medale e del Lecchese in generale. Molto atletico, dapprima per diedri strapiombanti, poi per placche a gocce e infine sugli strapiombi finali per diedri e fessure faticose. Sapevamo che, se raggiungevamo la S3, la discesa in doppia sarebbe stata praticamente impossibile (però da lì si può deviare sulla sinistra e incrociare la via Bonatti). Armati di dadi e friend, affrontammo il primo tiro di 6a; ma la vera lotta iniziò al secondo tiro, su un tettino biancastro che sbarrava un bellissimo diedro (6c), che per fortuna mi feci da secondo.
La via proseguiva con un’altra lunghezza estremamente tecnica (6b+), molto impegnativa anche perché di 45 metri. Ancora terreno per Davide sulla quarta lunghezza: grandi strapiombi, in obliquo a destra, fino al 6c+. Il ragazzo se la cavò bene ma, essendo magro come un chiodo, praticamente denutrito, non aveva tanta resistenza. Così, sulla quinta lunghezza, una trentina di metri dati di 7b, non aveva molte speranze di salire in libera pulita. Dopo averlo visto attaccarsi a svariati chiodi, lo seguii senza neppure provarci: anzi, tirai fuori le mie staffe, tanto per non fare più fatica del necessario… Le ultime due lunghezze erano più adatte al mio livello e dunque le tirai entrambe io. Uscire da Break Dance è certamente una bella soddisfazione, anche perché gli ultimi tiri sono in un’esposizione fortissima.
Era anche il momento di riprendere l’esplorazione della Mesolcina, così la domenica dopo, 30 giugno, creai la nuova cordata con Lorenzo Merlo e Angelo Recalcati. Andammo alla Croce di Ledù 2052 m per ripetere l’ancora irripetuta via Bignami sullo spigolo sud. I comaschi Aldo e Mario Bignami, con Roberto Cocconcelli, avevano aperto la via: era il 29 settembre 1956 e lo spigolo era davvero evidente, una sfida fin troppo facile da raccogliere. Sono 230 metri di ottimo gneiss, e relativo maggiore sviluppo, di non sempre facile individuazione.
Dal Ponte di Dangri ci vogliono 3h15’ per andare all’attacco, ma l’ambiente ne vale davvero la pena. Le lunghezze di corda sono una più bella dell’altra, mai sotto al V+, e spesso presentano passaggi anche continui di VI+. La via mostrava qualche raro chiodo lasciato dai primi salitori, specialmente dove erano ricorsi a qualche passo di artificiale. Noi non piantammo altri chiodi, ma di certo usammo dadi e friend in gran quantità. In alto lo spigolo diventa cresta affilata e quasi orizzontale prima di raggiungere la vetta. Una delle più belle vie della Mesolcina si stava rivelando.
Con Angelo continuammo la nostra esplorazione su cime minori, più che altro per poterne descrivere la fino ad allora sconosciuta orografia. Lì non c’era possibilità di aprire grandi itinerari, ma vi assicuro che non ne sentivamo la mancanza, presi come eravamo da quel gioco che era davvero impagabile: la scoperta di intere zone.
Il 6 luglio salimmo lo sperone nord della Cima Orientale 2230 m del Monte Durìa 2264 m. Quest’ultimo chiude a sud la testata della Valle di Darengo. Negli anni seguenti vi saranno aperti numerosi brevi itinerari di arrampicata sul versante meridionale, solare e un po’ più facilmente accessibile. Gli autori saranno Ivan Guerini, Tiziano Capitoli, Ivano Zanetti ed altri. Il nostro sperone era la struttura più significativa dell’estesa barriera rocciosa a settentrione, in ambiente assai selvaggio, remoto e ombroso: 180 metri di dislivello con difficoltà discontinue fino al VII- per una via che battezzammo Errare humanum est.
Giunti in vetta al Monte Durìa, proseguimmo raggiungendone la Cima Occidentale 2245 m, poi scendemmo alla Bocchetta del Cribiallo 2083 m. Da qui iniziammo la lunga traversata da sud a nord della Cresta della Scatta 2227 m: sono circa 2 km di cresta orizzontale con parecchi su e giù, in genere di I e II grado, con qualche passaggino di III. Questo ci permise di raggiungere il Pizzo della Gratella 2229 m e quindi il rifugio Como per passarvi la notte.
