Metadiario – 184 – La voce del silenzio (AG 1994-012)
L’ambiente naturale deve essere visitato con discrezione: per così dire, in punta di piedi. Lasciamo ai più intolleranti pensare che la folla porti comunque il rumore: in una chiesa gremita di fedeli non si sente volare una mosca quando tutti ascoltano la propria voce interiore. Così in montagna, anche un numero grande di persone non è sinonimo di frastuono. Per evitare che folla voglia dire rumore, dobbiamo imparare ad aprirci al silenzio e a riconoscerne la voce profonda.
Chi si aggira per i boschi ridendo fragorosamente o facendo il verso a canti popolari e gorgheggi tirolesi in realtà si è staccato così seriamente dalle proprie radici da non poter o non voler più distinguere, come qualche volta i bambini, una gioiosa allegria da una fastidiosa e capricciosa petulanza. Spesso però, con dolore, assistiamo impotenti a urla, schiamazzi, gracchiare di radio e motori, a clacson che impauriscono gli animali e prevaricano coloro che invece cercano la quiete. Sentire nel proprio intimo questa aggressività ignorante e insensibile è soprattutto la denuncia di quanto poco siamo capaci di rispettare noi stessi.
Vallone dei Laures, baite di Le Tramail, gruppo del Monte Emilius, Valle d’Aosta
Chi non è capace, neppure sulla cima di una montagna o immerso in un luogo solitario, di raggiungere la calma mentale e rimane prigioniero dell’agitazione, del nervosismo e della confusione che gli caratterizzano la vita in città è ben lontano anche dalla sola ricerca della propria pace interiore; ma pure chi, come noi, si lascia sorprendere a volte da una punta di fastidio per questa gente non è in posizione assai migliore nel lungo cammino verso la serenità: anche il ronzio di un insetto in quelle condizioni ci disturba e ci lasciamo contagiare dallo stesso tipo di aggressività che denunciamo negli altri.
Il 21 giugno 1994, dopo aver usufruito degli impianti di Pila e bivaccato nello squallore, salgo alla Punta di Monpers Centrale 2755 m c. allo scopo di fotografare il versante settentrionale della Grivola. L’impressione di periferia in decadenza, se si va lassù d’estate, si mitiga solo un due o trecento metri più sopra. Sono fortunato, l’alba sulla Grivola è grandiosa.
È poco dopo la mezzanotte del 2 luglio quando mi sdraio vicino all’auto posteggiata sul lato della stradina che da Grand Brissogne s’inoltra gradualmente nel Vallone di Laures. Uso il sacco piuma come una coperta e faccio fatica ad addormentarmi perché sono veramente felice di essere qui, da solo e in questo posto dimenticato. Il silenzio è quasi totale, solo un lontano rombo di cascate d’acqua mi tiene compagnia, sottofondo a pensieri che finalmente si rivolgono alla pace dopo una giornata assai agitata.
Così vicino al fondo valle e ai suoi rumori, è una lieta sorpresa il ritrovarmi appartato, come se volontariamente mi fossi nascosto alla vista e ai detector degli uomini.
All’una e quarantacinque un’auto mi passa vicino: i suoi fari sono sciabole che rompono il mio isolamento di dormiveglia. Con pochi gesti precisi mi rivesto, mi allaccio gli scarponi, sistemo l’altimetro nel taschino, il telefonino nella tasca dello zaino, chiudo l’auto a chiave e mi avvio senza neppure la luce frontale.
Salgo veloce perché ho intenzione di raggiungere il Lago Inferiore di Laures alle prime luci dell’alba: sono 1600 metri di dislivello.
Come tutte le altre volte, sono emozionato e quindi veloce. Non mi disturba il forte peso dello zaino perché ora penso con il cuore, in maniera diretta, senza gli andirivieni di lunghe investigazioni razionali su problemi che quanto più provocatoriamente esigono una risposta tanto più sono forse inutili. Messo in disparte il pensare dispersivo, il risparmio di energia tende a combinarsi in armonia con l’agilità di movimento fisico.
È esaltante salire spediti, al buio, nel fragore d’acqua che sempre più si avvicina. Passando i traballanti ponticelli di legno, il pulviscolo di cascata quasi mi inzuppa. Ma è un sollievo al sudore. Il sentiero sale continuo a collegare i punti deboli di questo scrosciante e ripidissimo vallone che, nella sua enormità e nella mancanza di luce, potrebbe apparire assolutamente insuperabile.
Lac d’en Bas de Laures e Monte Emilius
Il sentiero perciò è l’unico legame che ho con l’obiettivo della mia escursione notturna, il solo amico che abbia qui a condividere l’assordante voce del silenzio.
Me ne ero già dimenticato, ma all’improvviso raggiungo e supero i due dell’auto che in effetti mi precedevano di molto: questi sono fermi accanto alle rovine di un baitello. Una voce di saluto: – Anche voi ai Laures? – e un pensiero di curiosità: – Ma dove vanno questi a quest’ora? – e procedo oltre come se avessi incontrato dei fantasmi.
Quando, molto prima dell’alba sul Monte Emilius, arrivo sulle rive del Lago Inferiore di Laures, il caratteristico ronzio del grande silenzio mi accoglie. La vasta e solitaria conca che si apre alla testata del vallone amplifica il nulla che mi rimbomba nelle tempie accaldate, le tetre acque del lago sembrano essere profonde e inghiottire ogni esistenza e sensazione superflue. È l’attimo prima del chiarore, quando silenzio e buio stanno per separarsi.
