Metadiario – 170 – La via Rabadá-Navarro al Naranjo de Bulnes
Era il 10 luglio 1993 quando Mauro Curzio mi portò ancora una volta al suo tanto amato Salto del Lupo in Val Varatella. Quella volta salimmo La lunga Notte degli Agognati, l’ultima via tracciata da lui su quella parete, tra l’altro solo pochi giorni prima, con Renato Gamba (4 lunghezze sul 6b e l’ultima di V). E’ struggente ricordare quanto bella fu quella giornata: perché fu l’ultima che trascorsi con lui. Solo due giorni dopo Mauro fu infatti vittima di un incidente motociclistico a Pietra Ligure.

Prima di questa ferale notizia feci in tempo in Val di Mello a legarmi con Gianluca Maspes per salire prima la via Cochise sulle Dimore degli Dei e poi la mitica Polimagò sullo Scoglio delle Metamorfosi, per un totale di 20 tiri, compresi i due finali di Luna nascente. Era il 13 luglio. Con noi erano anche Nadia Dimai e Guido Bonvicini. Temevo molto Polimagò, a causa non tanto delle difficoltà quanto della mancanza pressoché totale di chiodi e l’impossibilità di proteggersi. L’itinerario poi è ricco di traversate a destra, tanto da poter affermare che anche per il secondo la vita non è proprio così facile. Guido per l’occasione coniò un nome per questa combinazione: Pentadiretta. Si riferiva al fatto che si percorrevano, oltre a Polimagò, anche Cochise + i pezzi iniziale e finale di Kundalini + l’ultimo tratto di Luna nascente. Ma Pentadiretta non ebbe mai fortuna, tanto è vero che sono arrivato a questa ricostruzione solo con l’aiuto di Maspes.
Con Bibi, Ivan Guerini e Monica Mazzucchi ci recammo a Pietra Ligure al funerale di Mauro. In una galleria vicino a Savona evitai per un soffio un disastro automobilistico. Non sarebbe stata colpa mia, ma comunque fu un momento di spasimo. Abbracciammo la vedova Cristina, assieme a tanta altra gente: Mauro era amato da tanti!
Questo portò, il 22 luglio 1993, a un grande ritorno di frequentazione: Ivan Guerini!
Partimmo da San Bernardo e risalimmo la Valle del Drogo per la splendida mulattiera, cui ho già accennato, edificata negli anni Venti durante la costruzione della diga del Truzzo. Quel giorno era stupendo, perciò ci avvicinammo alle rocce dei Caürgh letteralmente elettrizzati. Il terreno era del tutto vergine, lo sapevo a causa delle ricerche fatte per la guida della Mesolcina in divenire con Angelo da ormai dieci anni. Già alla diga mi sentivo bombardato dall’irruente dialettica immaginifica di Ivan, che non era stato mai zitto per tutta la salita… Anche se devo riconoscere l’assoluta mancanza di banalità nei suoi discorsi.
Ci interessava la bella parete sud-ovest della cima meridionale dei Caürgh 2450 m, quella che si eleva verticale dalla Val dal Caürghiet. Ci eravamo fermati poco sopra la diga del Truzzo e potevamo vedere bene ogni dettaglio. Ma invece di inoltrarci nella Val dal Caürghiet preferimmo un’altra soluzione. La cresta sud-est della cima meridionale dei Caürgh, dopo l’intaglio senza nome 2324,7 m CTR, continua con due evidenti torrioni, anche loro innominati. Decidemmo di salire in obliquo a destra per raggiungere la base del torrione più meridionale (quotato 2369,8 m CTR). Scoprimmo in seguito che la rampa detritico-erbosa che lo permette ha un nome: Sédula dal Viée. Questa porta ad un punto panoramico noto come lo Stop 2294 m. La via più logica sarebbe stata il filo della cresta sud-est, a picco sulla Valle Spluga e alla sommità di un orrido versante. Ma esteticamente la parete subito a sinistra era assai più allettante, e appariva anche più impegnativa. Così preferimmo salire subito a sinistra per la triangolare parete sud, solcata da diedri e fessure paralleli. Qui le difficoltà non ci mancarono, perché le prime due lunghezze si rivelarono di VI e di VII. Dopo altri due facili tiri ci ritrovammo in cima a quella che battezzammo Torre dell’Aquila verde. Mentre chiamammo la nostra via la Grande Danza. Da lì scendemmo facilmente all’intaglio 2325 m c. Eravamo sotto il breve fianco sud della seconda torre (quotata 2376,5 m CTR) e la salita di questa era obbligata per continuare la traversata di cresta. Erano solo 50 metri, ma belli tosti (dal VI- al VII-). Chiamammo questo percorso via del Salto del Lupo e battezzammo la cima con il nome di Torre dell’Ometto (qualcuno c’era già salito dalla Val dal Caürghiet e aveva edificato, appunto, un ometto di sassi).

