Metadiario – 151 – Laga, Buoux, Lavaredo e Olimpo (AG 1989-001)
E’ fuori discussione che l’inserimento della segreteria di Mountain Wilderness nello scantinato di via Volta 10 abbia fornito nuova vitalità alla nostra vita d’ufficio. Di vita, in quei locali, non c’era solo la nostra: colonie di centinaia di insetti quasi microscopici popolavano i muri. Ogni mattina ci dilettavamo a capire se le quantità aumentavano, oppure a ragionare sulla logica dei loro spostamenti in massa. Era l’umido che permetteva loro di prosperare così bene. Avevamo sperato nella potenza deumidificante della nostra stufa, che funzionava a pieno ritmo tutto il giorno. Ma quando a marzo sospendemmo il riscaldamento per l’arrivo della primavera, le colonie ripresero a furoreggiare. Nella preferiva ovviamente lavorare in casa, e anche Chiara Sicola era schifata. Neppure l’anno dopo, quando mi risolsi a comprare un deumidificatore, furono ottenuti risultati migliori. Lo comprai teoricamente adatto alla nostra volumetria (circa 750 metri cubi) ma ne rimanemmo assai delusi.

La stufa era una De’Longhi e dava parecchia soddisfazione. Bruciava assolutamente di tutto, ma non era la legna il combustibile più consumato. Sì, è vero, nelle nostre gite domenicali ogni tanto facevamo provvista, ma questa pratica era abbastanza complicata. L’acquisto di legname, a causa di una colpevole e miope politica di risparmio, era fuori discussione…
Uno dei negozi di via Volta 10, e precisamente quello a sinistra entrando nel portone, trattava abbigliamento in generale ed evidentemente riceveva (o comprava) quintali di riviste patinate. La spazzatura del condominio veniva gettata negli appositi bidoni che facevano bella mostra nel secondo cortile, cioè quello del nostro scantinato. Ancora non si faceva la raccolta differenziata. Almeno una volta alla settimana le riviste del negozio erano impilate accanto a quei bidoni ed era compito della portinaia la periodica consegna all’azienda di nettezza urbana. A costei facevamo certamente un grande favore quando facevamo sparire le pile di Vogue e le disponevamo accanto alla nostra stufa: avevamo scoperto che una sola di quelle riviste (a volte spesse anche tre centimetri) bruciava così lentamente da fare calore continuo e durare anche un’intera mattina o un pomeriggio. Se poi la rivista era ancora inguainata nella sua protezione di sottile plastica, meglio! Andammo avanti tutto l’inverno con quel sistema, sordi ad ogni critica di buon senso che metteva a confronto una tale pratica dissennata con le nostre pretese di alfieri dell’ecologia.

In casa, relegato nel vecchio soppalco della prima stanza, avevo da troppo tempo materiale che non usavo più: due paia di scarponi da sci in poliuretano, tre paia di sci di plastica e altra roba. Un giorno presi a piccozzate gli sci e ne gettai i pezzi nella stufa. Anche lì, altri due-tre giorni rubati al rigore invernale; poi buttai nella De’Longhi anche gli scarponi, uno al giorno. Ci paragonavamo ai miserabili personaggi di Alan Ford e del gruppo TNT.
Fu probabilmente in quel periodo che ricevemmo l’inaspettata visita di due incaricati della Persol, la famosa azienda di occhiali alla moda. In effetti noi avevamo sparso la voce che avremmo potuto subaffittare uno spazio, ma mai più ci saremmo aspettati l’interesse di Persol, nientemeno! Quell’uomo e quella ragazza credo abbiano represso una smorfia di disgusto al solo entrare nel nostro locale. Eppure la visita durò una ventina di minuti in cui entrambe le parti fingevano un possibile accordo! Naturalmente ci lasciammo in modo interlocutorio e mai più li vedemmo.
Con questa tipologia di riscaldamento andammo avanti tutto l’inverno, senza alcun incidente. Ma vale la pena di riferire ora ciò che è successo l’inverno seguente. Un pomeriggio verso le 16, entrai nello scantinato. Non c’era nessuno in ufficio e, appena aperta la porta, fui aggredito da una fittissima coltre di fumo, attraverso la quale mi feci largo per guadagnare il lavandino e riempire un secchio d’acqua per spegnere l’inferno che languiva nella stufa. Ritentai l’accensione il giorno dopo, ma ancora il fumo invase lo scantinato. Mi risolsi allora a chiamare la portinaia con la quale andammo su per quattro piani fino al solaio. Nessuno entrava in quel locale da tempo immemore. Aperta la porta, ci trovammo immersi in un sottotetto da incubo: ogni centimetro quadro era ricoperto di uno strato di catrame nero, perché il camino era rotto e il fumo aveva preferito depositare le proprie schifezze nelle immediate adiacenze piuttosto che nell’atmosfera. Il nostro scantinato era invaso dal fumo, ma dove eravamo in quel momento non ve n’era alcuna traccia: dunque c’era di certo un ostacolo nella canna fumaria. La povera donna era disperata: non riusciva a capacitarsi di tutto quel catrame e io mi guardai bene dallo spiegarglielo. Fu chiamato uno spazzacamino, un essere che a fine anni Ottanta del XX secolo ci si meraviglia potesse ancora esistere. Piccolo di statura, sporco di nero e accompagnato da un bambino. Si esprimeva con suoni gutturali che solo il piccolo poteva comprendere.