Sempre più in alto, il Lago Superiore di Laures 2787 m è ancora per metà ghiacciato e l’Emilius vi riflette solo parzialmente la sua rossastra parete orientale. Lo spazio che mi circonda si appoggia su morene immani e su balze a panettone con gli ultimi fili d’erba prima che distese di sassi e neve ricoprano anche le poche tracce di sentiero ai due o tre colli transitabili.
Un ruscello che scorre, un uccello che canta, una roccia che si oppone al vento sono alcune tra le mille voci del silenzio; anche una superficie d’acqua assolutamente immobile e il buio che muore sono voci che vanno dritte al cuore e combinandosi tra loro in infinite variabili ci portano lontano, ci separano gradualmente dai nostri modelli di tutti i giorni. Modelli e schemi conformisti che assomigliano in genere a ritmi musicali o a melodie che sottolineano le scene principali di un film di cassetta. Ma in natura non c’è una colonna sonora che insegua i sentimenti, perché sono i sentimenti stessi a confondersi con la natura e a crearsi un sereno distacco dal film in cui viviamo. Le voci del silenzio ci allontanano da tanti desideri a basso voltaggio e ci riavvicinano a quell’energia a grande differenza di potenziale che proprio loro hanno connaturata: così la realtà ci diventa manifesta con un lampo e il tuono ci sembra rumorosamente superfluo.
Dalla Punta di Leppe, da destra: Monte Emilius, Passo dei Tre Cappuccini, Punta Rossa, Colle di Valaisan, Punta Garin. Sotto all’Emilius, il semighiacciato Lago Superiore di Laures. Foto: Marco Milani
Situato al limite settentrionale del Gruppo del Gran Paradiso, il massiccio del Monte Emilius per alcuni ne fa parte, per altri costituisce un nodo orografico a se stante. Comunque sia, ci troviamo di fronte a un complesso di rilievi assai suggestivo ed imponente, dei quali l’Emilius è il naturale sovrano. Elegante da qualunque parte la si osservi, la montagna ha nella sua lineare eppure complessa conformazione la caratteristica principale. Il nome ha origini incerte anche perché, nel corso degli anni, ne sono stati usati ben quattro ad indicare la stessa montagna.
Come ci racconta quell’istituzione di cultura alpinistica che fu l’abate Joseph Henry, è molto probabile che il primo nome dell’Emilius sia stato Mont Chamosier o Chamosser: si era verso il 1200. Poco dopo, ecco comparire il toponimo di Picco delle Dieci Ore, conseguenza del fatto che lì vicino, l’odierna Becca di Nona era detta Picco delle Undici ore (l’interpretazione secondo la quale i nomi in genere derivano da osservazioni di carattere pratico è sempre tra le meno azzardate!).
Come è accaduto per tante altre cime un altro nome, quello di Punta di Vallé, deriva forse dal Plan Valé, ripiano situato fra l’Emilius e la Becca di Nona. Più misteriosa è l’origine del termine Mont Pie, mentre per soddisfare la vostra curiosità vi informiamo che l’odierno nome fu dato dal canonico Carrel per onorare la signorina Emil Argentier che salì in cima a soli 14 anni.
Il 6 luglio 1994 risalgo con Marco Milani il lungo Vallone di St. Marcel, immerso in una pace recondita. Alcune malghe ricostruite di recente ospitano un bestiame che rimane per tutto il tempo invisibile. Dalla vetta della Punta di Leppe 3305 m abbracciamo con uno sguardo il versante opposto, la conca dei laghi solitari e silenziosi che ricordo così bene: siamo nel punto dal quale non si può salire oltre, nella stretta fascia di contatto dove due mondi si aprono e si chiudono l’uno all’altro nello stesso istante.
Siamo i portavoce del loro linguaggio comune: anche noi, come il vento, siamo dei portatori di silenzio.
Portatori instancabili, perché nella stessa giornata ci trasferiamo a Gressoney per poi salire al rifugio Quintino Sella al Felik. Carichi come muli, dobbiamo fare delle foto a una tenda Ferrino, nell’ambito di High Lab, una loro nuova iniziativa che in seguito ebbe parecchia fortuna.
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Un pò di anni fa , d’inverno, sulla parete nord-est del Monte Grondilice, sulle Alpi Apuane, abbiamo aperto un via e l’abbiamo chiamata “ASCOLTA IL SILENZIO” .
E’ divenuta una bella classica dell’alpinismo invernale apuano.
Le Apuane dove purtroppo il silenzio è rotto non tanto dagli schiamazzi delle persone ma dalle ruspe, dai camion e dalle mine che mangiano i fianchi di queste bellissime , ma sfortunate, montagne.
vedi in una società dove per comunicare ad una ragazza che sei innamorato !!!! oggi si manda un messaggio col telefonino con un italiano da troglodita….. tutti sentiamo ma pochi ascoltano ed osservano cosa vuoi pretendere? condivido pienamente quello che scrivi e ti confesso che quando vado in montagna e sento la gente che schiamazza come “anatre in amore” mi va via tutta la poesia
ciao