Non perdemmo tempo e scendemmo all’intaglio 2324,7 m CTR per la via dei primi e ignoti salitori: avevamo ancora da fare la sezione più corposa della nostra traversata: la cresta sud-est della Cima meridionale dei Caürgh. La affrontammo a passo di carica decisi a seguire la serie di fessure e diedri in successione che solcano il fianco meridionale della cresta sud-est (che in realtà sarebbe meglio definire sperone sud-est). Sono quattro lunghezze di corda, con difficoltà fino al VII, una più bella dell’altra. Purtroppo in tempi posteriori (6 luglio 1998) fu aperta a sinistra del nostro itinerario la via Aria nuova, da Simone Gorelli e Vittorio Moraschini): questa confluisce nella nostra alla base dell’ultima lunghezza. I due aprivano con criteri ben diversi dai nostri, pertanto misero uno spit nell’ultima lunghezza (VI+, in comune con la nostra via) e dotarono anche la vetta di due spit di sosta! Se è così, preferisco l’aria vecchia… Battezzammo il nostro itinerario via Mauro Curzio.
Scendemmo senza problemi lungo la Val dal Caürghion fino alla diga e da lì ancora a San Bernardo.

Ormai con la guida della Mesolcina mi ero rilanciato: così, nel giorno del mio compleanno 29 luglio, convinsi Andrea Bavestrelli, un geologo che vedevo tutti i giorni perché lavorava con noi a Montana, a venire con me in un altro luogo sperduto, il versante meridionale del Pizzo Tambò 3279 m. Ci vollero due ore e mezza per arrivare da Montespluga all’attacco, lungo un magnifico vallone erboso, poi detritico. A sud-sud-ovest della vetta è un’evidente struttura, denominata il Dente del Tambò, che precipita a sud con una bella parete giallo-rossiccia solcata da un grande diedro. A destra di questo è un evidente e affilato spigolo che subito catturò la nostra attenzione. Non avevo mai arrampicato con Andrea e soprattutto non sapevo fin dove ci si potesse spingere con lui: ma, data l’eleganza di quell’obiettivo, non esitai a iniziare. Impiegammo quattro ore per fare otto lunghezze e ritrovarci in vetta al Dente del Tambò 3151 m. In effetti Andrea mi seguì tranquillo e veloce su questa via che, alla fine, risultò essere molto sostenuta, con difficoltà in genere di V e V+, con diverse punte di VI e VI+. La chiamammo Spigolo dei Cavalli, per via del nutrito gruppo di equini che per tutto il giorno vedemmo in lontananza al Piano dei Cavalli. Scendemmo facilmente per la cresta sud-sud-ovest, la via di Ernest Bircher ed Eduard Imhof jr. del 2 agosto 1913.
E arrivammo finalmente alle agognate ferie. Con Marvi e Franco Ribetti avevamo deciso di andare ai Picos de Europa, nelle lontane Asturie spagnole. Andammo con due auto perché con noi era anche Petra che, a 20 mesi, necessitava per la sua gestione di un armamentario quasi imponente. Dopo una prima tappa in Francia, il 1 agosto alla falesia di Eyguiers e il 2 e il 3 a quella di Sinsat, facemmo un giretto ad Andorra e infine affrontammo la grande traversata spagnola con un caldo eccezionale. Non avevamo previsto l’uso di tende, pertanto eravamo costretti a passare le notti negli alberghi: quelli della catena Mirador ci parvero decisamente di buona qualità e prezzo contenuto.