Non avemmo cuore di assistere a come i due risolsero il problema. Due o tre mattoni del camino distrutto erano precipitati nella canna fumaria e l’avevano ostruita, costringendo lo spazzacamino a rompere il muro nella stanza dell’inquilino del secondo piano. Questi protestò parecchio, ma alla fine le responsabilità di tale sinistro non vennero mai accertate e noi ci salvammo il culo.
Ai primi di marzo 1989 Nella ed io decidemmo di avere un cane. Era da un po’ di tempo che ero affascinato dalla bellezza del pastore belga di varietà Groenendael, quello a pelo lungo tutto nero con una tipica macchiolina bianca sul petto. Chissà perché proprio lui, con tutti i cani belli che ci sono. Diventammo perciò i padroni della cucciolona Farah e fui io ad attribuirle quel nome. Ricordo la prima sera. Ne eravamo giunti in possesso la mattina, io poi ero uscito. Quando rientrai chiesi a Nella se Farah aveva mangiato.
– Sì… con moderazione – mi rispose. Guardavamo il nostro cane con tanta tenerezza.

La prima uscita che le facemmo fare fu sui Monti della Laga, il 16 aprile 1989. Fu anche il primo lungo viaggio del mio nuovo acquisto, una Volkswagen Passat Station Wagon.
La manifestazione era iniziata a Teramo il giorno prima (la sala del cinema Smeraldo contava oltre un migliaio di persone), poi si era svolta registrando la massiccia presenza di un pubblico che simbolicamente percorreva i sentieri della Laga per proteggerli. Circa 3.500 tra alpinisti, escursionisti e amanti della montagna erano saliti sui pendii con i rimasugli di neve e avevano determinato il successo di quella che è stata la prima grande manifestazione, svoltasi in Italia, a favore dell’istituzione di un parco naturale.
Per fortuna le catastrofiche previsioni del giorno prima non si avverarono: il tempo era assai nebbioso, ma non nevicò né piovve sull’iniziativa SOS Monti della Laga, SOS Appennino.

Mountain Wilderness, in collaborazione con il Comitato Promotore del Parco Nazionale della Laga e con l’adesione di tutte le maggiori associazioni ambientaliste italiane, seppe promuovere un appuntamento importante, dopo tanti anni di mugugni a cose fatte. Questo piccolo gruppo di monti, tra il Tirreno e l’Adriatico, ma più vicino a quest’ultimo, rischiava di essere avvolto in una bella confezione regalo con carta lucida e colorata, con disegnini firmati, pronto per esser venduto ai “turisti”.
Decine di bus del CAI di Roma, e di altre sezioni del CAI dell’Italia Centrale, avevano portato i pacifici invasori sui prati della Laga. Le scarpinate alle varie mete della lunga cresta furono più lunghe del previsto, Nella ed io con Farah salimmo in vetta al Pizzo di Moscio 2411 m assieme a due dozzine di altre persone, per poi quasi perderci nella nebbia in discesa tra boschi fitti e cascatelle.