Il 7 luglio, forti delle osservazioni visive fatte il giorno prima, fummo in grado di dirigerci a due obiettivi che avevamo individuato. Dapprima lo sperone nord della Cima Occidentale 2245 m del Monte Durìa, un itinerario direi proprio sconsigliabile che chiamammo via del Dettaglio. In seguito riguadagnammo la base del versante settentrionale del Durìa per affrontare lo spigolo nord-nord-est del Sasso Acuto 2002 m, una singolare piramide rocciosa che si eleva isolata proprio sopra all’Alpe Darengo. A questa montagna, più curiosa che rilevante, sono associate alcune fantasiose leggende. Carlo Amoretti riporta, nella sua guida ai laghi prealpini dell’inizio dell’Ottocento, la diceria che fosse costituita di puro quarzo, giustificata probabilmente dai riflessi del sole sulle lisce placche chiare. Qui l’arrampicata fu bella, varia e aerea su roccia buona. Dopo un tozzo pilastro, di IV e V, con un passo di VI-, si arrampica su cresta, in ultimo quasi orizzontale. Il tutto ha un dislivello di 350 metri e merita di essere ripetuto. Lo battezzammo Sed perseverare diabolicum…
Mentre scendevamo alla nostra auto, decisamente stancucci, non potei fare a meno di pensare alle gare di arrampicata sportiva. Il 7 luglio infatti vi fu la finale con la proclamazione dei vincitori. Io ero stato invitato come osservatore, ma non avevo voluto cedere al mio “splendido isolamento” tipico di chi si rifiuta di osservare il nuovo che avanza. In compenso la Melograno era ben presente all’evento, con Nella e Giuliana Scaglioni (tra l’altro quest’ultima partecipava alla competizione). Non ero curioso di sapere chi aveva vinto, maschi e femmine, di proposito relegavo l’evento nella zona del mio non-interesse. Ero geloso che l’alpinismo potesse averne un danno, d’immagine e di sostanza. Come spesso mi era successo, anche quella volta sbagliavo. E oggi non mi rimane che prenderne atto. Però il ricordo di quella camminata alla fine di due giornate impegnative è ancora ben vivo dentro di me: essere con un amico vero dentro a una vera montagna, condividere le stesse gioie, piccole ansie e disavventure, condite da tanta fatica. Questa è la felicità, quella che si ricorda anche dopo tanti anni come un dono ricevuto. Ed è curioso che in quella sublime condizione di spirito per la legge del contrappasso avessi dei pensieri sulla kermesse dello Sport Roccia di Bardonecchia, all’opposto del mio sentire. Tra Scilla e Cariddi non avevo alcuna intenzione di costruire alcun ponte di Messina…
Dal 13 al 28 luglio Nella ed io ci concedemmo una bellissima vacanza marittima. Dopo aver traversato in furgone la costa dalmata e aver visitato quel gioiello che era (e spero che ancora sia, dopo la guerra) di Trogir, giungemmo a Dubrovnik, una città veramente splendida. Nella aveva voglia di relax, di sole e di mare. Io volevo la solitudine che mi era necessaria per un altro progetto che avevo messo in piedi, la scrittura di Sentieri verticali. Quella volta infatti avevo portato con me una grossa porzione dei miei libri e parecchie riviste che trattavano il tema della storia dell’alpinismo dolomitico.
Prendemmo un breve traghetto che ci portò alla solitaria isola di Mljet, dove il turismo balneare era quasi a zero e dove la sera mangiavamo il pesce in un locale che non si capiva se era una trattoria o una casa di pescatori… Con noi, non più di altre due coppie di turisti tedeschi. La mia giornata si svolgeva lavorando alacremente alla stesura dei primi capitoli. Spesso dovevo lasciare dei punti interrogativi che avrei potuto risolvere solo in seguito a casa, ma il lavoro procedeva spedito nel mio furgone spalancato e posteggiato senza ombra di alberi. Nella prendeva il sole sulla spiaggia rocciosa lì vicino e ogni due ore la raggiungevo per fare assieme un bel bagno. Lei diventava nera mentre io rimanevo bianchiccio… ma l’abbronzatura non è mai stata un mio obiettivo. In questo modo le giornate volarono e venne anche il momento di affrontare il ritorno che, per cambiare, facemmo attraversando l’intera Bosnia.
L’1 agosto con il fido Angelo e l’amico Ettore Pagani andammo a scalare in un altro posto della Mesolcina decisamente fuori mano: la parete est del Monte Cardinello 2521 m, una bella cupola rocciosa alla testata di quattro valli, di Grono, Fiumetto, Dermone e di Dosso. 310 metri di dislivello, la parte interessante della scalata è all’inizio, con quattro lunghezze dal IV al VI-: in seguito si galoppa fino alla vetta. Battezzammo la via Santa Pazienza. Sempre nella stessa giornata, ancora affamati di roccia, ci rivolgemmo alla vicina Cresta dello Stagn 2371 m, più precisamente alla Quota 2400 m (Spalla nord-est della Cima di Paina 2382 m) che presenta un’interessante torre staccata. Raggiunta questa in breve dalla Bocchetta di Caurit 2355 m, affrontammo quella breve e bella arrampicata su roccia ottima, sempre sul filo destro del pilastro est, IV e V per tre lunghezze di corda. Nome della via: Nobile Pomeriggio.