Non sapevamo che la zona dei Picos de Europa fosse così selvaggia e poco turistica. Queste montagne si chiamano così perché erano le prime che vedevano i marinai che traversavano l’Atlantico di ritorno dall’America. Non c’era alcun Mirador in zona, ricordo parecchie bettole trasandate, oscure, forse anche un po’ equivoche. Per la gestione di Petra si rivelarono subito grandi difficoltà. Per esempio, alle sette di sera, quando la bimba doveva mangiare e lo reclamava a gran voce, i baristi dei locali presso i quali si poteva chiedere di scaldare un biberon o qualche altro cibo si erano appena alzati dalla pennichella pomeridiana, dunque non erano così ben disposti. Petra finiva per mangiare alle 22 e questo non andava per niente bene. Aggiungiamo anche che la qualità di questi locali era davvero misera, nella sporcizia più evidente. In più il tempo era assai fetente, ma pare che lì d’agosto sia spesso così. In basso, dal livello del mare fino ai 7-800 metri, nuvole e nebbia: le coste dell’Atlantico per nulla favorevoli al bagno, in quel grigiore generalizzato. Sopra gli 800 m sole a palla! Il 9 agosto, per verificare andai al Lago Enol e, lasciata l’auto nella zona denominata Pandecarmen, continuai da solo fino al refugio Vegarredonda 1470 m. Effettivamente c’era un gran bel sole!

Sapevamo della grande qualità della roccia dei Picos, un calcare che fa concorrenza al Verdon; e sapevamo dell’importanza storica che, per l’alpinismo spagnolo, ebbe la conquista della parete ovest del Naranjo de Bulnes 2519 m (in asturiano Picu Urriellu) da parte di Alberto Rabadá ed Ernesto Navarro (21 agosto 1962). Era quella la nostra meta. Con Franco decidemmo di impiegare due giorni, dormendo al rifugio, facendo perciò due salite: la via Amistad con el Diablo, sulla parete sud-est e, appunto, la via Rabadá-Navarro sulla parete ovest. Partimmo al mattino presto e, raggiunto con uno splendido cielo azzurro il refugio de Urriellu 1960 m, proseguimmo fino alla base della parete sud-est. Amistad con el Diablo (V+, non attrezzata) è purtroppo di soli 200 metri. “Purtroppo” perché per la qualità della roccia, semplicemente entusiasmante, si vorrebbe che la parete non finisse mai! Passammo la notte nel quieto rifugio, abbastanza frequentato più che altro da escursionisti. Io vivevo nel complesso di colpa perché sapevo che giù in basso la quotidiana lotta per l’alimentazione di Petra era tutta sulle spalle di Bibi. Meno male che c’era Marvi che le dava una mano.


Di buon mattino attaccammo la parete ovest, che si ergeva sopra di noi per quasi 500 metri. Di questa ho un ricordo superlativo, anche perché a tutti i costi volevo salirla in libera. In particolare, già nelle prime lunghezze, c’era un passaggio dato in artificiale (A1 oppure 6c+) che mi preoccupava. Ebbene, lo superai al primo tentativo! Era fatta! Anche Franco, da secondo, ci riuscì. Ormai non ci poteva più fermare nessuno e arrivammo per la seconda volta in vetta al Naranjo de Bulnes con una soddisfazione rara.
Nei giorni seguenti fu turismo: aggirammo i Picos per andare a vederne il versante meridionale. C’era un tempo atmosferico decisamente migliore anche in basso e la maggiore frequenza turistica ci permise finalmente di rilassarci. Quei posti sono veramente belli e i giorni scorrevano finalmente sereni tra brevi passeggiate e giochi con mia figlia. Così sereni che il 14 agosto, senza alcun complesso di colpa, decidemmo di andare a fare la parete sud della Torre de los Horcados Rojos. Con una funivia salimmo tutti assieme, poi Franco ed io ci avviammo per la parete sud, 380 m fino al V+, una via aperta nel 1958 da Pedro Udaondo, Angel Landa e José María Regil.