Ci consolammo con la colossale spaghettata offerta ad Amatrice dal pastificio Caporale di Fara S. Martino e poi tutti in piazza con la musica blues e swing della Classic Jazz Band, tanto per rendere ancora più vero quello spirito di festa che aveva caratterizzato il raduno.
“Un parco non deve limitarsi a esistere all’interno dei propri confini – aveva detto a Teramo il coordinatore di Mountain Wilderness, Carlo Alberto Pinelli – ma deve essere un veicolo promotore di nuove forme di cultura e di economia. Nessuno è un intruso davanti alla natura“, parole che suonano a conferma del concetto di parco esteso e non isola sperduta in un mare di disastri.
Sempre al cinema Smeraldo il ritardo cronico della protezione ambientale in Italia era stato sottolineato da Piero Angela, che aveva messo in evidenza come il nostro paese fosse il fanalino di coda rispetto ad altri stati europei, una sorta di terzo mondo dell’ecologia. “Non si vuole precludere l’avvento della tecnologia, ma prima di tutto ci vuole intelligenza“, queste le conclusioni del conduttore di Quark.

Ricordo che quando prese la parola Alfredo Fermanelli del comitato promotore del Parco della Laga, iniziarono le contestazioni. Urla e insulti lanciati da alcuni isolati, invitati subito da noi ad esprimere in modo più civile e costruttivo le loro opinioni. Alla fine i toni da sceneggiata si calmarono con maggior serenità dell’oratore.
C’era anche il ministro per l’ambiente Giorgio Ruffolo, che citava il modello statunitense in materia di parchi e introduceva le proposte dei prossimi parchi: Pollino, Sibillini, Dolomiti Bellunesi e Marina di Orosei. Ancora contestazioni e polemiche all’inizio della relazione di Stefano Ardito: un bello scambio di battute e poi il giornalista romano ha ricordato al pubblico la breve, ma intensa, storia del movimento. Ma soprattutto ha introdotto il concetto di “montagne mediterranee” che accomuna tutta una serie di territori minacciati dalla cecità politica dei governi. Ardito nominava anche il caso eclatante del Monte Olimpo, dove si voleva costruire una grottesca Disneyland stile antica Grecia con una bella funivia per raggiungere la cima.

E’ con grande soddisfazione che oggi i Monti della Laga sono Parco Nazionale. Non altrettanto contenti possiamo essere dell’esito odierno di altre iniziative di quel tempo, tipo quelle contro la distruzione dell’antro del Corchia nel Parco regionale delle Alpi Apuane.
A spezzare la regolarità delle mie uscite a Finale Ligure ci fu la bella settimana passata con Andrea Gallo a Buoux, in Provenza. Avevo sempre gradito la sua compagnia, stimavo assai la sua bravura e nello stesso tempo capivo quanto lui fosse affascinato da quell’alpinismo che non praticava. In quel periodo di maggio da lui imparai un sacco di cose, soprattutto la voglia di mettermi in gioco, di non stimare me stesso perdente in partenza.

Passammo cinque giorni a Buoux e un sesto alla Tête de Chien. Personalmente ero assai “ingaggiato” nei vari 6c, 6c+ e 7a, tentati o “chiusi” tra i vari tentativi che Andrea faceva su difficoltà ben superiori. Ci fu però un grave episodio che turbò lo svolgersi di quelle serene giornate. Il 9 maggio stavamo scalando su una parete a sinistra di Le Styx (ero giusto sceso da Camenbert Fergusson), quando sentimmo un urlo agghiacciante provenire dalla nostra destra. Ci precipitammo nel boschetto di lecci e scoprimmo che l’incidente era capitato a Lynn Hill, che avevamo appena salutato la mattina stessa. Lei era in compagnia del marito Russ Raffa e dell’amica Robyn Erbesfield. Lynn si era legata ed era partita in testa su Buffet froid (6b+) salendo quella lunghezza di 25 metri senza ovviamente alcun problema. Ma quando giunta in sosta si lasciò andare per essere calata in moulinette, cadde non trattenuta da nulla. Per fortuna, prima dell’impatto col suolo, colpì le robuste fronde di un leccio.