Con Ernestino Fabbri si era deciso di fare una bella campagna in Dolomiti, anche perché io volevo percorrere alcune vie che ritenevo davvero importanti dal punto di vista storico. Ci muovevamo con due mezzi, il mio furgone e l’auto sua. Con me era Nella e il nipotino Paolo Cerruti; con Ernestino era la sua nuova fidanzata americano-polacca Clarice Zdanski. Dopo un pernottamento al rifugio Padova, ci rivolgemmo alla via Piaz del Campanile Toro. Era il 3 agosto 1985.
Siamo ancora una volta in tema di eleganti e snelle guglie, o di arditi campanili. La sagoma del Campanile Toro osservata dal rifugio Padova è di rara eleganza. Era ovvio che proprio su queste agili strutture, senza i troppi problemi delle grandi pareti, ci si potesse esercitare, si potesse a quel tempo (1906) osare un po’ di più.
Era quello il luogo dove anche Tita Piaz si decise ad adoperare qualche chiodo. Lo fece in un angolo veramente nascosto delle Dolomiti, su quel Campanile Toro 2345 m, diritto come un obelisco di 120 metri, che si leva tra Forcella Le Corde e Forcella Cadin, nelle Dolomiti d’Oltre Piave. Era il 21 settembre 1906 e suo compagno era Bernard Trier.
Piaz è piuttosto reticente, si limita a dire “lavorai la prima volta con mezzi artificiali”. «Quando raggiungemmo la vetta e ci abbracciammo, assai commossi, non esitai a classificarla pomposamente “la più difficile scalata delle Alpi”. Ciò che era un’affermazione puerilmente ardita, ma se si vuol considerare la mia età e il fatto che i fratelli Schmid, i vincitori della parete nord del Cervino, i quali ripeterono la mia scalata un quarto di secolo più tardi, la classificarono di V grado, si potrebbe anche trovare un’attenuante alla mia presunzione di 43 anni fa!»
Si tratta di un itinerario impressionante, friabile, in ambiente assai selvaggio che di fiabesco ha solo il terrore che i bambini provano quando la nonna racconta una storia crudele. Ci sono grosse difficoltà per l’assicurazione, anche volendo usare i più moderni nut. V grado, effettivamente, e temerario.
Anche ammesso che fosse la più difficile scalata nelle Alpi, cosa che lo stesso Piaz non credette mai seriamente, avrebbe avuto vita assai breve, perché l’anno dopo scoppiò il fenomeno Angelo Dibona, l’uomo che riuscì a compiere 60 prime ascensioni di rilievo.
Salimmo la via tutti e quattro, abbracciandoci in vetta. Avevo indottrinato i miei compagni sull’importanza storica di quell’itinerario, che non ci aveva riservato sorprese ma che s’imponeva come qualcosa di diverso dalle solite arrampicate dolomitiche, solari e frequentate.
Dopo una giornata di brutto tempo, il 5 agosto ritornammo ancora al rifugio Padova: da lì affrontammo la lunghissima e faticosa risalita dell’immane ghiaione che porta alla Forcella del Campanile. La mia intenzione era di salire anche la Cima di Forcella Campanile per il versante sud-ovest, per vedere se riuscivo a fare una foto al famoso Campanile di Val Montanaia, migliore di quella che si può fare quando si è nei pressi della forcella. Distaccai pertanto i miei quattro compagni per poterne avere il tempo, ma non fu che fatica sprecata perché la visuale dalla vetta non era bella come quella classica. Feci giusto a tempo a scendere per incontrarli alla Forcella Montanaia e per scendere con loro verso il Campanile di Val Montanaia.
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Condivido le impressioni di A.Gogna avute sul campanil di Toro come lo chiamiamo qua in Cadore: poco o niente da mettere per potersi proteggere…ricordo poi in alto a metà parete uno strano camino obliquo estremamente friabile eufemismo per marcissimo,il tutto in una giornata semi piovosa e tetra eufemismo per giornata di merda .
Insomma, chapeau al grande intuito e coraggio di Tita .
Quei lunghi e faticosi ghiaioni sono la salvezza della “selvaticità” delle splendide Dolomiti d’oltrepiave. Dove, ancora oggi, si possono avere emozioni quadi da primi salitori. Bei ricordi
Grazie per questo nuovo racconto!
Splendida la foto con Lorenzo!