Ormai era tempo di iniziare il viaggio di ritorno, ancora con le stesse difficoltà per via dell’immane calura. Passammo dai Mallos de Riglos ma, con il caldo che c’era, l’arrampicata era impensabile. Ci dirigemmo perciò verso il parco nazionale dell’Ordesa, più alto di quota. Il 17 agosto con Petra sulle spalle salimmo per la Valle di Bujarvelo verso la località Mirador. C’era tanta gente, tutti molto rispettosi e silenziosi. Finalmente la temperatura era accettabile. Con Franco avevamo pensato di salire il Tozal del Mallo 2280 m e la mattina di quel 18 agosto alla fine scegliemmo di salire la parete sud per la combinazione della prima parte della via Brujas (Alberto Rabadá, Ernesto Navarro e Juan José Díaz salirono l’intera via dal 27 al 29 giugno 1963) e della seconda parte della via Franco-Española (Josep Manuel Anglada e Francesc Guillamón salirono l’intera via dall’11 al 12 giugno 1960), una legnata nei denti di 400 m abbastanza notevole (per il 6b+, ma anche per il caldo e la sete). Il rientro in Italia non ebbe storia.

Sulla guida Palestre di arrampicamento genovesi, di Euro Montagna (il mio mentore), figurava la descrizione del Monte Tregin, una montagna dell’Appennino genovese a nord di Sestri Levante. Non avevo mai avuto occasione di andarci, ma le mie continue trasferte a Levanto mi facevano osservare quella montagna dall’autostrada. Il 24 agosto 1993 mi risolsi ad andarci, assieme a Cecilia Scarponi (di Milano, ma conosciuta a Levanto): con lei salimmo lo sperone sud, una via che a malapena raggiunge il III grado ma che, chissà perché, desideravo da tempo. Anche lì il caldo non perdonava e in discesa ebbi appena il tempo di dare un occhio alla vergine parete ovest.
Finalmente il 26 agosto Bibi ed io potemmo concederci una salita noi due da soli: la portai in Apuane, sullo sperone nord-ovest del Monte Forato. La via si chiama Stefaluc, ed era stata aperta da Stefano Funck e Luca Dini il 18 luglio 1980. La trovai più impegnativa del previsto, ma anche qui Bibi mi seguì senza lamentarsi, in definitiva divertendosi su questa strana montagna con quella così grande finestra rocciosa che non mancammo di visitare in discesa.

Il 29 agosto mi risolsi a tentare quella che stavo vivendo come un’impresa vera e propria: la prima solitaria della via Codega-Bonelli alla parete nord del Monte Sagro. Questa è una specie di mostro sacro per le montagne apuane: roccia non sempre buona, spesso invasa dal forte e resistente paleo, l’erba tipica che prospera ancor meglio sui versanti settentrionali. Feci il viaggio da Levanto con molta concentrazione, non volevo lasciarmi prendere dalla fretta o dalla sensazione di “doverla” fare. Volevo avvicinarmi con circospezione e rispetto, quella Nord aveva una fama abbastanza sinistra. Sul primo speroncino non ebbi problemi. Poi nel diedro che è il tiro chiave della via salii autoassicurato, senza trovare gravi difficoltà, anzi. Trovai la roccia molto migliore di ciò che si diceva in giro. Poi però mi trovai in una zona di misto (roccia ed erba) in cui occorreva avere molto sangue freddo. La parte più impegnativa fu tuttavia quella finale, dove il “misto” si raddrizzava proponendo una continua serie di passaggi non convenzionali e pericolosi. Uscii in vetta ben contento che fosse finita. Nella discesa mi sorpresi a pensare quanto pericolo avessi affrontato quel giorno. Soprattutto mi domandavo perché. Voglia di gloria? Ma quale gloria può dare la Nord del Sagro…! Voglia di esplorazione? Può darsi, ma si può avere possibilità di esplorare anche su pareti