I suoi amici la davano per morta, ma lei era viva e cosciente. Evidentemente, distratta da qualcuno, non aveva terminato l’esecuzione corretta del nodo.
Immediatamente arrivarono i soccorsi e la nostra presenza si rivelò superflua in mezzo a tutti quei francesi. Decidemmo comunque di andare anche noi all’ospedale per esserle in qualche maniera vicini. Lì venimmo a sapere che si era spaccata un gomito e fratturata un piede. Praticamente un miracolo. Lei stessa in seguito la definì la “caduta perfetta”. Ci sarebbero voluti sei mesi prima che rimettesse mani su roccia, ma nel gennaio 1990 Lynn sarebbe diventata la prima donna a salire un 8b+ (Mass Critique, a Cimaï, Francia).
Quel maggio fu assai importante per le mie vicende affettive. Quasi senza che ce ne rendessimo conto, Bibi ed io ci incontrammo di nuovo e questa volta fu un altro fulmine cui nessuna opposizione era possibile. Divenne obbligatorio il mio trasloco da via Volta a corso Sempione 88. D’improvviso c’era la netta sensazione che questa decisione fosse irreversibile. Il cammino assieme a Nella, durato 21 anni esaltanti ma con parecchie traversie, era davvero finito. Questo mi dispiaceva molto, ma nel frattempo non riuscivo a sopportare che Bibi stesse partendo a giugno per un viaggio in Perù con Marco Fanchini, destinazione l’Alpamayo.

Costruita negli anni ’50, poi allargata, ristrutturata e asfaltata nel 1970, la strada che da Misurina porta al rifugio Auronzo 2320 m, era di proprietà del comune di Auronzo, lunga 7,5 km e soggetta a pedaggio.
Su quella strada transitavano a rumorosa e forte velocità 80.000 auto e autopullman privati nei due mesi e mezzo di apertura estiva, per un totale di circa 200.000 visitatori e un totale di 400 milioni di lire di ricavo lordo dichiarato. E ciò stando solo alle cifre ufficiali, senza neppure considerare coloro che salivano di notte per non pagare il pedaggio o coloro che la sfruttavano come punto di partenza per esercitazioni di fuoristrada, motocross, ecc.
Al carico di circa 1.100 auto al giorno e di circa 2.700 persone al giorno andavano aggiunti almeno altri 1.000 escursionisti giornalieri che arrivavano a piedi nella stessa zona partendo dalla Val Fiscalina (BZ).

Tutto ciò era decisamente inaccettabile, anche perché già allora si prevedevano incrementi di frequentazione. Era destinato a crescere (e di parecchio) il dato dei 562.152 arrivi estivi nelle valli ladine (compresa Cortina e la Valle del Boite), come pure le 4.783.669 presenze estive sempre soltanto nelle valli ladine e le 400.000 presenze estive nella Val d’Ansiei (Auronzo).
Mentre da una parte ritenevamo che il turismo dolomitico non avesse certo bisogno della strada delle Lavaredo (che anzi lo dequalificava e lo “riminizzava”), eravamo anche certi che il tasso di frequentazione turistica in quella zona era altamente deleterio e inquinante, così come era impostato e favorito.
Ritenevamo pure che si dovesse in generale porre un freno all’espansione motorizzata in alta montagna: esempi potevano essere la strada che porta al Colle del Nivolet nel Parco Nazionale del Gran Paradiso, quella della Val d’Ambiez o, ancora, quelle in costruzione per la Val di Mello (SO) e Alpe Dévero (NO).

Aderirono alla nostra proposta di intervento SOS Dolomites, Club Alpino Italiano, Italia Nostra sezione Cadore, WWF sezione Veneto, Liste Verdi del Trentino, Alto Adige/Sudtirol, Veneto, PCI, federazione di Belluno. Il 2 giugno 1989, in occasione dell’arrivo di tappa del Giro Ciclistico d’Italia al rifugio Auronzo, proprio mentre veniva festeggiato il vincitore di tappa (il colombiano Luis Herrera), assieme alle altre associazioni, Mountain Wilderness chiese (di fronte a televisione e a numerosi giornalisti sportivi e per bocca di Reinhold Messner) che venisse chiusa al traffico privato detta strada per tutto il periodo estivo e che venisse istituito un efficiente e sostitutivo servizio pubblico per coloro che non volessero o non potessero affrontare a piedi il percorso.
Erano presenti a quell’avvenimento migliaia di appassionati: se migliaia di persone, sia pur per motivi di ordine pubblico, si sono sparpagliate ai lati di quella strada e hanno raggiunto il rifugio Auronzo a piedi, non si vedeva perché ciò non potesse essere la normalità di tutti i giorni dell’anno.