meno pericolose, no? Rimaneva il gusto della sfida: ma questo, francamente, mi meravigliava, perché non avevo più l’età e non comprendevo perciò cosa e perché dovessi “sfidare”… In un modo o nell’altro, attraverso questi tentativi di risposta, arrivai ad intravvedere che la mia era soltanto una fuga dalle mie responsabilità. Non era la prima volta che pensavo che essere padre significasse un cambio radicale della propria Weltanschauung e che proprio di questo cambiamento io avessi paura. Ma, sapete bene, un conto è arrivarci razionalmente e un altro è arrivarci sull’onda dell’emozione. L’arrivo in vetta al Monte Sagro nel tripudio estivo e pomeridiano, dopo una prova di quel genere, non può lasciare indifferenti. Non mi sembrava di essere stato vicino a un pericolo così mortale, ma di certo avevo affidato la mia vita a fattori non poco incerti. Se avevo paura di essere padre, non era andando sulla Nord del Sagro da solo che avrei potuto ritenermi coraggioso. Forse era la prima volta che, raggiunta una meta, non desideravo superarla con un’altra impresa. Di fatto, giunto dopo un lungo giro alla mia auto, mi sentivo sazio, davvero pieno: ma forse, più di prima, amante della vita.


Il 5 settembre 1993 tornai alla Sud-ovest del Monte Contrario con Angelo Recalcati: questa volta il tempo era bellissimo e ci facemmo la salita in pieno relax. La via Ceragioli è un grande itinerario, meriterebbe maggiore attenzione da parte della comunità alpinistica: è sempre una parete di 700 metri, dove l’itinerario logico è conquista sosta dopo sosta. Il 12 settembre andai con Popi Miotti alla Parete Striata del Muzzerone a salire on-sight Angina Pectoris.
Nel frattempo avevo ripreso a lavorare. In quel periodo davo una mano a Giovanni Rosti e accoliti di Montana per l’ultima grande indagine di Aquila Verde, che si svolse nell’autunno 1993 sul corso di alcuni tra i grandi fiumi italiani: purtroppo non ritengo sia stato un lavoro degno dei precedenti. La ristrettezza del budget e lo scarso spazio dedicatoci poi da Panorama furono i principali responsabili della mediocrità di questa iniziativa, nata con il patrocinio di Mountain Wilderness. Concepita a stento, condotta con difficoltà, nella sua fine ingloriosa si dovette registrare anche un contenzioso economico con l’associazione. Dopo essersi trascinata questo credito praticamente inesigibile nel proprio bilancio, dopo una decina d’anni Montana, nella rinuncia, trovò modo di sistemare contabilmente. Qui potete leggere il pdf dell’articolo apparso su Panorama il 25 febbraio 1994.
Il 4 ottobre 1993 con Angelo Recalcati andammo alla parete est-sud-est della Cima delle Dune (pure chiamata il Balzùn) 1417,7 m CTR, anche per fare un po’ di chiarezza nella selva di vie dichiarate e solo elencate da Ivan Guerini nella Rivista della Montagna n. 149: sono tutti itinerari assai simili, con pochissimi riferimenti a differenze tra loro. Ragionevolmente percorremmo la via Geografia della Levigatezza (forse con variante nuova iniziale di tre lunghezze), un itinerario aperto da Giorgio Gobbi, Ivan Guerini, Andrea Lupo Maiocchi e Monica Mazzucchi il 19 maggio 1991.
E sempre nella scia di andare a controllare i nuovi itinerari aperti in val Bodengo, ancora con Angelo il 9 ottobre andammo alla Culla, dove salimmo Lacrime di Quarzo (tre lunghezze, 2 tratti di artificiale) e Cullami! (un passo di artificiale). Non contenti affrontammo anche le vicine Placche del Settimo Cielo, dove salimmo una combinazione di Dreamaway (1aL), Gigi la Mela (2aL) e Train Trucks (3aL e 4aL).

Concludo la rassegna con il Pizzo del Saregiolo 2303 m, la montagna ben visibile da Chiavenna guardando a nord-est, con un assai estetico profilo di spigolo/cresta sud-ovest. Era troppo evidente, ci sembrava quasi impossibile che non fosse stato ancora salito. In ogni caso con Angelo affrontammo la dura marcia di avvicinamento di quasi quattro ore e quel 27 ottobre salimmo lo spigolo per quattro lunghezze di corda. Avevamo fatto tardi e il tempo minacciava. Così interrompemmo il tentativo e scendemmo. Ne riparlerò al momento di raccontare la volta decisiva.
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Salve, sono un assiduo frequentatore e cacciatore delle zone Saregiolo, vallate, ramascio, val della Mola ecc e mi piacerebbe sapere qualcosa di più sul suo tentativo di scalarlo.
Comunque il casco della Galibier aveva una bella linea. E doveva essere bianco.
Io credo che non si usasse il casco perché farlo era da caiano, o, se preferite, da vecchio “alpinista” classico.
Un po’ come portare i pantaloni alla zuava, o la carlo mauri, o il maglione rosso, insomma.
@ FabioSono d’accordo.
“Qualcuno ha avuto incidenti sciistici in cui ha cozzato contro pietre?”
Michael Schumacher, che aveva il casco.
Ogni tanto si legge di incidenti sulle piste da sci, con schianto contro un albero (con il corpo e a volte pure con la testa) ed esito mortale.
I travolti da valanga possono morire per traumi al cranio subiti durante il trascinamento; in tali casi ci si può domandare se il casco sarebbe stato utile. Mah!
A proposito di casco e pericolo percepito , io lo uso quasi sempre per arrampicare ma quasi mai nelle scialpinistiche “normali”.
Qualcuno ha avuto incidenti sciistici in cui ha cozzato contro pietre ?
A me sembra cosi’ improbabile..
Matteo 10, la seconda.
il casco anche quelli di adesso, fa sudare . L’unico pregio in questo caso è che al punto di sosta te lo togli, aspetti qualche minuto, e quando te lo rimetti, il sudore che è all’interno del casco si è raffreddato e da una piacevole, anche se breve, sensazione di fresco alla testa.
Ricordo l’articolo di Jean Afanassieff.
Lo ricordo bene perché strabuzzai gli occhi leggendo che sulla parete nord dell’Eiger “non aveva indossato il casco perché lo trovava antiestetico”.
Tot capita, tot sententiae. Tante teste, tanti pareri.
Lo scopo primario del casco è quello di proteggere la testa in caso di caduta, la protezione dalla caduta di pietre viene dopo. Viste però le dimensioni di alcuni e soprattutto come vengono portati, potrebbero sorgere forti dubbi.
Marcello, vorrei provare a dare anche altre risposte alla tua domanda oltre alla tua “Mi sento di collocare l’uso diffuso del casco in alpinismo con l’inizio del consumismo in quell’ambito.” che è senz’altro vera almeno in parte, ma mi pare incompleta.
La prima è che una volta i caschi erano scomodi da portare, tenevano un gran caldo e in più erano decisamente pesanti, per cui si era alquanto invogliati a non scammellarseli negli avvicinamenti se non strettamente necessario. Nel mio giro per esempio era pratica comune non portarli quando si andava su granito, maxime in placca, dove la probabilità di caduta sassi erano basse…e se veniva giù qualcosa erano frigoriferi, contro i quali il casco non serve.
Ora lo porto sempre, perché l’unico disagio, invero di pochissimo conto, è al massimo quello farlo stare nello zaino.
La seconda è il lavaggio del cervello a cui siamo sottoposti, che conduce allo stigma sociale (come accenni anche tu) e che quindi ci condiziona.
Trovo comunque importante la tua considerazione, perché mi permette di riflettere (o almeno di prendere coscienza) di quanto si sia influenzati/influenzabili…qualche volta per nobili motivi (come il casco, in fondo) ma tante, troppe altre per interessi e interventi che tendono a condizionarci.