Purtroppo anche l’estate 1989 vide un traffico come sempre esagerato lungo la strada delle Tre Cime (e oggi, 34 anni dopo, tutto è peggiorato). Già in autunno ci chiedevamo se bloccare simbolicamente e unilateralmente la strada in uno qualsiasi dei giorni estivi del 1990.
Ancora freschi delle impressioni della folla delle Lavaredo ci ritrovammo a preparare la grande manifestazione dell’Olimpo (9 e 10 giugno 1989).
La più alta montagna di Grecia è un selvaggio massiccio calcareo sui versanti del quale, sotto una certa quota e sotto ai pini loricati, fanno bella mostra di sé pini neri e faggi. La fauna che la popola è quella tipica delle montagne mediterranee.
Ci sono pareti che raggiungono anche i 500 metri di altezza e nobilitano le varie vette del Mytikàs 2917 m, dello Stefani 2911 m, dello Skoliò 2911 m.
Kostas Tsipiras, il giornalista e alpinista ateniese che aveva promosso la manifestazione di giugno, ci aveva avvertiti: “Lo sfascio in progetto è colossale. Siamo un po’ come l’Italia degli anni ’60”. Il cemento dilaga sulle coste, sale verso le montagne. Impazzano i progetti più folli. Il Parnaso, la cosiddetta Montagna delle Muse che domina Delfi è già stato cancellato da una valanga di skilift, da quattro stazioni invernali diverse“.

Era vero. Sull’Olimpo, una piccola stazione invernale c’era già. E’ a Vryssòpoulos, sul versante sud-ovest. Gli skilift salivano verso la vetta dell’Ayios Antonios 2815 m. Ma non si vede dalle cime più alte, così da lasciare intatto il mito.
Purtroppo però si pensava a un ampliamento. Sul versante nord era in progetto una stazione nuova in collegamento alla vecchia attraverso l’altopiano accanto alle cime dello Skala e dello Skoliò.
C’era un imprenditore greco – tale Panagiotis Anagnostopoulos, che per anni era stato residente in Sud Africa – che voleva investire 4,5 miliardi di dracme (40 miliardi di lire) in una colossale funivia che raggiungesse la vetta. Era anche prevista, nelle magnifiche gole del fiume Enippeus, la nascita di una città tipo “Disneyland” che riprendesse in chiave turistica la Grecia antica, con Veneri di gesso e divinità da cartoni animati.

“Non sono soltanto fantasie – continuava Tsipiras – I paesi della zona sono tutti d’accordo, con due sole eccezioni. Lo stesso vale per il governo regionale di Larissa, in Tessaglia. Da Atene, si sta per dare il via. Ai finanziamenti, dovrebbe contribuire in maniera determinante la CEE“.
Sui muri di Litòchoron, il villaggio ai piedi del monte, c’erano degli sbiaditi manifesti che ricordavano le celebrazioni dell’anno precedente per i cinquant’anni di età del Parco nazionale dell’Olimpo. Non un cartello annunciava l’ingresso nel Parco a chi arrivava a Prionia. Nessuna guardia ne sorvegliava i confini. Ci sembrava che quell’area protetta, di soli e miseri 4.000 ettari, fosse un vero parco fantasma, pronto a ricevere la speculazione più bieca.