Mi sento di collocare l’usodiffuso del casco in alpinismo con l’inizio del consumismo in quell’ambito. Prima ci si vestiva e equipaggiata con robe di fortuna e poi sono arrivate moda e rincorsa a marche e status symbol.
Non era per la sicurezza.
Ho visto con i miei occhi uno che si provava pile frontali davanti allo specchio in un noto negozio.
Bertoncelli, ripeto, queste cose le so perfettamente e uso il casco. Volevo andare oltre.
Non credo che negli anni ’80 ci si sentisse invincibili ma anche i più prudenti il casco non lo usavano.
Ricordo un bellissimo articolo dissacratore sulla Rivista della Montagna in cui Jean Afanasieff raccontava di una ripetizione della classica alla nord dell’Eiger, dicendo che non aveva indossato il casco perché lo trovava antiestetico.
Questa è simili dimensioni volevo analizzare.
Beh, se quelle ragioni ti paiono banali, la stupidità può essere un altro motivo.
Oppure la presunzione che a noi non capiterà mai nulla. Per esempio, pensa a tutti coloro che in auto non indossano la cintura di sicurezza.
Mia moglie è volontaria alla Croce Blu. Di recente è intervenuta in un incidente stradale con un bimbo in gravi condizioni: era senza cintura di sicurezza, benché la madre – mentendo e forse pentita – sostenesse il contrario. Il bimbo ha sfondato il parabrezza.
Una volta avevo un amico a cui piaceva guidare a velocità folle: “Io sono un dritto: non ho mai avuto un incidente!”. E ci credo: il primo incidente sarebbe stato anche l’ultimo.
Ciò che intendo dire è che a questo mondo purtroppo le disgrazie vengono a trovarci anche senza stuzzicarle. Tutto qui.
Poi ognuno si comporta come crede, assumendosi i relativi rischi. Per esempio, può traversare tutto solo le seraccate del Ghiacciaio della Brenva perché cosí gli va. Oppure può salire il Canalone Gervasutti al Tacul o il Gran Pilastro alla Pala di San Martino senza casco.
Bertoncelli mi aspettavo qualcosa di meno banale. Quello lo so anch’io. E lo sapevano anche quelli delle foto.
Ma tant’è il casco non lo metteva quasi nessuno, me compreso. Per questo mi è vi faccio questa domanda. Perché?
Spesso è volentieri arrampico senza casco, in falesia sempre senza. I miei amici mi caziano, ma io rispondo che qualcuno che da il cattivo esempio ci vuole. Devo comunque essere sincero, il casco tanti anni fa sulla Frisch-Corradini alla Pala del Rifugio mi ha salvato la vita, una bella sassata in testa, nonostante il casco mi diedero 4 punti in testa. Ero tutto insanguinato, sembrava mi avessero tagliato la gola :???? comunque la via l’ho finita e sceso con le mie gambe.
“Qualcuno sa dirmi perché?”
Perché, se precipiti per dieci metri oppure ti cade un sasso in testa, senza casco il cranio può spaccarsi come un melone che cade da un primo piano. In tal caso il cervello si spande sulla roccia colorandola con delicate tonalità rosate.
Per di piú, la scena non fa una bella impressione a chi rimane a vedere ciò che resta.
Col casco non è detto che si sopravviva, però almeno uno ci prova.
Mi fa sempre una bella impressione vedere scalatori senza casco in queste fotografie. Sembrerà stupido, ma è quello che provo guardandole.
Oggi sulle stesse vie nessuno (o quasi) ci andrebbe senza.
Qualcuno sa dirmi perché?
La via dei fratelli Sergio e Vinicio Ceragioli sulla parete sud ovest del monte Contrario, è una via notevole, evidenzia la grande capacità e la visione dei due terribili fratelli camaioresi. Fu ripetuta in prima invernale da Bastrenta e Montagna. L’ambiente del vallone degli Alberghi in cui si affaccia la parete è spettacolare e ancora integro.
vero bellissima via, fatta anche io. Roccia spettacolare