Salimmo a piedi, dai mille metri di Prionia ai 2100 del rifugio Spilios Agapitos, un percorso di selvaggia bellezza. “Giù le mani dall’Olimpo”, “Olimpo, non sei solo” dicevano gli striscioni innalzati accanto al rifugio e in cima alla montagna dal Club Alpino di Acharnès (un quartiere di Atene) e dagli ambientalisti di Salonicco e di Voloso, appoggiati da Mountain Wilderness.
A manifestare, tra le circa centocinquanta persone salite fino al rifugio (ma in vetta ai 2917 metri del Mytikàs molte meno), oltre a Reinhold Messner c’era anche l’alpinista greco più noto. “Ricordo quando si saliva a piedi dal mare – ha detto tra gli applausi George Mikhailidis, 72 anni, compagno di cordata di Emilio Comici e autore sull’Olimpo di 14 vie nuove – Oggi, la montagna è già deturpata. Quella per salvare questa cima è la nostra più importante battaglia“.

L’autunno seguente un convegno sancì la nascita di Mountain Wilderness Grecia. I “verdi” locali erano pochi, divisi, di fronte a colossali problemi, e si preoccupavano quasi esclusivamente delle loro città. Nessuno negava gli effetti del “nefos”, l’inquinamento che attanagliava Atene. Ma nel frattempo non si poteva lasciar morire l’Olimpo.
Qualche giorno dopo andai a Barcellona, per la fondazione della sezione catalana di Mountain Wilderness International, in occasione delle giornate in difesa dei Picos de Europa, in Spagna.
Chiudo con la consueta esposizione delle tabelle-elenco della mia attività in ordine di data. Voglio ricordare che il 4 febbraio 1989 e il 23 aprile 1989 feci i miei ultimi tentativi di “chiudere” Artigli sul futuro. Un obiettivo rimasto nei sogni…





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Chissà se dietro al palazzo di via Volta c’ era anche la mitica palestra dell ‘ardimento …con uno Sgrunf e le magliette adattate alla bisogna alpestre-“boia chi molla la lista da 10” oppure – “è meglio una onorevole ritirata con pasta al rifugio che una vittoria con caduta”.
Con tutto il rispetto per le stufe DeLonghi ma per bruciare gli scarponi meglio le vicentine Nordica ,per riviste scientiste/ patinate le stufe Focus mentre per volumi enciclopedici e tosti Palazzetti è invincibile 😉
Marcello, è vero che vivo in Sicilia, ma sono a 850 m e, soprattutto, forse non sono così sprovveduta da non sapere che anche quando solo apri lo sportello per inserire qualunque materiale (non ho mai visto stufe che auto-producano il combustibile!), esce il profumo – o il puzzo – di quel che bruci. Esce fumo anche quando si brucia legna verde o a volte con la corteccia, figuriamoci se si brucia plastica!!
Magari usiamo stufe diverse, chissà.
Stesso incidente capitato ad un mio amico tanti anni fa alla Perete delle Gemme a Rocca di Perti – Finale.
Risultato frattura del bacino.
“e le canne fumarie sono sottoposte a leggi severissime.”
adesso…mi sa che in passato ci sono stati un po’ troppi gogni!
In una stufa a legna l’odore di ciò che si brucia esce per il camino assieme al fumo.
Comunque (viste le condizioni di quello di casa Gogna) non si diffonde comunque nell’ambiente in cui la stufa sta. Se così fosse chi sta dove c’è la stufa finirebbe avvelenato subito.
Grazia, si vede che vivi in un paese dove fa caldo per cui di stufe a legna non c’acchiappi molto.
La fumisteria (una delle mie passioni) è una scienza vera e propria e le canne fumarie sono sottoposte a leggi severissime.
Grazie, Alessandro, per questa nuova condivisione!
Qui in Sicilia succede ancora che, insieme allo sfalcio, venga bruciata spazzatura varia che comprende anche plastica, a volte copertoni.
Mi sorprende che nessuno, compresi Alessandro e compagnia, lamentasse l’odore di plastica bruciata che a me dà subito alla testa.
Gli scarponi nella stufa a legna noooooo.
La diossina di Seveso era roba da dilettanti.
Questa, con l’acquisto compulsivo della BMW (secondo me la marca d’auto più volgare di sempre) sono due macchie indelebili sanate solo dall’ammissione di colpa. E chi è senza
Inquinare individualmente e fare gli ambientalisti collettivamente.
Fare gli ambientalisti individualmente sarebbe la cosa migliore, probabilmente.